Arabia Saudita e Iran in bilico tra distensione tattica e rivalità strategica
Middle East & North Africa

Arabia Saudita e Iran in bilico tra distensione tattica e rivalità strategica

By Giuseppe Manna
05.03.2024

Negli ultimi giorni di aprile, 85 iraniani hanno completato il pellegrinaggio della umrah alla Mecca, dopo nove anni di blocco dei visti rilasciati dalle autorità saudite. Riyadh ha rimosso le limitazioni all’ingresso per motivi religiosi dei cittadini della Repubblica islamica come gesto per rilanciare i rapporti bilaterali. La decisione conferma il riavvicinamento tra le due potenze del Golfo, reso possibile dalla mediazione della Cina e annunciato a marzo del 2023. Appare così superata la stagione della contrapposizione a viso aperto. Sembrano molto lontani i picchi di attrito raggiunti a seguito degli attentati ai siti petroliferi di Abqaiq e Khurais da parte degli Houthi legati all’Iran nel settembre del 2019. Anche la fase attuale di crisi, segnata dal primo attacco a Israele partito direttamente dal territorio della Repubblica islamica, non ha fatto deragliare il percorso di riconciliazione tra i due Paesi. Ma considerare svanita la rivalità tra Arabia Saudita e Iran significherebbe fermarsi alla superficie di una distensione che rimane tattica e non cancella alcuna delle ragioni di un antagonismo strategico destinato a riemergere.

La sera del 13 aprile, mentre decine di droni e missili balistici e da crociera lanciati dalle installazioni militari dell’Iran occidentale solcavano i cieli dell’Iraq e della Giordania per colpire Israele, l’Arabia Saudita non è rimasta inerte. L’aeronautica e la contraerea di Riyadh erano infatti impegnate ad abbattere gli ordigni volanti partiti contemporaneamente dalle basi degli Houthi in Yemen verso Israele. L’operazione è stata presentata come reazione alla violazione dello spazio aereo nazionale, che sarebbe scattata indipendentemente dall’origine e dalla destinazione della minaccia. Non sappiamo poi se, con la massima discrezione, aerei sauditi abbiano contribuito direttamente alla distruzione dei droni e missili iraniani nei cieli giordani. Le autorità della petro-monarchia sunnita hanno però lasciato filtrare la notizia che informazioni di intelligence e sulla rotta degli ordigni siano state fatte pervenire a Tel Aviv. Magari attraverso la scelta di condividerle con gli americani, ben sapendo che avrebbero avuto Israele come destinatario finale.

La posizione saudita nello scacchiere mediorientale attuale è molto delicata. La guerra nella Striscia di Gaza seguita al massacro di Hamas del 7 ottobre ha colto di sorpresa Riyadh, che stava negoziando con Israele una storica normalizzazione dei rapporti diplomatici. Le trattative sembravano arrivate a uno stadio avanzato prima di essere travolte dagli eventi e dalla pressione sul governo esercitata da un’opinione pubblica diffusamente solidale con il popolo palestinese. I rapporti tra i rispettivi apparati di sicurezza, risalenti all’ultimo decennio del secolo scorso, restano però più saldi che mai. Anche il tono dei comunicati del Ministero degli Esteri, che condanna sistematicamente come sproporzionate le distruzioni e le sofferenze dei civili provocate dall’esercito israeliano a Gaza, denota una certa moderazione dialettica. Si tratta di indicatori del fatto che gli al-Saud non intendono troncare il dialogo con Tel Aviv né alienarsi la protezione degli Stati Uniti.

Tale approccio potrebbe risultare di difficile comprensione dinanzi al fatto che il vento dei sentimenti anti-israeliani soffia ora forte in tutto il mondo musulmano. E la spiegazione sarebbe oggettivamente impossibile senza prendere in considerazione le faglie di rivalità che separano l’Arabia Saudita e l’Iran. Alla competizione economica e geopolitica di vecchia data, adesso si aggiunge con prepotenza la constatazione della vulnerabilità del territorio di Riyadh sul piano securitario. Si tratta di fattori strutturali e non legati alle contingenze, che i buoni uffici cinesi hanno soltanto smussato. La mediazione di Pechino ha permesso a Iran e Arabia Saudita di guadagnare tempo attraverso la definizione di un modus vivendi di accettazione reciproca e percepito come necessario a rafforzare le rispettive posizioni.

