Quale distensione tra Arabia Saudita e Qatar? La nuova partita nel Golfo
Middle East & North Africa

Quale distensione tra Arabia Saudita e Qatar? La nuova partita nel Golfo

By Giuseppe Dentice
01.04.2021

Arabia Saudita (KSA) e Qatar, con il benestare degli Emirati Arabi Uniti (EAU), sono pronti a compiere un primo grande passo verso una pacificazione della regione del Golfo, contribuendo – in parte – a rimescolare le carte in Medio Oriente. Che sia una svolta completa o una piena distensione è ancora troppo presto per dirlo, ma è innegabile che qualcosa sul versante arabo del Golfo sta cambiando e potrebbe avere impatti molto diffusi.

Come riferito dal sito di informazione Axios[1], l’accordo sarebbe stato mediato dagli USA, ma è presumibile pensare che sullo sfondo sia stata egualmente importante la tradizionale diplomazia silenziosa di piccoli attori come Kuwait e Oman, da sempre abili interpreti nel ruolo di mediatori. L’accordo è stato formalizzato durante il 41° vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) ad al-Ula (5-6 gennaio) e presieduto come da tradizione dal re saudita Salman. L’intesa prevede che KSA e gli EAU riaprano i confini terrestri, marittimi e aerei con il Qatar dopo oltre tre anni di embargo diplomatico, economico e logistico imposto dal cosiddetto “Quartetto arabo” (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto). Da parte sua, il Qatar annullerà tutte le azioni legali contro i Paesi vicini in qualsiasi sede regionale e internazionale.

Dal giugno 2017, Doha era stata accusata da Riyadh e Abu Dhabi di finanziamento del terrorismo islamista, di supportare la propaganda dell’Islam politico (e in particolare della Fratellanza musulmana) nell’area MENA – contribuendo di conseguenza alla sua destabilizzazione –, ma soprattutto di intrattenere rapporti compromettenti con l’Iran. Una misura estrema che ha lasciato diversi segni indelebili in tutta la Penisola arabica, ma che non ha piegato la resilienza qatarina. Nelle intenzioni del quartetto, infatti, l’embargo doveva indebolire il Qatar, costringendo l’emirato a cedere alle condizioni di Riyadh e Abu Dhabi e rivedendo in toto la sua politica energetica ed estera.

Se nel recente passato gli innumerevoli tentativi di mediazione, condotti per lo più da Kuwait e Oman e USA, non avevano portato alcun frutto, oggi invece qualcosa è cambiato e quel che emerge è più di un semplice segnale positivo. Non una svolta completa, né una totale riconciliazione, ma una situazione di graduale distensione che potrebbe avere un impatto notevole nei rapporti intra-Golfo e nelle dinamiche di sicurezza della Penisola arabica, ma anche in molte delle questioni conflittuali e/o critiche che attraversano l’intero Medio Oriente. Infatti, un aspetto peculiare della crisi tra KSA e Qatar è stato rappresentato anche dalle sue ramificazioni molteplici e altamente destabilizzanti nella regione MENA allargata, comprendendo quindi le competizioni diffuse tra Mediterraneo, Africa saheliana e Mar Rosso-Corno d’Africa. Da questo punto di vista è evidente che gli sforzi attuali per una distensione contribuiranno a ridurre il livello delle tensioni esistenti, ma non è chiaro come e quanto i problemi di fondo verranno eliminati, superati o rimarranno congelati, in attesa di riemergere alle prime difficoltà concrete. Le sfide sono tante e non sarà certo un’intesa di breve respiro a determinare un cambiamento profondo nell’area MENA. Rimangono ancora diversi i punti oscuri e di difficile risoluzione, a cominciare da quali concessioni il Qatar abbia fatto, o prometta di fare, riguardo a un cambiamento nelle sue politiche; per non parlare di come l’Egitto reagirà all’intesa di al-Ula, nonché di come il dossier turco potrà influenzare le dinamiche tra le parti più accese (soprattutto egiziani ed emiratini che sono in competizione un po’ ovunque con Doha e Ankara). Non meno rilevante, infine, sono gli effetti a livello di conflitti regionali (Libia, Siria e Yemen) e come l’entente tra Qatar e KSA potrà avere dei riflessi nelle relazioni competitive tra Riyadh e Abu Dhabi[2].

