Lo stretto di Bab el-Mandeb, tra tensioni geopolitiche e nuove minacce securitarie
Lo stretto di Bab el-Mandeb, situato tra le coste occidentali dello Yemen e la zona del Corno d’Africa, dove è costeggiato da Gibuti, Somalia ed Eritrea, collega il Golfo di Aden al Mar Rosso. Si tratta di un braccio di mare largo solo 16 miglia nautiche nel suo punto più stretto, diviso a metà dall’isola di Perim (o Mayyun in arabo) sotto sovranità yemenita. Dalla guerra in Yemen, iniziata nel 2015, alle tensioni tra Eritrea ed Etiopia, dalla frammentazione della Somalia fino alle grandi crisi umanitarie della zona, l’equilibrio della regione è sicuramente tra i più fragili a livello globale. Al contempo, il passaggio di Bab el-Mandeb è tra i più decisivi per la sicurezza energetica, quantomeno europea. Infatti, gran parte degli idrocarburi del Golfo Persico transita attraverso lo stretto per raggiungere l’Europa o il Nord America attraverso il Canale di Suez o l’oleodotto SUMED, che collega il Golfo di Suez al Mediterraneo. Nel 2018 circa 1.3 miliardi di piedi cubici di gas naturale liquefatto (GNL) e 6.2 milioni di barili di greggio (di cui 3.6 diretti a Nord e 2.6 a Sud), hanno attraversato lo stretto. Nonostante la quantità di idrocarburi che lo attraversa sia inferiore rispetto, ad esempio, a quella che percorre lo stretto di Hormuz, Bab el-Mandeb rappresenta comunque un passaggio di alto valore strategico poiché, nell’eventualità di un blocco, obbligherebbe le navi a circumnavigare l’intero continente africano, aumentando esponenzialmente i prezzi delle merci e i tempi di consegna. La sua posizione rende dunque Bab al-Mandeb il quarto passaggio naturale per importanza a livello mondiale, con oltre sessanta navi commerciali che attraversano lo stretto ogni giorno.
Se dal punto di vista energetico e commerciale Bab el-Mandeb assume un’importanza sostanziale, lo stesso si può dire del suo ruolo come zona cuscinetto tra due regioni particolarmente instabili dal punto di vista geopolitico, ossia il Corno d’Africa e la Penisola Arabica, all’interno delle quali si gioca un’importante competizione per l’influenza regionale: quella tra Arabia Saudita ed Iran, principalmente localizzata in Yemen, e quella che vede contrapporsi Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato, e Turchia dall’altro. Tale partita ha portato questi Paesi, ma non solo, ad installare numerose basi militari nella regione. Tale attivismo militare ha poi inevitabilmente obbligato i Paesi dell’area a schierarsi da un lato o dall’altro nella contesa. L’Iran, ad esempio, ha stabilito una base ad Assab, in Eritrea, dal 2008 al 2015, inserendo Asmara nei suoi alleati regionali. A seguito di ciò, l’Arabia Saudita ha offerto ingenti finanziamenti al Paese proprio per cacciare Tehran dal suo territorio e combattere a fianco di Riyadh in Yemen, modificando completamente la posizione eritrea negli schieramenti regionali. Allo stesso modo, alla base saudita fondata in Gibuti nel 2016 e a quelle emiratine in Somaliland e Eritrea, fa da contraltare la base turca a Mogadishu, in Somalia, dove Ankara gode di una considerevole influenza. L’installazione di infrastrutture militari concretizza la presenza delle potenze regionali nelle fragili dinamiche locali, obbligando una sorta di polarizzazione interna, che nel lungo termine potrebbe rivelarsi dannosa per la stabilizzazione degli stessi Paesi del Corno. Allo stesso modo, la posizione strategica della zona circostante a Bab el-Mandeb, che permette l’accesso al continente africano e alle sue principali economie, nonché la prossimità alla Penisola Arabica, al teatro yemenita e alle principali rotte commerciali ed energetiche, ha attirato negli ultimi decenni diversi attori internazionali, che hanno stabilito la propria presenza, soprattutto in Gibuti. Il piccolo Paese costiero, situato proprio sulla punta del Corno d’Africa, è stato una colonia francese fino al 1977, ed ha mantenuto legami economici e securitari con Parigi anche dopo l’indipendenza. Tra questi, l’Accord de Défense ha fin da subito permesso il mantenimento di una base aerea delle Forze Francesi in Gibuti (FFDj), che ancora oggi costituisce il più grande contingente francese nel continente, con 1450 effettivi, e la seconda base operativa francese in Africa. Tale installazione ospita anche alcuni contingenti tedeschi e spagnoli, dislocati in Gibuti per partecipare alle missioni internazionali. Una seconda base militare, originariamente francese, Camp Lemonnier, è oggetto di un contratto di locazione tra la Repubblica del Gibuti e gli Stati Uniti, i quali vi hanno affidato la base di AFRICOM, il comando statunitense responsabile per il continente africano. Ad oggi Camp Lemonnier ospita circa 4000 uomini e rappresenta una priorità strategica per Washington per le operazioni di controterrorismo svolte in Africa, specialmente per quelle volte a contrastare al-Shabab in Somalia e le cellule dello Stato Islamico presenti tra Somalia e Kenya, ma anche per contrastare la montante influenza cinese in Africa.
