Le milizie popolari di autodifesa e le lacune del sistema di sicurezza in Nigeria
Il 17 febbraio, il Ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi ha dichiarato che il popolo nigeriano, di fronte all’operato di banditi e criminali, dovrebbe difendersi e non lasciare la gestione della sicurezza alle sole forze dell’ordine e all’esercito. Appellandosi ad un ruolo più attivo della popolazione, il Ministro ha testimoniato implicitamente la fragilità dell’apparato securitario dello Stato.
Le minacce alla sicurezza della popolazione (terrorismo, criminalità, insorgenza etnica) ed il loro complesso intrecciarsi richiedono l’impegno statale su più fronti. Viceversa, in molte aree del Paese le istituzioni militari e di Polizia risultano assenti o scarsamente presenti a causa sia dell’overstretching (vale a dire l’espansione del teatro di operazioni in un contesto di insufficienza capacitiva e numerica) che a causa di lacune strutturali in termini di uomini e mezzi. Di conseguenza, il Ministero della Difesa e quello dell’Interno lasciano la provvisione di servizi di sicurezza in mano ad organizzazioni locali, spesso bande armate reclutate su base geografica (villaggi, aree peri-urbane) o etnico-tribale, chiamati generalmente “milizie di autodifesa popolare”.
Tuttavia, l’attivismo popolare parcellizza ulteriormente il panorama securitario interno e, in molti casi, diventa esso stesso un elemento di instabilità, come testimoniato sia dalla degradazione degli scontri tra milizie afferenti a realtà sociali o etniche differenti che dal loro coinvolgimento nel traffico di armi.
Le minacce securitarie in Nigeria hanno differenti presenze e declinazioni geografiche, nonché diversi modelli operativi e organizzativi. In tuto il territorio nazionale sono attive bande criminali dedite alle attività più varie (contrabbando, estorsione, saccheggio, furti, rapimenti, sfruttamento della prostituzione, traffico di migranti).
Nelle regioni meridionali, la criminalità assume una connotazione più strutturata poiché vede lo sviluppo di organizzazioni complesse come le “confraternite”, ossia l’equivalente nigeriano delle più famose mafie internazionali. Parallelamente, sempre a sud, nella regione del Delta del Niger si manifesta l’attività di movimenti armati indipendentisti, di organizzazioni terroristiche come i Niger Delta Avengers e cellule residue del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND), di bande di pirati, di contrabbandieri di carburanti ed infine di ladri di petrolio.
Nella fascia centrale, la cosiddetta “Middle Belt”, la principale minaccia alla stabilità è rappresentata dagli scontri tra comunità agricole sedentarie e comunità di pastori semi-nomadi a causa della conflittualità per l’accesso alle risorse del suolo (terra fertile ed acqua).
Infine, a nord del Paese sono collocati i santuari dei movimenti jihadisti, primi fra tutti Boko Haram e lo Stato Islamico in Africa Occidentale (SIAO).
Non esiste una linea netta in grado di dividere criminalità, insorgenza etnica e terrorismo a livello locale. Infatti, spesso i diversi gruppi attivi in Nigeria sono legati da vincoli tribali oppure usano metodologie criminali per ottenere scopi politici o per finanziarsi. La natura ibrida della minaccia e le aree di continuità rendono la prevenzione ed il contrasto molto complessi e difficili, spingendo così le istituzioni a derogare le funzioni di polizia ai “minutemen” dei villaggi che, così, diventano la prima linea di difesa.
Un caso emblematico di tali tendenze si ritrova nelle milizie costituitesi nelle regioni centrali del Paese tra le popolazioni stanziali agricole Hausa ed i gruppi semi-nomadi pastorali di etnia principalmente Fulani. Per sopperire alla mancata protezione da parte dello Stato, alcuni giovani Hausa si sono organizzati in gruppi di auto-difesa, le yan sa kai (guardie volontarie), armandosi con machete e armi artigianali, portando avanti atti violenti contro i presunti predoni. In risposta, anche i Fulani hanno formato gruppi armati. Questi ultimi, però, si sono muniti di armi più sofisticate, acquistate attraverso canali illegali e sovvenzionate grazie soprattutto ad attività criminali come i rapimenti. Inoltre, a causa della presenza Fulani all’interno delle organizzazioni terroristiche del nord, in molti casi tali milizie di autodifesa sono state reclutate da network jihadisti strutturati oppure hanno usufruito del loro supporto logistico ed addestrativo.
