I due Sudan e il pragmatismo di Pechino
La visita in Cina del Presidente sudanese Omar al-Bashir, alla fine di giugno, è avvenuta in un momento particolarmente significativo per il governo di Khartoum. Il Sudan, i cui confini geografici furono tracciati dagli inglesi all’indomani della seconda guerra mondiale, ha cessato di esistere il 9 luglio, quando la regione semiautonoma del sud ha proclamato la propria indipendenza e diventerà ufficialmente il 54 esimo Stato africano.
In questa prospettiva, i due partners dovranno ridefinire i loro rapporti politici ed economici. Tra gli argomenti oggetto di discussione proprio il distacco del Sud, l’espansione della cooperazione bilaterale e la situazione in Darfur. In relazione ai crimini di guerra e genocidio commessi nella regione nel corso della guerra civile - e tuttora perpetrati, secondo il recente rapporto al Consiglio di Sicurezza di Luis Moreno Ocampo, Procuratore della CPI-Corte Penale internazionale-contro al -Bashir sono stati emessi due mandati di arresto internazionale. Anche per questo il viaggio del leader africano ha suscitato un certo clamore. Pechino, che non è parte dello Statuto di Roma, istitutivo della suddetta Corte, non ha l’obbligo di eseguirne il mandato, ciononostante ha avvertito l’inquietudine e le insidie alla sua “reputazione internazionale” che l’evento è potenzialmente in grado di suscitare.
La visita è stata criticata, oltre che da note ONG come Amnesty International, anche in sede ONU dall’Alto Commissario per i diritti umani, Navi Pillay. L’atteggiamento cinese, improntato al principio di non interferenza negli affari interni, è da sempre indifferente rispetto a considerazioni riguardanti questioni umanitarie non fosse altro che per le ripercussioni che una diversa condotta potrebbe avere all’interno dei confini della stessa Repubblica Popolare. Del resto questa è la consolidata politica cinese in Africa. Gli enormi investimenti di Pechino non hanno mai prestato nessuna attenzione a condizioni politiche in termini di governance, rispetto di diritti umani o dell’ambiente.
Se si esclude la condizione posta ai suoi partners del rispetto della regola “one Chine policy”, che esclude i legami con Taiwan, la “formula cinese” ha permesso la rapida penetrazione di Pechino nel continente africano, spesso occupando i vuoti lasciati dalle potenze occidentali, come è avvenuto per il Sudan. Alla vigilia della visita di al Bashir, il vice ministro degli Esteri cinese, Cui Tiankai, ha dichiarato che Pechino intrattiene solo normali relazioni bilaterali con il Sudan ed è interessato alla stabilità e al mantenimento della pace nella regione. Su questo ultimo aspetto in particolare non si può certo dubitare che queste affermazioni siano fatte in buona fede.
In effetti il Sudan è uno Stato con cui la Cina ha tutto l’interesse a mantenere buone relazioni anche, o forse sopratutto, allorché l’attuale intesa bilaterale si trasformerà, dopo la secessione del Sud, in un rapporto tripartito. Il commercio tra Cina e Sudan è cresciuto di 8,6 miliardi di $ nel 2010, un aumento di oltre il 35% rispetto ai dati dell’anno precedente. Il Sudan è il terzo partner commerciale della Cina in Africa. Più del 60% della produzione di petrolio sudanese è destinata alla Cina che ne ricava oltre il 6% del totale delle sue importazioni di petrolio. Le compagnie cinesi operano in particolare alla costruzione del sistema delle infrastrutture, oleodotti e impianti per l’energia.
La relazione è mutualmente vantaggiosa. La Cina ha fortemente investito in Sudan nell’ultimo decennio malgrado la guerra civile nel paese, anzi l’influenza politica si è fatta determinante proprio quando Pechino ha cominciato a fornire al governo di Khartoum le armi per combattere contro l’SPLA (Sudan People’s Liberation Army). A partire dal 1999, l’80% dei proventi derivanti dal petrolio sono stati destinati all’acquisto di armi ed è stata proprio la Cina il fornitore principale di armi tra il 2002 e 2005, anno dell’embargo ONU. Il nord ha perso dal 9 luglio 1/4 del suo territorio, ma quello che è più importante 3/ 4 delle riserve petrolifere dello Stato. Questo significa che i proventi derivanti dal petrolio diminuiranno. In questa prospettiva, da gennaio, il governo del nord ha intrapreso una politica di austerità, ma l’effetto sul budget potrebbe comunque tradursi, per Khartoum in inflazione e instabilità politica.
