Attacco degli Houthi a Tel Aviv: impatti geopolitici e ramificazioni regionali
Medio Oriente e Nord Africa

Attacco degli Houthi a Tel Aviv: impatti geopolitici e ramificazioni regionali

Di Giuseppe Dentice
23.07.2024

A quasi dieci mesi dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, il contesto mediorientale continua a mostrare una sua ridefinizione che potrebbe, presto o tardi, portare ad una deflagrazione del sistema regionale a causa delle diverse evoluzioni sul terreno e delle trasformazioni in corso nei rapporti e negli equilibri fragili tra i diversi attori interessati, ben precedenti il 7 ottobre 2023. Ultima tappa di questo processo è la serie di rappresaglie e contro-rappresaglie condotte dalla milizia Houthi contro Israele.

Tutto ha avuto inizio venerdì 19 luglio, quando il gruppo yemenita ha rivendicato un attacco con drone su Tel Aviv, causando un morto e almeno dieci feriti. Si tratta della prima azione militare dei ribelli lanciata con successo all’interno dei confini di Israele. Poche ore dopo, la Israeli Air Forces (IAF) ha coordinato un raid contro infrastrutture petrolifere ed energetiche nel porto di Hodeida, sulla costa orientale dello Yemen, sul Mar Rosso, causando tre morti e ottantasette feriti. Hodeida non è un target causale, ma è assolutamente fondamentale per i ribelli Houthi: l’asset è controllato da tempo dagli insorti yemeniti e utilizzato come unica via d’accesso per gli aiuti umanitari internazionali, ma anche per il contrabbando di energia e armi, quest’ultime provenienti dall’Iran, in virtù del supporto totale costruito da Teheran con il gruppo. Non a caso, questa connessione è divenuta forte sin dall’inizio della guerra civile yemenita del 2015, quindi ben prima del novembre 2023, quando l’organizzazione islamista si è resa protagonista di una serie di attacchi ai mercantili occidentali che transitano nel Mar Rosso.

Al di là della dinamica specifica, gli eventi occorsi nello scorso fine settimana palesano due elementi fondamentali delle confliggenti narrazioni mediorientali: da un lato, Israele ha conosciuto un profondo livello di insicurezza, che non si lega solo alla porosità dei suoi confini geografici; dall’altro lato, i diversi proxy iraniani potrebbero avere non necessariamente interesse a lanciare un conflitto aperto contro Israele per sfiancare il Paese. In questa ottica, le parole affermate nello statement di Hezbollah dopo l’attacco di venerdì da parte degli Houthi definirebbe l’inizio di una “nuova e pericolosa fase” nella guerra mediorientale. Una dimensione che sarebbe anche confermata dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu, che, anche nel viaggio a Washington del 23 luglio ribadirà all’uscente Presidente Joe Biden la necessità di salvaguardare la sicurezza e la stabilità di Tel Aviv dalle azioni destabilizzanti provenienti da attori non statuali vicini all’Iran.

In questa prospettiva, sembrerebbe prender quota uno degli scenari più sfavorevoli tra quelli auspicati dalle istituzioni israeliane: l’emergere di un conflitto a media-bassa intensità, che rimane costante nel tempo e nelle modalità ed è in grado di saturare le difese e le certezze di Tel Aviv. Una condotta del genere troverebbe giustificazione, appunto, nella definizione di una logica militare asimmetrica contro Israele, portata da molteplici fronti regionali: Gaza, Libano e Yemen.

In questo caso, lo Yemen assumerebbe uno spessore strategico diverso rispetto al recente passato. Infatti se l’offensiva nel Mar Rosso ha mostrato come il movimento islamista abbia a propria disposizione una varietà di opzioni per promuovere la propria campagna militare e politica, anche in maniera indipendente da quanto invece avviene nella Striscia di Gaza, il passaggio giunto con l’attacco a Tel Aviv predispone un salto di qualità. Non a caso in questo secondo scenario, il gruppo ribelle sarebbe in grado di muoversi in totale autonomia e in maniera diretta e parallela rispetto al contesto critico di Gaza. Al netto delle retoriche usate dagli Houthi per rivendicare e legittimare la loro campagna anti-israeliana in una funzione, per lo più, domestica e propriamente rientrante nella dinamica della guerra civile yemenita, il nuovo step, invece, sembrerebbe rientrare direttamente nelle trasformazioni dello scenario mediorientale in corso, nel quale i ribelli yemeniti si allineerebbero – anche se in maniera funzionale al proprio interesse – all’agenda regionale di altri proxy iraniani. Ciò significa che gli Houthi hanno mostrato ancora una volta resilienza e agilità nel condurre una guerra asimmetrica che mira ad ampliare il grado di ambizione e di status, interno e regionale, dell’organizzazione. Una posizione anti-israeliana e anti-occidentale, che non necessariamente posiziona il gruppo yemenita nel campo degli sponsor/sostenitori del fronte filo-palestinese. Anzi, più degli altri proxy strettamente dipendenti da questa variabile anche per ragioni storiche alla questione arabo-israelo-palestinese, gli Houthi possono usare la patente della vicinanza ideologica alla causa palestinese in maniera meno rigida di Hamas e Hezbollah per giustificare obiettivi e target diversificati e di comodo. Una forza che deriva anche dalla peculiarità stessa dell’organizzazione, che detiene una propria agenda, obiettivi tattici e strategici definiti, nonché una capacità operativa e di agire specifica e indipendente dal supporto iraniano. Tutto ciò, quindi, si traduce in una azione fondamentale per l’ideologia degli Houthi e della loro leadership, che ha calcolato l’uso strumentale di un attacco di Israele allo Yemen come un fattore funzionale in grado di aumentarne il sostegno locale e regionale.

