Accordo militare tra Iraq e Arabia Saudita: segnali di riposizionamento nell’area Golfo
A Riyadh la visita del Ministro della Difesa iracheno Thabet al-Abbas all’omologo saudita Khaled bin Salman (4 novembre) si è conclusa con la firma di un memorandum d’intesa incentrato sulla cooperazione militare. Dal punto di vista dei rapporti bilaterali tra i due Paesi, questo tassello si inserisce all’interno del mosaico di distensioni regionali realizzatosi negli ultimi anni. Tuttavia, il contesto specifico tra Arabia Saudita e Iraq rappresenta una sorta di unicum, dato che dal 2015, nell’allora contesto di crisi serpeggianti a livello mediorientale, i due Stati hanno iniziato a dialogare, tanto che da Riyadh si è spinto per la riapertura dell’Ambasciata saudita a Baghdad, assente dal 1990 in seguito all’invasione irachena del Kuwait. Seguendo un ritmo sostenuto (ma costante), la cooperazione tra Baghdad e Riyadh ha conosciuto una fase di espansione in numerosi settori, anche grazie all’istituzione d’iniziative come il Consiglio di Coordinamento saudita-iracheno del 2017, organismo adibito alla promozione di partnership e collaborazioni in numerosi settori strategici: dall’energia all’agricoltura, passando per il settore petrolchimico e bancario.
In questa prospettiva, la stipula del memorandum in ambito militare è una novità che si inserisce coerentemente in un quadro più ampio di riconfigurazione di equilibri e accordi, che si andranno delineando in Medio Oriente con maggiore enfasi specie dopo la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca. L’evoluzione degli eventi susseguitisi da un punto di vista mediorientale, partendo dal progressivo allentamento della presenza americana nel quadrante, sembra suggerire un’accresciuta capacità di manovra degli attori regionali rispetto al passato, nella misura in cui la consuetudinaria chiave di lettura in termini di sfere d’influenza tradizionalmente ereditata dalla Guerra Fredda non sembra più analiticamente valida. Nel caso in questione, la prospettiva saudita segue a intermittenza un allineamento alle politiche statunitensi (e di riflesso, ma in parte, israeliane) nella regione; un esempio è l’avversione nei confronti degli Houthi, che rappresentano per Riyadh un pericolo per la sicurezza nazionale dal 2015, quando l’intervento saudita in Yemen in sostegno del governo dell’allora Presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi aprì una stagione di attacchi e ritorsioni da parte dei ribelli lungo il confine meridionale del Regno. Costoro, dimostrarono di disporre di un arsenale (sviluppato anche grazie all’appoggio finanziario iraniano) capace di colpire infrastrutture critiche e zone in profondità nel territorio di Riyadh.
La stipula di un’intesa di cooperazione militare con Baghdad, un vicino che al momento non sembra garantire un livello accettabile di stabilità interna, testimonia la propensione da parte di Riyadh verso una politica orientata al pragmatismo, supportando attraverso differenti canali (commerciali, infrastrutturali e, come in questo caso, militari) il tentativo di assicurare la sicurezza dei propri confini tanto a nord quanto a sud. Sviluppo economico e importanti riforme nel comparto militare e della Difesa sono pilastri dell’imponente progetto multisettoriale Vision 2030, vettori ai quali il Regno ha deciso di dare priorità assoluta in ragione della montante tensione nel panorama mediorientale, causata in primo luogo dal surriscaldamento del confronto tra Israele e Iran. Il Principe ereditario e Primo Ministro Mohammed bin Salman è autore, in questo periodo storico scandito da crescente instabilità, di una politica estera recettiva su più fronti, tradotta a livello materiale nella ricerca di dialogo multilaterale e alleanze che non minino la capacità di manovra di Riyadh; in attesa di conoscere la prospettiva della nuova Amministrazione Trump, verosimilmente diretta verso la riapertura del dossier inaugurato dagli Accordi di Abramo sulla normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e il Regno, l’utile (a livello di consenso interno, ma anche in generale al mondo arabo) difesa nei confronti della causa palestinese è tra i principali argomenti che, ad esempio, hanno posto le condizioni per un cauto riavvicinamento nei rapporti con l’Iran (mediato, nota rilevante, da Pechino). Il dato che attesta l’assenza di attacchi Houthi nel territorio saudita nell’ultimo anno potrebbe suggerire che dietro alle dichiarazioni politiche rivolte al rispetto della sovranità territoriale di Teheran o l’auspicio di uno Stato palestinese per chiudere il conflitto di Gaza, ci sia un concreto e realistico interesse di Riyadh nel ripristinare il dialogo con l’Iran per continuare a perseguire i propri obiettivi politici in sicurezza e cercare, al contempo, di usare questa leva per avanzare richieste d’assicurazione più consistenti a Washington per quanto concerne la negoziazione del nuovo patto di cooperazione difensiva, dal momento che, oltre al rivale iraniano, ad aver intessuto importanti rapporti con il Regno (specie sul fronte energetico e militare) c’è anche Pechino. Un dato non trascurabile in questo discorso riguarda il profilo di Khaled bin Salman, firmatario dell’accordo militare con Baghdad e con un background accademico e politico vicino a Washington, dove ha ricoperto la carica di ambasciatore tra il 2017 e il 2019, oltre ad aver completato l’addestramento come pilota in Texas e ricevuto formazione specialistica d’eccellenza in Mississippi, nella Columbus Air Force Base. Inoltre, le importazioni nel settore della Difesa di Riyadh rimangono ancora in maggioranza legate allo storico partner americano ed è improbabile immaginare che, nonostante il dialogo multilaterale e l’ambizioso obiettivo di portare il 50% della spesa militare in ambito domestico (a fronte di un attuale dato che si attesta a circa il 15%), nel breve-medio termine avvenga un distacco dallo storico alleato. Piuttosto,le condizioni d’incertezza persistenti a livello macro e l’attesa per definire le nuove condizioni con gli Stati Uniti, hanno determinato la ricerca di assicurazioni regionali veicolate dall’approfondimento di legami con altri attori nella zona, come Baghdad, per tentare di pagare il prezzo minore possibile dall’attuale disordine che regna nel Medio Oriente.