In questo contesto per il Sudan l’appoggio cinese diventerà ancora più importante sia sul piano economico oltre, come sempre, al livello politico dato l’isolamento internazionale di Al Bashir. Nel corso degli incontri di fine giugno sono stati firmati accordi per espandere la cooperazione nel settore petrolifero, con il ruolo chiave per la CNPC (China’s National Petroleum Corp), e per il finanziamento di progetti in campo agricolo. Nel frattempo, Pechino ha già stabilito accordi in campo petrolifero con il governo provvisorio che si è insediato nel 2005 a Juba, la capitale del Sud, e probabilmente non esiterà a stabilire presto relazioni diplomatiche con il sud Sudan, area dove si trova peraltro gran parte dei giacimenti di petrolio. Qui l’influenza cinese è politicamente minore. Pechino nella guerra civile ha dato un aiuto consistente al governo di Khartoum, impegnato a combattere contro i ribelli del Sud. La Cina non soltanto ha fornito al regime sudanese armi e denaro, ma lo ha protetto presso le Nazioni Unite. Di conseguenza i cinesi sono stati percepiti dalle popolazioni del Sud come dei nemici da combattere.
Dal momento dell’accordo di pace, nel 2005, è stato necessario per Pechino preparare il terreno favorevole per preservare i propri interessi nel Paese. Da allora, numerosi sono stati gli incontri ad alto livello tra le parti, tra cui quello tra il Presidente cinese, Hu Jintao, e il presidente del Sudan meridionale, Salva Kiir nel 2007. La Cina ha concesso un credito a tassi preferenziali al governo meridionale oltreché investimenti diretti nel sud del Paese, tra cui la costruzione di centrali idro-elettriche e di altre infrastrutture.
In effetti, si è trattato semplicemente di interagire con i ribelli del sud applicando la stessa strategia utilizzata con gli altri Stati africani. Nello specifico, la Cina vuole assicurarsi che la nascita del nuovo Stato e la continua instabilità dell’area non equivalgano all’interruzione del flusso delle risorse energetiche per le necessità della sua economia. Per questo è fondamentale che le conseguenze politiche della scissione siano gestite in modo da non mettere a repentaglio gli interessi economici cinesi. La Cina persegue una politica improntata al pragmatismo per lasciare immutati i canali di approvvigionamento energetico, per questo la relazione bilaterale sarà complicata dal distacco. Il sud, infatti, controlla gran parte dei giacimenti di petrolio che è però trasportato mediante oleodotti che attraversano il nord, così come al nord si trovano le raffinerie ed i terminal di esportazione. Tramite l’oleodotto Greater Nile Oil Pipeline, che segue la rotta Bentiu, El Obeid, Khartoum, Omdurman, Atbara, la produzione del Sudan (circa 490 mila barili al giorno) arriva sul Mar Rosso.
Poiché il bilancio del Sudan è essenzialmente dipendente dalle esportazioni di petrolio, sia il sud che il nord avranno problemi nel diversificare la loro economia unicamente improntata sul questa risorsa energetica. Gli accordi firmati con la Cina nel settore agricolo dovrebbero infatti andare in questa direzione. Il sud d’altro canto negli ultimi sei anni ha incontrato difficoltà a massimizzare le opportunità di interdipendenza con altri Stati e rimane in un certo senso legato al nord per i canali di sviluppo del commercio.
Il fatto che importanti giacimenti si trovino a cavallo del confine che divide le regioni settentrionali da quelle meridionali rende difficile il dialogo tra i due Stati. Negli ultimi mesi la violenza è aumentata nelle aree contese e la Cina sta spingendo entrambe le parti a risolvere le dispute in maniera pacifica. La pressione cinese su Al Bashir potrebbe avere un effetto positivo non solo per porre le fondamenta di una relazione costruttiva tra nord e sud, ma anche nella risoluzione della situazione in Darfur gestita adesso una forza accresciuta dal timore che il “precedente geografico” della secessione del sud si possa riprodurre in un’altra zona del paese.
Sei anni dopo la firma dell’accordo di pace che ha messo fine a 20 anni di guerra civile, sembra che le parti saranno obbligate ad intendersi. La comunità internazionale dovrà necessariamente giocare un ruolo preponderante per lo sviluppo economico e l’assistenza umanitaria. Pechino, invece, potrebbe trarre dal suo personale interesse alla stabilità della regione, la possibilità di agire di concerto con altri Stati al fine di garantire l’evoluzione positiva di un difficile processo di pace. La Cina, malgrado il suo crescente peso economico, ha spesso mostrato un’incapacità di fondo ad agire come attore globale in sede multilaterale in una maniera cioè positiva di costruzione del consenso ( ambiente, questioni monetarie).
Il suo ruolo di “grande potenza” è stato spesso quello di ostacolare le decisioni e questo ha in parte acuito la diffidenza verso questo Stato le cui politiche, a volte contraddittorie, derivano in parte dalla mancanza, a livello di leadership, di una visione coerente sulla strada da percorrere. La comunità internazionale ha interesse a convogliare la retorica della potenza cinese sulla strada di una maggiore cooperazione nella risoluzione delle questioni di global governance, pur nella consapevolezza che la tendenza fisiologica di tutti gli Stati nel consesso internazionale va comunque verso la protezione dei propri interessi. L’irritazione per la visita di al Bashir in Cina sarà presto stemperata. Può darsi invece adesso, il peso diplomatico di Pechino e la sua volontà e capacità di presentarsi come soggetto promotore di stabilità e pace verranno presto messi alla prova.