Infatti, è molto rilevante come la Cina abbia deciso di concretizzare la propria presenza sulle coste dell’Africa orientale, risalente almeno agli inizi degli anni 2000, con la costruzione, avvenuta nel 2017, di una base militare in Gibuti, nel porto di Doraleh, a Nord della capitale e a 10 km dalla base americana. La decisione è parte della componente marittima della Belt and Road Initiative (BRI), nella quale sono coinvolti tanto il Gibuti, quanto la vicina Etiopia, che ricoprono un ruolo importante nella pianificazione strategica per l’espansione dell’influenza economica cinese nel continente.
Un interesse analogo è stato dimostrato dal Giappone, che si affida all’attraversamento di Bab el-Mandeb per circa il 10% dei propri traffici commerciali e che, pertanto, è fortemente sensibile ai rischi securitari nell’area. Per far fronte alla minaccia della pirateria, problematica proprio per le rotte commerciali, ma anche per controbilanciare l’ascendente cinese nell’area, nel 2011 le Forze di Autodifesa del Giappone (JSDF) hanno stabilito la loro prima base militare all’estero dopo la Seconda Guerra Mondiale, situata ad Ambouli, nella parte Sud della capitale gibutina, con circa 180 militari all’attivo. Nonostante il costante declino del fenomeno della pirateria registrato negli ultimi anni, nel 2017 Tokyo ha deciso di espandere la base, consolidando la presenza giapponese in Africa e, di fatto, segnalando che quest’ultima è ora volta ad asserire l’influenza giapponese nel continente in funzione anti-cinese.
Anche l’Italia ha individuato in Gibuti un punto strategico per la proiezione della propria influenza, sia per garantirsi una posizione privilegiata a ridosso delle principali rotte commerciali internazionali, sia per espandere i propri interessi securitari e politici a livello regionale. L’Italia, nel 2013, ha dunque stabilito una base militare di supporto a Loyada, in Gibuti, a 7 km dal confine somalo e la base operativa avanzata interforze Amedeo Guillet, che ospita in media un centinaio di uomini e 18 mezzi terrestri. La base fornisce supporto al personale italiano in transito, soprattutto verso la Somalia, e alle missioni italiane nella regione, come ad esempio quelle inserite nell’operazione EUNAVFOR Atalanta dell’Unione Europea o nella Task Force multinazionale CTF-151. Queste missioni sono state lanciate per garantire la sicurezza marittima dello stretto di Bab el-Mandeb e delle aree attigue, soprattutto attraverso il contrasto della pirateria che negli ultimi due decenni ha rappresentato una delle principali minacce alla sicurezza dei commerci nell’area. I pirati, soprattutto di origine somala, attaccavano navi di vario tipo nel golfo di Aden e nello stretto di Bab el-Mandeb, chiedendo poi il pagamento di un riscatto per la loro liberazione, oppure saccheggiandone il contenuto per poi rivenderlo. Il fenomeno, che ha visto il suo apice tra il 2009 e il 2011, anno in cui ha causato perdite pari a 6.9 miliardi di dollari, è stato quasi totalmente sradicato negli anni seguenti proprio da varie iniziative internazionali volte a preservare gli interessi economici e commerciali dei vari Stati: se nel 2011 i tentativi di attacco furono 176, nel 2019 si sono ridotti a un singolo episodio. Una delle missioni internazionali che ha concorso al raggiungimento di questo risultato è certamente l’operazione EUNAVFOR Atalanta dell’Unione Europea, a cui partecipano tutti i Paesi dell’Unione Europea e alcuni Paesi terzi, come Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Serbia e Corea del Sud, che è stata lanciata nel 2008 e prolungata fino a dicembre 2020. La sua missione coinvolge la protezione di navi sensibili, non ultime quelle del World Food Programme (WFP) e di altre agenzie ONU, la deterrenza, la prevenzione e la repressione della pirateria e il monitoraggio delle attività di pesca nel golfo di Aden, nonché il pattugliamento delle rotte commerciali adiacenti alle acque somale. L’Operazione Atalanta rischiera circa 700 uomini, da una a sei navi militari e da uno a tre velivoli per il pattugliamento marittimo. A partire da giugno 2020 è presente la fregata spagnola ESPS Numancia (classe