Sconfitto sul piano militare, Daesh prova a rivivere scommettendo su bitcoin
AGI

Sconfitto sul piano militare, Daesh prova a rivivere scommettendo su bitcoin

19.09.2019

Anonimato, flessibilità, rapidità. I vantaggi offerti dalle criptovalute sono tanti. E non stupisce che anche Daesh provi a sfruttarli". Lorenzo Marinone, analista responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I., il Centro Studi Internazionali, spiega all’Agi come stanno cambiando i canali di finanziamento dell’organizzazione terroristica sparita un po’ dai radar dei media ma non certo da quelli delle intelligence dei Paesi occidentali.

“La sconfitta militare è indiscutibile - premette Marinone - e la capacità di controllo del territorio ne è uscita fortemente ridimensionata ma Daesh non è morto, anzi continua ad espandersi, ha nuovi gruppi affiliati e nuove aree di influenza e, soprattutto, come tutte le holding che si rispettano, ha diversificato le proprie entrate”. Affidandosi anche al Dark Web.

BANCHE E KALASHNIKOV - All’apice della dominazione dei territori in Siria e Iraq, Daesh aveva secondo alcune stime un patrimonio di 6 miliardi di dollari, che aveva fatto della creatura di al Baghdadi il gruppo terroristico più ricco di sempre: sfruttamento di giacimenti petroliferi, di gas e di altre risorse naturali, contrabbando di opere d’arte, armi, droga, altri traffici illeciti e, naturalmente, tasse - dirette e indirette - sistematicamente imposte alla popolazione, “esattamente come fa un vero Stato - continua Marinone - Il tramonto del Califfato ha inciso su tutto cio’ ma i jihadisti hanno dimostrato di saperci fare non solo con i kalashnikov ma anche con i conti correnti”.

Il canale più diretto “resta quello delle donazioni individuali, più o meno volontarie, attraverso i money transfer, che però sono sempre più controllati, e soprattutto attraverso l’hawala, il tradizionale sistema informale di trasferimenti di valori da A a B basato sulla fiducia di una larga rete di mediatori”. È in quest’ ottica che rientrano anche le campagne di crowdfunding in bitcoin: le prime datano 2015 ma appelli a donazioni di questo tipo sono passati anche via Telegram e via Twitter, per apparire - non più tardi dell’inizio di quest’anno - su un sito di informazione d’area come Akhbar al Muslimin. "Sicuramente sin qui non si può parlare di un successo - sottolinea l’analista - le somme veicolate in bitcoin, come conferma anche l’ultimo report delle Nazioni unite, sono marginali ma è possibile che ci sfugga qualcosa, che si veda solo una parte della punta di un iceberg che potrebbe essere, o diventare, enorme.

Siamo all’anno zero. Ma è un canale che dobbiamo seguire con estrema attenzione perché i sistemi basati sulla tecnologia blockchain offrono potenzialità ancora inesplorate. ‘Follow the money’, la regola numero uno per chi indaga sui flussi di denaro criminali, rischia di essere vanificata dal ricorso alle monete virtuali".

MODERNITA’ E TRADIZIONE - Modernità, dunque, ma anche tradizione: da Siria e Iraq, i miliziani in rotta hanno fatto uscire milioni di dollari in contanti, poi riciclati in attività commerciali legali per garantire uno ‘stipendio’ agli affiliati. “Lo stesso è accaduto con numerose opere d’arte - ricorda Marinone - destinate a restare ‘in sonno’: oggi come oggi qualsiasi direttore di museo o anche il più disinvolto dei galleristi guarderebbe con sospetto a un bene proveniente da certe aree ma tra qualche anno sarà più difficile ricostruirne il percorso e più facile concludere ‘affari’”.

Lo stesso vale per il contrabbando, meno remunerativo che ai tempi dello Stato Islamico ma “sempre più intrecciato con la criminalità organizzata. In certe aree portare greggio, sigarette o esseri umani da una città all’altra spesso è molto pericoloso, e allora Daesh fa da ‘security provider’, ovvero garantisce sicurezza e in cambio incassa una percentuale. Libia, Mali, Niger, Burkina Faso sono da monitorare con estrema attenzione”.

In sostanza, il Califfato è un progetto ormai sfumato, eppure “da marzo-aprile ad oggi proprio in Siria ed Iraq il numero degli attentati rivendicati dall’organizzazione è in costante aumento. In termini assoluti sono di meno di quelli degli anni precedenti e del periodo antecedente la proclamazione dello Stato islamico ma il trend dimostra che restano cellule attive e che persiste la capacità di operare sul territorio e di incistarsi nel tessuto sociale ed economico”.

FINE DEL CALIFFATO - Daesh “non esiste più come organizzazione parastatuale” ma, continua l’analista, rimane “capace di portare attacchi anche in zone del mondo diverse da quelle in cui è più presente, ovvero in nord Africa, nel Sahel, in Somalia, Medio Oriente, in Asia. E questo perché i durissimi colpi subiti sono stati in parte assorbiti da una struttura molto flessibile, poco verticistica e poco gerarchizzata, che ha più teste e più catene di comando e che ha lasciato una sostanziale autonomia, anche economica, ai gruppi locali. Il modello resta quello del franchising: con nuove presenze, ad esempio, nel Congo orientale o nella penisola del Sinai, dove - nonostante l’attività di contrasto di Al Sisi - Daesh ha portato un numero elevatissimo di attacchi a diversi obiettivi”.

Rischi non meno concreti arrivano infine dai ‘returnees’, che vanno considerati “una minaccia sul medio lungo periodo. Non dobbiamo immaginare che chi torna in patria dai cosiddetti ‘teatri operativi’ compia immediatamente un attentato - conclude l’analista del Ce.S.I. - I reduci hanno un bagaglio di esperienza sul campo che può essere trasmesso ad altri e, soprattutto, una forte capacità di reclutamento. è una sorta di fascinazione ideologica che confina con il mito e che può fare facilmente breccia in certi soggetti e in certi ambienti. La radicalizzazione è un pericolo concreto e chi, come quasi tutti gli Stati dell’Unione europea, si muove oggi in ritardo, rischia di pagarne il prezzo domani”.

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