Cina, Stati Uniti ed Europa nella nuova era della guerra commerciale globale
Geoeconomics

Cina, Stati Uniti ed Europa nella nuova era della guerra commerciale globale

By Marco Di Liddo, Tiziano Marino, Alexandru Fordea and Davide Maiello
12.09.2024

L’era della “grande pace americana”, iniziata nel 1991 con lo scioglimento dell’Unione Sovietica e caratterizzata dalla fiducia, al limite dell’anelito fideistico, che il liberismo economico e la globalizzazione avrebbero posto fine ai conflitti ed aperto ad una stagione eterna di benessere e pace, sembra essere ormai giunta alla fine. Le crisi economiche degli Anni 2000, la pandemia di covid-19 e l’esplosione dell’emergenza climatica hanno accelerato un processo di progressiva crescita di conflittualità internazionale che, tuttavia, aveva già mostrato i suoi primi, preoccupanti, segnali, alla metà del primo decennio del nuovo millennio.

Oggi, quella sensazione di fiducia nel futuro e di certezza incrollabile nella forza del progresso economico e della centralità globale del cosiddetto “Occidente” appare sgretolata e prossima all’estinzione, pronta ad essere sostituita da una cinica e realistica consapevolezza dell’approssimarsi di una nuova stagione politica internazionale, caratterizzata dall’super-competizione e dall’escalation nel confronto tra Paesi e sistemi di alleanze fluide avversari. La guerra russo-ucraina, la guerra tra Israele e l’Asse della Resistenza (o del Male a seconda dei punti di vista) composto da Iran, Hezbollah, Hamas e gli Houthi ed infine il sempre più serrato e duro confronto tra Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti sono soltanto le manifestazioni più evidenti dei movimenti tellurici che attraversano il sistema internazionale. L’ascesa dei BRICS e la sempre maggiore diffusione di un pensiero strategico post-occidentalista (il cosiddetto “Sud Globale”) nei Paesi in via di sviluppo raccontano le vibrazioni di una parte emergente del mondo che domanda a gran voce il cambiamento della governance globale, degli equilibri e dei rapporti di forza in nome dell’evoluzione dello scenario economico, politico, sociale e demografico.

La contrapposizione tra Nord e Sud del Mondo si muove e caratterizza attraverso evidenti linee di demarcazione: da una parte, il ricco e vecchio blocco euro-atlantico, detentore della superiorità tecnologica, patria della democrazia liberale e cardine del sistema politico internazionale, dall’altra un insieme di attori eterogenei, dalla Cina alla Russia, dall’India alle Monarchie del Golfo, dai Paesi africani a quelli asiatici, uniti da un variegato insieme di interessi e fluide alleanze, detentori delle materie prime, in forte espansione produttiva, reddituale e demografica, portatori di valori e di sistemi politici alternativi (e spesso autoritari). Quasi tutti accomunati da un passato coloniale o di sudditanza strategica verso l’Occidente ed ora desiderosi della rivincita.

Quindi, se il potere economico e politico occidentale appare in crisi e in declino e la globalizzazione è un sistema dove il blocco euro-atlantico non può più esprimere la sua superiorità, ecco che da Washington alle Cancellerie europee si leva un grido a “restringere” il mondo, ad accorciare le filiere produttive e ad evitare il rischio di de-industrializzazione (e quindi la perdita di competitività e ricchezza). La risposta ad un contesto globale aleatorio e conflittuale è innanzitutto la riscoperta del primato della sicurezza sull’economia o, per essere più precisi, la forte contaminazione della logica del profitto da parte della logica della difesa. In secondo luogo, l’abbandono della globalizzazione tout court in favore di nuove forme di integrazione regionale rafforzata (in Europa vertenti sulla spinta all’allargamento UE e sul nuovo dialogo con l’Africa). In sintesi, l’imperativo è tornare a mobilitare le risorse domestiche, valorizzare i mercati e le filiere di prossimità, ridurre la dipendenza energetica e mineraria da Paesi potenzialmente più ostili che in passato e tornare a valorizzare la protezione dell’economia nazionale.