La Cina è riuscita a far sedere al tavolo i rappresentanti dei due Paesi anche grazie al fatto che è il primo importatore di petrolio iraniano e saudita. La Repubblica islamica, infatti, vende alla prima economia asiatica addirittura il 90% della sua produzione, altrimenti quasi impossibile da esportare a causa delle sanzioni occidentali. Mentre l’Arabia Saudita invia poco più di un quarto dei barili prodotti. Per entrambi, quello cinese si configura dunque come un mercato di sbocco fondamentale per le rispettive esportazioni di idrocarburi. Sebbene l’economia di Pechino sia sempre assetata di energia a prezzi bassi, Riyadh e Teheran sono concorrenti per piazzare il loro petrolio. Ne deriva una rivalità che tocca anche altri aspetti dell’economia.

Anche se l’Arabia Saudita beneficia dei costi di estrazione più bassi al mondo, il Paese è consapevole di non poter contare per sempre sulla ricchezza derivante dai combustibili fossili. Ne consegue un consistente sforzo di differenziazione delle attività produttive, in atto già dal 2016 a seguito della pubblicazione della Saudi Vision 2030, che ne riassume gli obiettivi principali. Lo sganciamento dal petrolio sembra però procedere più lentamente del previsto e tra molte difficoltà. E il deterioramento delle condizioni di sicurezza regionale sta certamente influendo, soprattutto sul turismo che stenta a decollare. Il senso di urgenza nella riforma del sistema è acuito dalla percezione del potenziale economico dell’Iran. La Repubblica islamica dispone infatti di un mercato interno di quasi 90 milioni di persone (più del doppio della popolazione saudita) con un buon livello medio di istruzione e salari molto bassi. Tali condizioni potrebbero fare di Teheran una destinazione privilegiata di investimenti, dando vita a un nuovo e importante opificio asiatico, qualora il soffocamento economico voluto dall’Occidente dovesse svanire o allentarsi in maniera stabile. A questo si aggiunge la secolare vocazione mercantile persiana, che contribuirebbe a fare del Paese una piattaforma commerciale di primaria importanza.

La rivalità economica si manifesta anche in contesti apparentemente slegati dagli affari. A gennaio di quest’anno, l’Arabia Saudita ha annunciato di essere a lavoro per riaprire la sua Ambasciata a Damasco. Dopo quasi un decennio di ostracismo, appare evidente che la caduta del regime di Bashar al-Assad non è più ragionevolmente ipotizzabile né asupicabile. Le petro-monarchie hanno fiutato la possibilità di ottenere contratti miliardari nella ricostruzione e non intendono permettere che siano soltanto gli iraniani e i russi a entrare in questo business così ghiotto. I primi a intravedere tale opportunità sono stati gli emiratini, che ora i sauditi tentano di imitare non senza antagonismi tutti interni al Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il riavvicinamento ad Assad risponde però all’esigenza principale di arginare le iniziative iraniane nel Levante. Senza il sostegno di Teheran e di Mosca, la guerra civile siriana avrebbe avuto esiti molto diversi. Tale appoggio consente all’Iran di riscuotere importanti dividendi sul piano geopolitico sotto forma di una consolidata proiezione strategica estesa fino alle coste levantine.

