L'evoluzione della radicalizzazione nel Maghreb all'indomani della sconfitta di Daesh
A quasi cinque anni dal discorso pronunciato nella moschea al-Nuri di Mosul, in cui Abu Bakr al-Baghdadi aveva proclamato la nascita di un nuovo “Califfato” a cavallo tra Siria e Iraq, lo Stato Islamico (IS o Daesh) è prossimo alla disfatta nella sua dimensione territorializzata e militare – convenzionale. Trincerati nell’ultima ridotta di Baghouz, sull’Eufrate siriano, gli ultimi irriducibili di Daesh presidiano un’area di meno di un chilometro quadrato.
Si è ormai creato da tempo un consenso pressoché unanime sul significato di questa contrazione territoriale che, per inciso, in nessun modo coincide con una eventuale sconfitta definitiva di Daesh. Innanzitutto, perché ne sopravvive l’idea. Un’idea prorompente, che veicolata dal possente apparato propagandistico del gruppo ha saputo infiltrarsi ben al di là del Medio Oriente, fino ad assumere i contorni di una vera e propria ideologia che ha presto acquisito la valenza di un richiamo globale.
Sono decine di migliaia i foreign fighters che hanno scelto di lasciare la propria vita e la propria terra per unirsi a Daesh. Non si tratta certo di un fenomeno completamente nuovo. Ma non può che continuare a sorprendere il confronto con le precedenti ondate di mobilitazione, seguite alla guerra nell’Afghanistan occupato dai sovietici, al conflitto in Bosnia negli anni ’90, ancora alla guerra in Afghanistan dal 2001 e poi a quella in Iraq del 2003. I combattenti stranieri mobilitati da Daesh sono stati molti di più e in un lasso di tempo più ristretto.
Un contingente così corposo, unito ad un’ideologia presentata in forme più accattivanti, ha permesso al gruppo di al-Baghdadi di contendere ad al-Qaeda il primato nel panorama del jihadismo internazionale. Daesh si è incistato rapidamente anche al di fuori del teatro siro-iracheno, o, in altri casi, è diventato un centro di gravità così potente da attrarre a sé parte dei combattenti un tempo legati all’organizzazione di Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri. Il contesto nordafricano non è rimasto avulso da queste dinamiche, anzi è divenuto uno dei più importanti terreni di espansione di IS soprattutto con le sue branche nel Sinai egiziano e una presenza esplicita in Libia, Nigeria settentrionale e Somalia.
Ideologia, combattenti stranieri, presenza consolidata al di fuori del Medio Oriente: sono queste le coordinate fondamentali lungo cui va letta la nuova minaccia che si presenta all’indomani della “sconfitta” di Daesh. Su questo sfondo, i Paesi del Nord Africa si trovano ora a dover gestire la massa di foreign fighters di ritorno con non poche difficoltà di sicurezza. Le stime più attendibili fissano a circa 6.000 unità il numero di combattenti stranieri partiti dal Maghreb negli anni scorsi, mentre un numero imprecisato tra i 1.300 e i 3.400 foreign fighters hanno scelto di recarsi in Libia dal 2011 ad oggi. Dunque, il fenomeno del reducismo, unito all’attrattiva del messaggio radicalizzante di Daesh e di altri gruppi estremisti, rappresenta una delle principali minacce per il Nord Africa.
Non si può quindi ignorare che in tali Paesi, pur con le dovute differenze, l’opera di proselitismo possa trovare terreno fertile e innescare processi di radicalizzazione. Un rischio che viene acuito dalla persistenza di gravi criticità economiche e sociali, dall’assenza di reali prospettive di miglioramento delle proprie condizioni, e da una crescente e spesso generalizzata sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Per queste stesse ragioni, il monitoraggio dei fenomeni del reducismo e della radicalizzazione jihadista emerge come una delle massime priorità per la sicurezza europea. Ciò non soltanto in un’ottica prettamente interna, ma anche con riguardo all’evoluzione del fenomeno e delle sue ripercussioni in un contesto come quello nordafricano, a cui i Paesi europei sono legati da sfide e interessi comuni, amplificati dalla prossimità geografica, dalla presenza storica di rilevanti comunità maghrebine sul proprio territorio e da consistenti flussi migratori.
Il presente report si propone di fornire una solida cornice interpretativa per queste sfide emergenti, a partire da un’analisi complessiva della situazione nel quadrante nordafricano.
Curato da Ce.S.I. in collaborazione con ITSTIME (Università Cattolica)