La corsa al nucleare nei paesi del Golfo tra diversificazione economica e aspetti securitari
Lo scorso 17 febbraio, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno rilasciato la licenza operativa che autorizza la messa in funzione della prima centrale nucleare nella penisola arabica. Situata a Barakah, nella parte occidentale del Paese nelle vicinanze del confine saudita e del Qatar, la centrale dovrebbe iniziare a produrre energia entro metà anno. All’ingresso di Abu Dhabi nel club delle nazioni produttrici di energia nucleare potrebbe presto seguire l’adesione dell’Arabia Saudita, il cui programma per arrivare all’adozione del nucleare è da tempo operativo, sebbene non vi siano ancora certezze sul quando possa essere inaugurata la prima centrale.
La produzione di energia nucleare nella penisola del Golfo rappresenta un avvenimento di fondamentale importanza per gli equilibri geo-energetici quanto securitari nell’area. L’adozione di tale tecnologia, da parte di Abu Dhabi e Riyadh, viene giustificata per scopi civili, collegati alla necessità di diversificazione energetica di Paesi estremamente dipendenti dai profitti delle esportazioni di gas e petrolio. Nonostante ciò, alla luce delle tensioni sullo sviluppo del programma nucleare iraniano, rivale regionale dei due Paesi della penisola arabica, la partita sul nucleare nel Golfo assume anche un significato prettamente strategico. Lo sviluppo del nucleare in quest’area, di fatti, alimenta dubbi su un possibile utilizzo dello strumento ad un uso militare, per via della facilità di riconversione e la presenza di alcune tecnologie, come le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, che presentano una funzione dual use.
Dal punto di vista prettamente geo-economico, il processo di diversificazione energetica dei Paesi del Golfo passa per una strategia multidimensionale, che prevede un’opera di import energetico (vedasi il sostegno saudita alla costruzione della diga etiope GERD), ma si basa soprattutto su ingenti investimenti interni, principalmente nel settore solare e nucleare, volti inoltre a garantire autosufficienza energetica in prospettiva di un assottigliamento delle riserve di idrocarburi.
Le Monarchie del Golfo hanno bisogno di volumi sempre maggiori di energia per supportare una popolazione in crescita (si stima che aumenti del 50% nei prossimi 30 anni), riunita in città sempre più moderne, che necessitano di enormi quantitativi di energia per sopperire alle estreme condizioni climatiche esacerbate dall’innalzamento della temperatura globale. Dalla transizione verso fonti alternative di energia, questi Stati puntano a liberare quote della produzione petrolifera e gasiera da destinare all’export, in modo da compensare, almeno parzialmente, gli squilibri dei bilancio statali derivanti sia dalla discesa del prezzo del petrolio effetto della rivoluzione dello shale americano nel 2014, sia dal possibile calo della domanda di idrocarburi a livello mondiale.
Nello specifico dell’energia nucleare, nel dicembre 2006 i sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), hanno annunciato la volontà di ragionarne sullo sviluppo pacifico. Da allora, Kuwait, Qatar, Oman hanno cancellato piani dopo il disastro di Fukushima nel 2011, mentre il Bahrein, che puntava a completare la prima centrale entro il 2017, ha ritardato lo sviluppo, e forse rinunciato definitivamente, per via degli elevati costi e l’assenza di economie di scala. D’altronde, vista la grandezza relativa dell’emirato (1,5 milioni di abitanti), l’importazione di energia dai Paesi limitrofi risulta decisamente più sostenibile. A portare avanti le ambizioni nucleari nel novero dei paesi del CCG permangono quindi solamente Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita.
Nonostante siedano sulle settime riserve mondiali a di gas naturale, gli EAU sono importatori netti di gas (principalmente dal rivale regionale qatariota). Il governo emiratino si è perciò dato l’obiettivo arrivare a produrre il 50% del proprio mix energetico da fonti rinnovabili. A tal fine, Abu Dhabi, sta investendo massicciamente in varie forme di produzione energetica, inclusa quella solare, con una serie di progetti lanciati a partire dal 2013, l’ultimo dei quali, Sweihan, è operativo dallo scorso luglio.