L’aspirazione della Repubblica islamica è di costruire un “crescente sciita” esteso dal confine con il Pakistan fino al Mediterraneo orientale. Passando per l’Iraq e disponendo di un utile alleato nella parte di Yemen controllata dagli Houthi, il regime degli ayatollah punta a mettere l’Iran al centro di un sistema di alleanze in grado di garantirgli una bolla di sicurezza sufficientemente ampia e solida. Senza ostacoli alla realizzazione di tale progetto, Teheran disporrebbe di catene logistiche sicure verso il Libano e la Siria. Queste linee potrebbero essere utilizzate all’occorrenza per destabilizzare la Giordania ed esercitare una pressione sull’Arabia Saudita ancora più efficace di quanto non accada già attraverso le milizie filoiraniane attive lungo il confine iracheno. Non a caso, i sauditi accolsero con malcelato compiacimento la notizia dell’uccisione per mano americana del Generale Qasem Soleimani, considerato uno dei principali sostenitori della necessità di ampliare la profondità strategica della Repubblica islamica. Un Medio Oriente a prevalente influenza iraniana significherebbe per i sauditi dover rinunciare a una parte significativa delle proprie ambizioni di crescita e sviluppo ma soprattutto accettare di essere circondati da attori potenzialmente ostili, in grado di minacciare il loro territorio se opportunamente sollecitati dai rivali persiani.

La drammatica notte del 13 aprile ha marcato il superamento di una linea rossa, che sembrava invalicabile. E cioè che il rischio di un conflitto simmetrico a livello regionale ma con inevitabili ripercussioni globali non è più un’eventualità considerata remota fino a poco tempo fa. Questo ha messo ancora di più a nudo la vulnerabilità del territorio saudita, già emersa durante le operazioni contro gli Houthi, riusciti più volte e con facilità a bucare lo spazio aereo del vicino nelle loro rappresaglie ai bombardamenti dell’aviazione di Riyadh. Il regno saudita non dispone di sistemi di difesa sofisticati e capillari come quelli impiegati da Israele e in caso di attacco iraniano le sue capacità potrebbero essere velocemente saturate data anche la vastità del territorio. I sauditi hanno avuto quindi un’ulteriore dimostrazione della loro esposizione a eventuali pericoli, che impone molta cautela nell’adozione di scelte per non alienarsi la protezione degli americani. La cooperazione militare e securitaria con gli Stati Uniti resta imprescindibile per Riyadh che, almeno per il momento, non può certo contare sui rivali di Washington per garantirsi un aiuto efficace in caso di necessità.

Non è una coincidenza che, durante la tappa saudita del tour mediorientale del Segretario di Stato USA Antony Blinken, le parti abbiano sottolineato di essere vicine alla firma di due trattati bilaterali in materia di difesa e sul programma nucleare civile di Riyadh. Gli accordi sono stati presentati come parte di quello che i media statunitensi hanno chiamato mega-deal in gestazione con l’Arabia Saudita da implementare dopo la guerra a Gaza. L’obiettivo è di rifondare su nuove basi i rapporti tra i due antichi alleati e dare avvio a un ambizioso progetto di integrazione della regione, unendola contro la minaccia della Repubblica islamica. Tale progetto non può prescindere dalla normalizzazione delle relazioni con Israele, anche se permangono le condizioni poste dai sauditi per l’avvio di un percorso credibile in vista della creazione di uno Stato palestinese. Il solo fatto però che se discuta mentre le operazioni militari a Gaza continuano è significativo che c’è tutto l’interesse di Riyadh (oltre che degli Stati Uniti) a costruire un argine quanto più solido e ampio possibile dinanzi al regime degli ayatollah e alle sue velleità egemoniche.

Nonostante i toni distesi e i sorrisi profusi in abbondanza durante le visite ufficiali, non è certo bastata una manciata di incontri segreti all’ombra della bandiera cinese per dissolvere la contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran. Tale rivalità trae linfa vitale dall’ambizione della Repubblica islamica di acquisire uno status di potenza capace di determinare gli equilibri di tutta l’area mediorientale e dalla paura dei sauditi di esserne travolti perché non in possesso delle forze e delle risorse necessarie a opporvisi. Da questo deriva il senso di precarietà che pervade il regno degli al-Saud e la conseguente determinazione a reagire per non far trovare il Paese impreparato in caso di pericolo. In una fase di veloce delegittimazione dei limiti morali e giuridici all’uso della forza, Riyadh è animata da un debordante senso di urgenza. E non ha altra scelta che percorrere la strada dell’alleanza con gli Stati Uniti e con il loro alleato israeliano. Sperando che il tempo guadagnato grazie alla distensione tattica con l’Iran sia sufficiente a non perdere la sfida strategica che oppone le sponde del Golfo.

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