Viceversa, nella prospettiva di Tel Aviv, l’attacco giunto dal sud della Penisola Arabica e l’ampliamento del fronte di tensioni mediorientali non rappresentano politicamente delle buone notizie. Il governo Netanyahu sarà più sovraesposto e impegnato a dover ragionare, contestualmente, su una doppia strategia correlata: ossia un disimpegno militare (ma non politico) da Gaza al fine di reindirizzare forze e risorse verso il Libano, ritenuto il vero teatro cruciale in grado di definire le evoluzioni di questa guerra – sempre meno – sotterranea tra Israele e Iran. Una minaccia diretta proveniente da sud e nello specifico dallo Yemen, non sarebbe più un qualcosa di contenuto e limitato ad Eilat. Infatti, anche in base all’ultimo attacco di venerdì 19, ciò testimonierebbe un cambio di passo e di minaccia ben più importanti visto che il valore del target colpito: ossia Tel Aviv e, quasi verosimilmente, l’Ambasciata USA nella città. In altre parole, dopo i vari tentativi, molti dei quali falliti, gli Houthi sono riusciti a giungere fino al cuore del Paese levantino. Un fatto che confermerebbe anche il timore avanzato dallo stesso Stato Maggiore israeliano, che ha riconosciuto che lo Stato è esposto ad una molteplicità di situazioni di incertezza e pericoli che possono giungere e variare a seconda dei contesti. Non più solo dalla Striscia di Gaza e/o dal Libano, se mai è stato realmente così. Uno strike o un attacco può pervenire da molte direttrici, come la Cisgiordania, la Siria, l’Iraq e perfino lo Yemen.

Ecco, quindi, che tutti questi elementi sembrerebbero supportare l’ipotesi di uno scenario militare regionalizzato in corso di repentina trasformazione, nel quale gli attacchi dallo Yemen verso Israele potrebbero rappresentare una costola di un ventaglio militare più limitato, ma che potrebbe contribuire a indebolire Tel Aviv specie se dovesse andare in scena uno scontro in Libano contro Hezbollah. A differenza, quindi, del succitato scenario yemenita, la tensione con gli Houthi e le eventuali ripercussioni nella Repubblica araba del Golfo non sono percepite da Israele, né tantomeno dagli attori regionali – specie Riyadh e Abu Dhabi – come un qualcosa di ineludibile. Anzi, proprio le monarchie arabe hanno mostrato grande interesse a impedire qualsiasi escalation nell’area che possa coinvolgere o mettere in discussione, anche solo indirettamente, la sicurezza di questi fondamentali player, dei loro asset o le rispettive ambizioni nella regione allargata. Infatti, in gioco non vi è solo il discorso politico bilaterale tra Israele e Arabia Saudita – sebbene lo stesso presenti innegabili e ampi impatti regionali –, ma tutta una dinamica geostrategica ampia che coinvolge il Golfo, l’India e i traffici tra Mediterraneo e Oceano Indiano Occidentale, nel quale il progetto IMEC è solo una rappresentazione simbolica di un enorme conglomerato di interessi trasversali, nel quale Tel Aviv è parte cruciale e fondamentale della riuscita del processo.

Ancora una volta, dunque, ad essere messa in discussione non sarebbe solo la natura della guerra che Israele conduce a Gaza contro Hamas, ma l’intera ratio politica e strategica di Tel Aviv nella regione allargata in funzione dichiaratamente anti-iraniana. Infatti, l’attacco degli Houthi a Tel Aviv e la successiva rappresaglia israeliana evidenziano una crescente instabilità e inquietudine della regione a causa delle sofisticate e varie conflittualità in corso nel Medio Oriente allargato.

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