Per quanto riguarda l’energia nucleare, gli sforzi emiratini si sono concentrati sul sito di Barkah, già citato in apertura, la cui costruzione è stata completata nel maggio 2018. Il programma nucleare emiratino, finanziato da investimenti per 25 miliardi di dollari, è stato sviluppato con il supporto della società sudcoreana Korea Electric Power Corporation e punta alla messa in opera di 4 reattori necessari a produrre 5,6 gigawatt di elettricità, utili a coprire il 25% del fabbisogno energetico del Paese.
Le modalità di produzione nucleare di Abu Dhabi permettono di configurare come abbastanza remota l’eventualità che il governo emiratino stia valutando l’opzione di dotarsi di armi nucleari. Gli Emirati Arabi Uniti, di fatti, non hanno mai paventato questa possibilità, e soprattutto non sembrano intenzionati a dotarsi di tecnologie per arricchire l’uranio. Inoltre, Abu Dhabi ha collaborato finora in maniera trasparente con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), ente delle Nazioni Unite con il compito di promuovere e supervisionare sull’uso pacifico dell’energia nucleare, ed è parte contraente di tutte le convenzioni internazionali che regolano l’utilizzo del nucleare. Infine, gli Emirati hanno ratificato nel 2003 il protocollo addizionale (CFA- Comprehensive Safeguards Agreement) che autorizza ispezioni della AIEA nei siti nucleari emiratini, al fine di verificare che la produzione sia esclusivamente a scopo civile.
Più sfaccettata è la partita del nucleare in Arabia Saudita. La diversificazione energetica rappresenta uno dei punti cardine delle linee quindicinali “Vision 2030” lanciate nell’aprile 2016 dal Re Salman. A sottolineare il significato strategico della tematica è la recente nomina (settembre 2019) del principe Abdulaziz bin Salman come Ministro dell’Energia, primo membro della casa reale ad assumere questa carica. Obiettivo della diversificazione saudita è quello di liberare per l’export la quasi totalità delle risorse petrolifere, oggi utilizzate per il 25% per il funzionamento delle centrali elettriche nazionali. Il Paese viaggia ad un tasso di incremento annuale di domanda di energia tra il 6 e l’8%, utilizzata, oltre che nella gestitone di città altamente energivore, nell’opera di dissalazione dell’acqua di mare, fondamentale per la sicurezza alimentare saudita. Inoltre parte della produzione rinnovabile potrebbe essere venduta all’estero in periodi di minore utilizzo (in Arabia Saudita quello invernale, per via del minor consumo di aria condizionata).
Sul lato dell’energia nucleare, l’Arabia Saudita punta alla costruzione di almeno 2 reattori che possano portare la capacità produttiva del Paese fino a 17 GWe entro il 2032, circa il 15% del fabbisogno energetico saudita. Al momento nessun sito risulta ultimato, ma immagini satellitari dell’aprile 2019 hanno mostrato come la costruzione del primo reattore, situato nell’ala sud est del polo scientifico “Città della scienza e della tecnologia King Abdulaziz” a Riyadh, sia prossima al completamento. Gli investimenti complessivi in materia non sono inoltre ancora pienamente definiti, ed è possibile che il Paese arrivi a sviluppare fino a 16 reattori (come inizialmente programmato nel 2011) e ad investire nel settore un massimo di 80 miliardi di dollari.
Nonostante le motivazioni alla base della diversificazione siano simili a quelle emiratine, diversa è la posizione saudita sull’ipotesi di sviluppare il nucleare a fini militari. Già dal marzo 2018, d’altronde, il Principe ereditario Mohammed bin Salman ha apertamente paventato questa possibilità qualora faccia lo stesso l’Iran. Al di la dei proclami, diversi indizi evidenziano come dietro alle strategie d’investimento nel nucleare in Arabia Saudita non vi siano solamente motivazioni di ordine economico, ma che la Monarchia dei Saud stia usando il dossier come carta da giocare nella più ampia partita regionale che la contrappone all’Iran. Per tali ragioni, dunque, non è possibile escludere del tutto la possibilità che Riyadh stia valutando di sfruttare l’avanzamento nel campo del nucleare civile anche per dotarsi della possibilità, qualora lo ritenesse necessario alla luce dell’evoluzione degli equilibri regionali, di ottenere un arsenale atomico.