Santa Maria), due aerei da sorveglianza marittima P-3 Orion, di cui uno spagnolo e uno tedesco, l’elicottero spagnolo Augusta Bell 212 e un sistema aereo unmanned (UAS) spagnolo, lo ScanEagle, usato per pattugliamento e ricognizione. Le dimensioni della missione segnalano senz’altro un grande impegno, da parte europea, nel garantire la sicurezza delle acque della regione, a sua volta indicativo degli interessi economici e commerciali, ma anche a livello di politica internazionale, che gli Stati Membri dell’Unione Europea detengono nell’area. Gli stessi interessi sono, peraltro, condivisi da un gran numero di altri Paesi, un dato evidente nella partecipazione di circa venti Stati nella Task Force multinazionale CTF-151, fondata dalla Forze Marittime Combinate (CMF) e dalla Quinta Flotta degli Stati Uniti, di base a Manama, in Bahrein, nel 2009. Si tratta di un meccanismo internazionale che opera nell’area conducendo pattugliamenti e operazioni legate alla sicurezza marittima, la cui guida, attualmente giapponese, viene assegnata su rotazione ogni tre o sei mesi, e a cui vari Paesi contribuiscono su base volontaria con mezzi navali, aerei o personale.
Se queste missioni hanno permesso che la pirateria non costituisse più un reale pericolo per i traffici marittimi di Bab el-Mandeb, oggi, questi sono messi in pericolo da una nuova minaccia securitaria, strettamente intrecciata alle dinamiche geopolitiche dell’area: l’assertività e le crescenti capacità operative degli Houthi in Yemen, anche nel dominio marittimo. Emersi negli anni ’90 nello Yemen del Nord da alcuni membri dell’omonima tribù, gli Houthi sono un movimento armato islamico di matrice zaydita che ha iniziato ad asserire la propria presenza attorno al 2004, quando il gruppo ha iniziato un movimento di insorgenza, per poi stabilire la propria amministrazione autonoma nel governatorato di Saada nel 2011. Nel febbraio 2015, dopo aver occupato il palazzo e la residenza presidenziale nella capitale Sana’a, si sono dichiarati al controllo del governo, sciogliendo il parlamento e creando un Comitato Rivoluzionario a guida del Paese, dando di fatto il via alla guerra civile yemenita tra gli Houthi, alleati con il partito precedentemente al potere, il Congresso Generale del Popolo, guidato da Ali Abdullah Saleh, e l’ex Presidente Abdrabbuh Mansur Hadi, appoggiato dalle monarchie del Golfo, in primis l’Arabia Saudita. L’intervento di quest’ultima contro gli Houthi si deve ai legami che uniscono il gruppo insorgente all’Iran, al quale si sono progressivamente affiliati sin dai primi anni 2000, fino a divenire un vero e proprio proxy regionale. Dal punto di vista militare l’ascendente iraniano, probabilmente intrapreso intorno al 2009, è divenuto più evidente a partire dal 2011, e ancor più dal 2014, soprattutto visti i grandi risultati ottenuti dal gruppo zaydita sul piano militare. Il supporto iraniano comprende mezzi, equipaggiamenti, ma anche addestramento militare, un punto rilevante se si guarda alle tecniche navali asimmetriche che gli Houthi utilizzano a Bab el-Mandeb sfruttando il controllo della costa occidentale, molto simili a quelle utilizzate dall’IRGCN, braccio navale dei Pasdaran, nel Golfo Persico. Queste strategie, che capitalizzano il vantaggio fornito dalla posizione degli Houthi sullo stretto, comprendono principalmente avvicinamenti rapidi a navi straniere con piccoli motoscafi, ma anche posizionamenti di mine e veri e propri attacchi esplosivi realizzati attraverso imbarcazioni a pilotaggio remoto cariche di materiale infiammabile. Finalità principale di queste azioni è il saccheggio delle navi commerciali e delle petroliere che transitano nello stretto per finanziare le proprie attività, soprattutto attraverso il mercato nero. Date le capacità militari dimostrate negli anni dagli Houthi e i loro equipaggiamenti, più sofisticati rispetto a quelli dei pirati somali, tali attacchi costituiscono una minaccia seria e preoccupante agli interessi economici occidentali nell’area. Esempi di attacchi di tal tipo sono quelli verificatisi nell’ottobre 2016 e nel maggio 2017 all’imbocco meridionale di Bab el-Mandeb, quando le petroliere