Appare fin troppo evidente come la conflittualità politica internazionale sia, innanzitutto, conflittualità economica e che, dunque, il commercio globale sia l’arena dove la competizione si manifesta, nell’immediato, in maniera più diretta e virulenta. Nell’epoca della “guerra ibrida” o, per dirla con la tassonomia cinese, della “Guerra senza limiti”, si assiste alla militarizzazione degli strumenti economici e commerciali. La guerra, dunque, prima di essere militare, è commerciale.

La fase che abbiamo già iniziato a vivere con la prima presidenza di Donald Trump è caratterizzata, innanzitutto, dal desiderio statunitense di evitare il rischio di de-industrializzazione e mantenere la primazia nei settori fondamentali per la crescita economica e l’egemonia tecnologica, dalle rinnovabili all’high-tech (microchip, semiconduttori e intelligenza artificiale) fino all’approvvigionamento di materie prime critiche. Tutto questo nel tentativo di mettere in sicurezza la propria economia e rallentare, almeno, la crescita di quella cinese (al netto delle sue problematiche interne). Ovviamente, Pechino non vuole restare a guardare né arretrare di un passo, forte della posizione dominante in numerosi settori (batterie, estrazione e raffinazione delle materie prime critiche e delle terre rare, manifattura ad alta tecnologia) e della necessità di ridurre il divario tecnologico con Washington e con alcuni Paesi europei.

La rivalità sino-americana è sfociata in un processo di competizione economica multilivello, in cui le tariffe doganali, le sanzioni economiche, gli accordi commerciali preferenziali e le politiche di investimento diretto all’estero sono diventati strumenti fondamentali per la promozione degli interessi nazionali in un’ottica di limitazione alla libera iniziativa aziendale. In sintesi, si potrebbe essere entrati in una fase in cui gli interessi securitari prevalgono su quelli puramente mirati al profitto. In questo quadro, sono soprattutto tre gli strumenti e i processi adottati dai diversi Paesi per gestire la competizione: l’introduzione di un nuovo sistema tariffario per le merci importate, la limitazione dell’export di determinati beni e l’implementazione di normative dirette a stimolare gli investimenti interni delle aziende reputate strategiche.

L’applicazione delle strategie di derisking e di decoupling dell’economia euro-atlantica da quella cinese richiederà molto tempo e probabili momenti di crisi e di assestamento, nella consapevolezza delle incognite che accompagnano la ricerca di nuovi fornitori di materie prime e beni di consumo a basso costo e gli impatti su mercati e consumatori. Ad oggi, gli Stati Uniti pensano di poter trovare tutto quello che cercano in casa: il Chips Act e l’Inflation Reduction Act dell’amministrazione Biden hanno lo scopo di rilanciare il comparto tecnologico e industriale domestico nonché attrarre imprese straniere (soprattutto europee) grazie al canto delle sirene fatto di sussidi e investimenti. Da parte sua, la Cina ha le risorse naturali e la potenza manifatturiera, ma per espandersi ha bisogno di un clima commerciale internazionale permissivo ed aperto e altri mercati oltre al proprio, nonché dell’accesso ai design industriali e al capitale ingegneristico dell’industria dei semiconduttori (Taiwan, per questo, non è solo un problema di status politico o di sicurezza navale). In questa lotta tra titani, l’Europa rischia di rimanere schiacciata o di subire passivamente le scelte dell’alleato statunitense che, però, ha chiaramente lasciato intendere che “America First” non è soltanto lo slogan elettorale di Donald Trump ma un disegno strategico di lungo periodo. In sintesi, i partner tradizionali sono importanti per Washington ma non fondamentali e nella nuova era dell’iper-conflittualità globale si ragionerà sempre più individualmente e sempre meno in un’ottica cooperativa e di alleanza. Alle classi dirigenti europee, dunque, spetta l’arduo compito di cercare nuove strategie che, all’interno della guerra commerciale globale, proteggano e tutelino l’interesse del continente e il benessere della propria popolazione. La difesa di un gigantesco patrimonio industriale, ingegneristico, di capitale umano e sociale è un imperativo irrinunciabile, pena la condanna alla progressiva irrilevanza internazionale, all’impoverimento della popolazione europea e all’atrofizzazione della sua economia.

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