Le tensioni tra India e Pakistan nel Kashmir e le possibili ripercussioni sul contesto regionale
Negli ultimi mesi, lo scontro tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir ha raggiunto un nuovo picco di tensione. Le ultime schermaglie risalgono al 14 febbraio scorso, quando il gruppo Jaish-e-Muhammad (JeM) ha condotto un attentato suicida contro un convoglio delle Forze indiane a Srinagar, capoluogo del Kashmir, uccidendo 40 militari. L’India, che accusa il Pakistan di offrire supporto ai gruppi d’insorgenza operativi nell’area, ha risposto il 26 febbraio con un raid aereo nei pressi della città di Balakot, nell’Azad Kashmir, presumibilmente per colpire un campo d’addestramento di JeM. Il giorno successivo, il Pakistan ha reagito e ha dichiarato di aver abbattuto due aerei caccia indiani e catturato uno dei piloti, poi rilasciato l’1 marzo.
Il Kashmir è motivo di scontro tra i due Paesi fin dal 1947, anno nel quale il Regno Unito concesse l’indipendenza alle colonie nel subcontinente indiano. In particolare, il Pakistan non riconosce la giurisdizione indiana sulla regione del Jammu e Kashmir e invoca l’organizzazione di un voto plebiscitario per legittimare l’annessione del territorio a uno dei due Paesi.
Nel corso degli anni, sulle rivendicazioni politiche dei due Paesi si è innestata l’attività asimmetrica di gruppi di insorgenza, sia indipendentisti sia di matrice terroristica (tra cui lo stesso JeM), che hanno condotto numerosi attacchi nella regione, esacerbando, di fatto, la conflittualità latente tra i due Stati. All’intenro di un rapporto delicato come quello tra New Delhi ed Islamabad, la questione del Kashmir è spesso diventata non solo un tema di politica regionale ma anche un argomento da utilizzare a fine di politica interna, per polarizzare il dibattito nei confronti dello storico rivale. Questa tendenza trova conferma anche nell’escalation di toni e di tensione tra India e Pakistan registrata a fine febbraio, le cui motivazioni si inseriscono nella particolare situazione che stanno attraversando entrambi i governi.
A New Delhi, il Primo Ministro Narendra Modi si ripresenterà come candidato alle elezioni dell’11 aprile. Il leader del partito conservatore Bharatiya Janata (BJP) è al governo dal 2014. Negli anni successivi, la sua personalità, l’efficacia del messaggio nazional-religioso induista e l’iniziale crescita economica, gli sono valsi un elevato indice di gradimento nell’elettorato, nonché la vittoria alle elezioni locali del 2017 in ben 11 Stati sui 29 di cui è composta l’Unione Indiana.
Tuttavia, negli ultimi mesi il sostengo a Modi si è progressivamente eroso. In primo luogo, nelle ultime elezioni locali di dicembre 2018 il partito Indian National Congress (INC) di Rahul Gandhi ha vinto in alcuni Stati tradizionalmente governati dal BJP, segno di un malcontento diffuso nelle aree rurali, dove gli interventi promessi da Modi per risanare l’economia locale sono stati disattesi. In secondo luogo, la leadership del Premier è stata scossa dalle accuse di insabbiamento di alcune statistiche, dalle quali sembrava emergere che il tasso di disoccupazione nel Paese fosse in realtà più alto di quello ufficiale. Benché Modi possa contare su un indice di gradimento ancora elevato, il BJP ha dunque dovuto fare i conti con un progressivo calo di consensi.
In questo contesto va inquadrata la gestione della questione del Kashmir. Infatti, uno dei punti cardine della campagna elettorale di Modi nel 2014 verteva proprio sull’intenzione di reprimere i gruppi militanti jihadisti di origine pakistana operativi nel Jammu e Kashmir. Autorizzando il raid del 26 febbraio sul campo d’addestramento di JeM, Modi ha voluto dare un segnale forte ai suoi cittadini, ribadendo il suo ruolo di garante della sicurezza degli abitanti indiani della regione e la volontà di non venire meno alle promesse elettorali fatte cinque anni fa. In un momento delicato come quello della campagna elettorale in corso, l’antagonismo con il Pakistan è funzionale al Primo Ministro per spingere su quella narrativa nazionalistica che è da sempre il proprio cavallo di battaglia e gli consente di proporre all’elettorato un facile punto di convergenza, che ponga in secondo piano le criticità interne.