MV Galicia Spirit e MV Muskie hanno subito un attacco esplosivo controllato, seguito da un tentativo di abbordaggio per mano Houthi. O, ancora, gli avvicinamenti rapidi condotti, ad esempio, nel gennaio 2018 a circa 45 miglia nautiche da Hodeida, quando gli Houthi hanno approcciato due navi mercantili ed una petroliera con alcuni motoscafi e un’imbarcazione controllata da remoto. Proprio il porto di Hodeida, al tempo controllato dagli Houthi e poi oggetto di un accordo mediato dalle Nazioni Unite, è al centro delle ostilità in Yemen per la sua rilevanza tanto a livello geopolitico quanto prettamente commerciale. Il controllo del porto offre agli Houthi un grande vantaggio per imporre le proprie rivendicazioni; infatti, questo viene utilizzato, oltre che come base per le operazioni nello stretto di Bab el-Mandeb, anche come leva politica, minacciando il blocco dell’arrivo di aiuti umanitari e alimentari. Inoltre, il porto consente di ricevere armamenti (in particolare missili o componenti per la loro fabbricazione), da Tehran e da Hezbollah, il gruppo sciita libanese affiliato all’Iran. Hodeida, come gli altri porti controllati dagli Houthi, viene anche utilizzato come base per il posizionamento di mine antinave, che si adattano bene alle basse acque dello stretto di Bab el-Mandeb, in alcuni punti profonde solo 30 metri. Nel febbraio 2020 sono state trovate circa 147 mine navali piantate dagli Houthi a Bab el-Mandeb e nelle zone circostanti. Le mine in questione sono principalmente di tipo KS-1 e Mersad (KS-2), mine a contatto di fabbricazione locale che costituiscono un pericolo per le rotte commerciali. Oltre a sfruttare le basse profondità di Bab el-Mandeb, gli Houthi, soprattutto a fronte di un’evidente inferiorità tecnologica rispetto alla loro controparte, appoggiata dall’Arabia Saudita, negli anni hanno cercato di trarre il maggior vantaggio possibile dalle caratteristiche geografiche dello stretto e dai suoi ristretti spazi di manovra, creando una marina composta da imbarcazioni rapide e dalle dimensioni ridotte, come i Low Profile Vessels – LPV a pilotaggio remoto di classe BlowFish, ovvero imbarcazioni lunghe circa dieci metri, capaci di raggiungere i 30 nodi di velocità, ed altri piccoli motoscafi di derivazione emiratina, venduti allo Yemen prima dello scoppio della guerra e poi riconvertiti in mezzi a pilotaggio remoto. Entrambi vengono caricati di esplosivo e utilizzati come veri e propri IED, come si è verificato nel gennaio 2017, quando è stata attaccata la fregata saudita al-Madina al largo di Hodeida, o nel luglio 2018, quando l’Arabia Saudita ha bloccato temporaneamente i passaggi di petroliere da Bab el-Mandeb dopo che due di queste furono colpite dagli Houthi per mezzo di queste imbarcazioni. Oltre a ciò, gli Houthi utilizzano altre navi d’attacco rapido equipaggiate talvolta con missili antinave, quali i C-802 di derivazione cinese, gli stesi utilizzati dall’IRGCN nelle acque del Golfo Persico. Accanto a ciò, gli Houthi possiedono anche missili antinave di derivazione sovietica P-15/Styx e P-21/Styx II. Tali missili vengono talvolta utilizzati anche in maniera non-convenzionale: le testate di alcuni Styx, infatti, sono state ritrovate a bordo di navi a pilotaggio remoto utilizzate come ordigni esplosivi improvvisati.
Gli attacchi condotti dagli Houthi attraverso l’utilizzo di queste tattiche non sono però limitati esclusivamente alla necessità economica per garantire il finanziamento delle proprie attività belliche, ma rientrano all’interno della strategia iraniana per l’influenza e il controllo della regione in chiave anti-saudita. In tale scontro geopolitico, che si gioca in larga misura anche nelle acque dello stretto, L’opacità del legame che unisce le milizie zaydite a Teheran, offre all’Iran il vantaggio della plausible deniability: gli Houthi, oltre ad essere vicini territorialmente all’Arabia Saudita, sono formalmente in guerra contro Riyadh, e di conseguenza possono attaccare direttamente assetti sauditi, tra cui petroliere e navi militari, conducendo per procura un conflitto marittimo a bassa intensità senza che l’Iran debba assumersene la responsabilità diretta.