In primis, è possibile ragionare sul rapporto tra risorse stanziate per l’energia nucleare ed investimenti nel solare. Lo sviluppo di quest’ultimo settore, in un Paese desertico come l’Arabia Saudita, comporterebbe costi di investimento iniziale e di produzione decisamente minori rispetto al nucleare. Fino al 2017 però, il Paese ha rallentato gli sforzi nel solare, generando solamente lo 0,04% della proprio fabbisogno energetico tramite fonti derivanti dal sole. Successivamente, il trend sembra essersi invertito, tanto che è in costruzione un enorme sito di produzione di energia solare a Sakaka, nel nord del Paese. Non è quindi chiaro se il ritardo saudita nelle tecnologie solari sia contingente e destinato ad essere colmato a breve, o se il Paese utilizzi la prospettiva di sviluppo nel settore come retorica per giustificare gli investimenti in rinnovabili, concentrandoli però principalmente in energia nucleare.
In secondo luogo Riyad, a differenza di Abu Dhabi, sembra intenzionato a implementare internamente tutto il ciclo produttivo del nucleare e quindi arricchire l’uranio, attività non giustificabile solamente dal punto di vista economico, poiché comporterebbe costi maggiori rispetto all’importazione. Va ricordato inoltre che l’Arabia Saudita non ha sottoscritto il Comprehensive Safeguards Agreement, rendendo perciò impossibili le ispezioni di personale IAEA.
La posizione saudita sull’arricchimento autonomo dell’uranio rappresenta uno strumento di particolare frizione con gli Stati Uniti, alleato primario dei sauditi, e dal 2008, a seguito della stipula di un protocollo di cooperazione, partner nello sviluppo della tecnologia nucleare. Gli USA regolano la cooperazione in materia con lo US Atomic Energy Act del 1954, che prevede al comma 123 l’obbligo per il governo a vincolare il trasferimento di tecnologia nucleare all’impegno, da parte del Paese terzo, a limitare le attività di produzione per uso civile. Se l’Arabia Saudita quindi non rinunciasse all’intenzione di arricchire autonomamente l’uranio, l’amministrazione statunitense, salvo forzature o complessi cambi di legislazione, dovrebbe cessare la cooperazione con Riyadh.
D’altronde, gli Stati Uniti hanno particolare interesse a monitorare la transizione saudita verso il nucleare, per motivi economici quanto strategici. Una partecipazione diretta programma nucleare saudita comporta un impatto positivo per il ritorno economico derivate dalle commesse per le aziende statunitensi. Ma a preoccupare maggiormente la Casa Bianca è la prospettiva che il vuoto lasciato dagli Stati Uniti possa essere colmato da intromissioni cinesi o russe.
Per determinare le strategie future saudite è quindi necessario guardare a Washington e alla gestione americana del dossier nel contesto del Golfo, la cui pietra angolare resta l’ostilità al programma iraniano. Sebbene le tensioni di inizio 2020, acuitesi dopo l’uccisione di del generale iraniano Qassem Soleimani, avvenuta lo scorso 3 gennaio in seguito a uno strike americano all’aeroporto di Baghdad, non sembrino lasciare spazio a rapidi progressi nel dialogo, non è da escludere che, in una prospettiva di lungo respiro, la pressione della Casa Bianca nei confronti di Teheran possa confluire in iniziative più ampie e inclusive, con l’obiettivo ultimo di far sedere allo stesso tavolo Iran ed Arabia Saudita. Gli USA, di fatti, potrebbero puntare a mediare l’adozione di un framework complessivo per la proliferazione nucleare nella regione, al fine di superare l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), oramai neutralizzato nei contenuti dal ritiro statunitense nel maggio 2018 e dalla ripresa senza restrizioni delle attività di arricchimento dell’uranio da parte di Teheran come contromisura all’uccisione del generale Soleimani.