Passando al punto di vista iracheno,l’aggiunta nel discorso di un terzo attore operante nella regione chiarisce il complesso reticolo d’influenze e competizioni che si manifestano internamente, rischiando di paralizzare le capacità di manovra del governo centrale: l’Iran. Se l’Arabia Saudita avverte necessariamente la pressione iraniana attraverso le operazioni dei suoi proxies in Siria, Libano e Yemen, Baghdad soffre all’interno dei propri confini la presenza di milizie affiliate a Teheran e raccolte nell’ombrello della Resistenza Islamica in Iraq (IRI), tra cui figurano ad esempio i gruppi di Kata’ib Hezbollah o Asa’ib Ahl al-Haq. La complessità del quadro delineatosi dal punto di vista della politica interna al Paese è legata al fatto che, fermo restando la tangibile influenza iraniana esercitata in questa eterogenea fazione di gruppi armati, l’agenda politica dei suddetti soggetti non si riduce ad un appiattimento nei confronti dei dettami di Teheran, dal momento che l’obiettivo primario è rivolto alla conquista di influenza e controllo dei rami fondamentali dello Stato iracheno e l’estromissione dal territorio dello storico nemico statunitense. Le operazioni condotte da questi attori, aumentate in frequenza e intensità dall’inizio della guerra a Gaza, sono da inquadrare in una logica strumentale rivolta alla conquista del potere interno: la propaganda pro-Palestina e i razzi verso il territorio israeliano hanno aumentato la visibilità regionale e favorito funzionali avvicinamenti ad attori come i già citati Houthi o la stessa Hamas, mentre gli attacchi alle basi americane – il più grave avvenuto il 28 gennaio 2024 alla Tower 22 in Giordania dove sono morti 5 soldati americani – hanno contribuito ad aumentare la percezione del costo di rimanere nella regione da parte di Washington. Non è escluso che, con la recente vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca, una simile strategia possa effettivamente portare i risultati desiderati, tenendo conto del passato disimpegno di truppe americane sul territorio auspicato dal tycoon durante la prima legislatura. La presenza americana in questa contesa rete d’interessi è da una parte fondamentale per quanto concerne ad esempio il settore economico (con l’accesso ai fondi in dollari) e logistico-militare (come ad esempio la fornitura dei caccia F-16) iracheno. D’altra parte continua a generare crescente impopolarità tra la popolazione locale, specialmente quando nelle operazioni di ritorsione (avvenuti con raid aerei sul territorio, ad esempio al confine con la Siria per la vicenda della Tower 22) nei confronti degli attacchi subiti alle proprie basi, il coordinamento con il governo centrale iracheno è pressoché nullo. Tuttavia, in vista delle elezioni nel 2025, il Primo Ministro Mohammad Shia al-Sudani non sembra nella posizione di poter auspicare un ritiro immediato del contingente americano, specialmente in un momento di alta tensione regionale come questo, dove ad approfittare del vuoto di potere potrebbero essere proprio le fazioni legate all’IRI. L’intesa tra Iraq e Arabia Saudita risponderebbe in quest’ottica a una ricerca da parte di Baghdad di garanzie più solide per quanto concerne la propria sicurezza nazionale, cercando di stringere alleanze all’interno di un teatro regionale instabile e in continuo mutamento, al fine di non rimanere vittima degli eventi, esterni ma soprattutto domestici.
L’impressione in merito al recente avvicinamento in ambito militare tra Riyadh e Baghdad, il cui contenuto ancora non è stato reso pubblico, potrebbe verosimilmente riflettere la necessità irachena di guadagnare un maggior peso politico nella regione per fuoriuscire dall’attuale condizione di vulnerabilità, dovuta alle pressioni esterne (USA e Iran) che si esercitano a scapito di una politica decisionale capace di operare autonomamente. Al contempo, non è escluso che, tenendo conto della misurata apertura di dialogo tra Arabia Saudita e Iran, la controparte irachena possa utilizzare questo bilanciamento come un elemento per aumentare la pressione nei confronti di Teheran o per rivedere, specialmente nell’interesse di Baghdad, il canale di comunicazione con la Repubblica Islamica. Un simile scenario non implicherebbe l’automatica stabilizzazione interna e la quiescenza da parte dei vari gruppi legati all’IRI, piuttosto le coordinate della contesa per il potere centrale potrebbero tornare a essere circoscritte più internamente al Paese,“raffreddando” temporaneamente il coinvolgimento di Teheran nella partita per determinare il futuro monopolio della gestione dei centri di comando statali, in attesa dello spartiacque elettorale atteso nel 2025.