Ciononostante, e al netto delle contraddizioni e dei dubbi pendenti, quel che è emerso in queste ore è un fatto molto importante e il principale rischio per la sorte dell’intesa potrebbe essere rappresentata dai termini limitati e/o fumosi della stessa. L’intesa è un tentativo di andare oltre le beghe esistenti, lasciando inalterato il suo impianto di conflittualità e assumendo i contorni di una tregua tattica, o essa si presenta come una misura di compromesso che guarda ad una nuova forma di unità subregionale partendo da piccoli ma ben chiari step? Sono tante le domande in tal senso e ancor di più i dubbi che potrebbero emergere nelle prossime settimane.

Ma quali fattori hanno determinato questo passo? Secondo molti insider e analisti a determinare la détente intra-Golfo sarebbe un processo di ricompattamento del Golfo arabo in previsione di una possibile ripresa delle tensioni USA-Iran. Di fatto, la minaccia di una ripresa delle ostilità con la Repubblica islamica avrebbe ricompattato le fila nel Golfo arabo per fare fronte comune alle sfide che la regione deve affrontare. Sebbene sia innegabile il valore e l’impatto potenziale rappresentato dalla dinamica conflittuale tra Washington e Teheran, questa chiave di lettura potrebbe essere troppo semplicistica e non l’unica in grado di spiegare il contesto. Il perché è presto detto: l’Iran si trova ad affrontare una situazione di profonda crisi economica, aggravata dalla pandemia da Covid-19, e gli effetti politici delle uccisioni illustri di Qassem Suleimani, comandante delle brigate al-Qods delle guardie della Rivoluzione islamica e responsabile delle operazioni estere di Teheran, e di Mohsen Fakhrizadeh, direttore generale del programma nucleare iraniano, non sono state digerite adeguatamente dall’establishment militare, politico e religioso della Repubblica islamica. Inoltre, il dossier iraniano sopravvivrà nel tempo e anche il cambio di amministrazione negli USA (da Trump a Biden) potrebbe influire solo in parte nella strategia di contenimento adottata da Washington nei confronti di Teheran. Altresì è vero che la vittoria di Biden ha indirettamente contribuito ad incrementare le pressioni nei confronti dei sauditi per ottenere un cambio di rotta nella sua politica estera. Tuttavia, non può essere il solo fattore USA, con l’annesso elemento di stabilizzazione regionale rappresentato dal connubio accordi di Abramo-accordo del secolo (in entrambi i casi si segnala un ruolo attivo israeliano), a definire un cambio di passo nei confronti del Qatar.