Lo Stato, che già in precedenza non era in grado di porre freno alle rivalità etniche, si è trovato ancora più incapace nello gestire la violenza crescente degli scontri tra milizie Hausa e milizie Fulani. Negli ultimi 10 anni, le violenze perpetrate dai gruppi di autodifesa hanno causato più di 15.000 vittime, un numero addirittura superiore a quello provocato dai movimenti terroristici.
Vi sono stati svariati tentativi da parte delle autorità locali di instaurare un dialogo tra le differenti milizie armate ed i loro gruppi sociali ed etnici di riferimento, con scarsi risultati. La principale causa dell’insuccesso di simili iniziative è legata alla natura stessa di questi gruppi che non rispondono ad una struttura unica, ma ai singoli villaggi o capi tribù.
La proliferazione e la frammentazione di questi gruppi rende dunque molto difficile la costruzione di un sistema di governance che vincoli le milizie e ne regolamenti le attività. È stato questo il caso delle negoziazioni portate avanti nel 2019 dai governi degli Stati Federali di Zamfra, Katsina, Sokoto e Niger con i capi di alcuni gruppi di autodifesa. Allora, le autorità regionali avevano offerto l’amnistia in cambio della deposizione delle armi, condizione rifiutata dai leader miliziani a causa di precise garanzie circa la protezione dei propri villaggi di provenienza.
Ad esasperare l’incertezza securitaria e ad aumentare la violenza vi è poi la copiosa proliferazione delle armi. Oggi in Africa, e specialmente in Nigeria, si assiste a una crescente diffusione di armi leggere di contrabbando usate dai gruppi di autodifesa. Grazie a uno studio del Conflict Armament Research (CAR) sulle armi consegnate al governo nigeriano a seguito dell’implementazione di programmi di amnistia a partire dal 2016, si è riusciti ad ottenere un quadro più specifico delle armi a disposizione. Una buona parte di queste è composta da armi rudimentali di fabbricazione artigianale ma si è registrata anche una presenza significativa di armi prodotte industrialmente. In particolare, le armi raccolte sono state suddivise in tre categorie: i fucili d’assalto di fabbricazione cinese Type 56-2 esportati in Costa d’Avorio nei primi anni 2000, i fucili d’assalto prodotti in Polonia KbK-AKMS che erano presenti nei depositi di Gheddafi saccheggiati nel 2011 ed i fucili a pompa o semiautomatici di fabbricazione turca.
Come se non bastasse, la proliferazione delle milizie di autodifesa pone un problema politico non indifferente, vale a dire quello della legittimità e del riconoscimento da parte delle comunità locali. Infatti, qualora i gruppi armati fossero percepiti come efficaci e come i veri difensori della popolazione dalle minacce esterne, il loro peso politico crescerebbe a dismisura a detrimento di quello delle istituzioni statali. In una cornice come quella nigeriana, dove le autorità centrali già soffrono di simili lacune, tale processo incrementerebbe la conflittualità tra Stato e comunità locali, alimentando fenomeni entropici.
Dunque, la riduzione del livello di violenza legato alle attività delle milizie di autodifesa passa attraverso la loro riduzione o, in alternativa, la loro integrazione in organigrammi nazionali ufficiali che ne agevoli il controllo e l’addestramento. Parallelamente, appare necessario migliorare il bagaglio capacitivo delle Forze Armate e di Polizia al fine di rendere il ricorso ai gruppi armati volontari meno impellente.
In tal senso, oltre alle istituzioni nazionali, anche gli attori esterni interessati a contribuire nel processo di stabilizzazione della Nigeria, proprio attraverso partnership volte a rendere gli attori securitari ufficiali più performanti, efficienti ed efficaci nella loro azione.