Pur non volendo sottovalutare tutti questi elementi, forse le ragioni di un riavvicinamento tra KSA e Qatar sono da rintracciare altrove. Nella fattispecie, questo potrebbe risiedere negli impatti economici, energetici e sociali provocati dalla diffusione del Covid-19 sulle dimensioni interne ai singoli Paesi del Golfo e, soprattutto, dal calo susseguente dei prezzi degli idrocarburi su scala planetaria, contribuendo indubbiamente a riconsiderare diverse questioni e situazioni di massimo interesse per gli attori in gioco. Nel Golfo sono in tanti ad aver accusato duramente le conseguenze economiche e sociali della crisi in corso e ancor di più si è reso inevitabile riconsiderare sforzi politici e militari che potessero pesare nell’immediato (vedasi il graduale sganciamento di KSA ed EAU dal conflitto yemenita) o non essere sostenibili e perseguibili nel lungo periodo. Rientrano soprattutto in questa opzione tutta una serie di voci di spesa che vanno dal settore militare ai progetti infrastrutturali elefantiaci (si pensi al progetto saudita NEOM), ai grandi eventi internazionali (il Qatar ospiterà nel 2022 la Coppa del Mondo di calcio FIFA, mentre gli EAU dovranno gestire adeguatamente le sfide dell’Expo di Dubai 2021), per non parlare dei progetti – in alcuni casi mastodontici – di trasformazione, transizione e diversificazione della struttura economica delle monarchie dell’area Golfo, ancora troppo dipendenti dal fattore energetico e proceduti non in maniera spedita come nelle previsioni dei leader. Le difficoltà riscontrate dalla visione saudita 2030 è un caso eloquente, ma anche le economie di EAU e Qatar hanno subito duri contraccolpi in tal senso. Il contesto è quindi problematico per tutte le monarchie del CCG, che fanno ancora troppo affidamento sulle entrate energetiche per definire spesa sociale, investimenti e, più in generale, la gestione di quei floridi bilanci nazionali che hanno permesso di mantenere la pace sociale e il consenso politico sul piano interno attraverso la redistribuzione delle ricche rendite energetiche. In un periodo di crisi come quella attuale, le ripercussioni sono importanti anche al di fuori dei confini nazionali: basti prendere ai casi di Giordania ed Egitto, che dipendono fortemente dagli aiuti esteri del Golfo e potrebbero essere colpiti duramente in caso di una diminuzione sostanziale dei flussi. Per affrontare questa crisi, tutti i rentier state hanno annunciato pacchetti di stimolo all’economia, stanziando miliardi di dollari a sostegno delle imprese private nel tentativo di attenuare l’impatto economico e non minare la stabilità di quei sistemi. Un trend che può essere esteso anche ad altri casi in Medio Oriente, come ad esempio in Israele e Turchia[3]. In questo senso, quindi, sembra emergere più chiaramente una necessità impellente di tipo economico che potrebbe aver spinto le parti a congelare almeno temporaneamente le frizioni esistenti, al fine di far fronte a minacce più impellenti e impattanti a livello strutturale. In altre parole, la condizione economica potrebbe aver convinto le parti a ritenere non più sostenibile l’embargo. Se a ciò si aggiungono tutti i problemi rimasti irrisolti tra Arabia Saudita, EAU e Qatar e le sfide regionali molteplici ancora pendenti a cui la nuova Amministrazione Biden dovrà per forza far fronte insieme ai partner del Golfo, allora abbiamo un quadro alquanto verosimile delle determinanti che hanno contribuito a definire questo nuovo passo tra KSA, EAU e Qatar. In questo senso, l’intesa firmata ad al-Ula toglie all’Iran la possibilità di giocare sul fattore divisivo intra-Golfo, concedendo ai sauditi una carta in più nelle macro-dinamiche regionali al fianco degli USA.

In conclusione, è difficile, se non addirittura troppo prematuro, considerare questo riavvicinamento come la fine della crisi nel Golfo. Altresì è verosimile ritenere che un mix di elementi come il cambio di amministrazione negli USA, il contesto regionale in evoluzione, le debolezze iraniane e la crisi economica diffusa possa aver contribuito in maniera determinante nel rimodellare le opzioni di gioco. Ciò detto, non bisogna aspettarsi grandi stravolgimenti né che le tensioni e/o gli equilibri regionali possano scomparire di colpo. La speranza di una distensione è un fatto concreto, così come i rischi di un possibile nuovo peggioramento nei rapporti sub-regionali. Il tempo dirà se l’intesa avrà un valore strategico ampio o se si confermerà un fuoco di paglia tra Riyadh, Abu Dhabi e Doha.

[1] Barak Ravid, Saudi Arabia, Qatar to sign U.S.-brokered deal to ease Gulf crisis, “Axios”, January 4, 2021, https://www.axios.com/gulf-crisis-saudi-qatar-kushner-a841850a-4fc6-4f6a-965a-628a03b9ad23.html.

[2] Per un maggiore approfondimento sulle divergenze tra KSA e EAU, si veda: Federico Donelli, Near in fear and far in aspiration: convergences and differences of the KSA-UAE alliance, Analysis, Al Sharq Strategic Research, December 25, 2020, https://research.sharqforum.org/2020/12/25/near-in-fear-and-far-in-aspiration-convergences-and-differences-of-the-ksa-uae-alliance/.

[3] Particolarmente interessante è il caso turco che vede un Paese alle prese con una profonda crisi economica, parzialmente amplificata dalla conseguenze della pandemia. Proprio queste difficoltà legate alla struttura economica hanno contribuito a favorire un riavvicinamento di Ankara a Riyadh, e in maniera ufficiosa anche a Tel Aviv.

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