Anche in Pakistan il governo del neoeletto Primo Ministro Imran Khan deve fronteggiare la questione kashmira tenendo conto delle componenti istituzionali interne. A tal proposito, va notato che nel panorama politico del Paese un ruolo di primo piano è sempre stato ricoperto dall’Esercito: numerosi sono stati i governi guidati da Capi di Stato Maggiore autoproclamatisi Primi Ministri in seguito a colpi di stato militari. Khan, che non ha una carriera militare alle spalle, si trova in una posizione delicata: da un lato, deve tenere conto della leadership dell’Esercito, che rimane un pilastro fondamentale dell’equilibrio istituzionale interno; dall’altro, deve fronteggiare le opposizioni politiche, che lo hanno più volte tacciato di eccessiva deferenza verso i militari, alimentando critiche che, nei primi mesi del suo mandato, hanno messo in discussione la reale capacità di governare il Paese.
In questo contesto, il riaccendersi della questione del Kashmir ha rappresentato il primo, vero, banco di prova per Khan. Consapevole che per la popolazione pakistana le operazioni dell’India in Kashmir rappresentano un argomento sensibile, e conscio della necessità di preservare il sostegno dell’Esercito, il Premier non ha potuto esimersi dal rispondere al raid indiano nell’Azad Kashmir, autorizzando l’Aeronautica Militare pakistana a reagire militarmente. Alla risposta militare, Khan ha fatto seguire alcune dichiarazioni nelle quali ha espresso la volontà di avviare colloqui con il Primo Ministro indiano Modi, per poter giungere ad una soluzione negoziata e pacifica.
Tuttavia, nell’attuale congiuntura politica pakistana un eventuale dialogo con l’India sul Kashmir potrebbe mettere nuovamente alla prova la tenuta del governo di Khan. Infatti, New Dheli accusa il Pakistan di fornire sostegno ai gruppi jihadisti nella regione. Storicamente, i governi pakistani hanno tenuto un atteggiamento ambivalente: da un lato, respingere le accuse di connivenza con gli ambienti radicali operativi in Kashmir; dall’altro, assecondare la scelta dell’Esercito di non prendere di mira apertamente i gruppi d’insorgenza, utile spina nel fianco per fiaccare il rivale indiano. Ora un’eventuale dialogo con le autorità indiane porrebbe Khan di fronte ad una doppia esigenza: trovare un punto d’incontro con le istanze di New Dheli al fine di evitare un’escalation senza però apparire accondiscendente rispetto alle posizioni indiane, per scongiurare una perdita di credibilità interna.
La questione del Kashmir potrebbe avere ripercussioni anche a livello regionale ed in particolare sui negoziati di pace in Afghanistan, poiché in questo contesto, oltre agli Stati Uniti e ai Talebani, ricopre un ruolo importante anche il Pakistan. Nell’ottica di voler rafforzare il proprio ruolo diplomatico nella regione, il governo di Islamabad, che da sempre mantiene aperto un canale di comunicazione con la leadership talebana, ha sempre avuto un particolare interesse verso la questione afghana. Nei negoziati di pace attualmente in corso, appare evidente come le autorità pakistane abbiano svolto un ruolo di facilitatore per la creazione delle condizioni alle quali è stato possibile per Washington intavolare il dialogo con la componente talebana. Ciò ha permesso al pakistan di ritrovare una neutralità, almeno temporanea, con gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump, i quali negli ultimi mesi avevano apertamente fatto pendere l’ago della propria bilancia politica verso New Delhi. In questo momento l’esigenza di giungere ad una soluzione negoziata soddisfacente in Afghanistan rende fondamentale mantenere aperto anche il dialogo con il Pakistan. Nelle ore immediatamente successive all’abbattimento dei due aerei indiani il 27 febbraio scorso, Washington ha lanciato un invito alla calma, che sembra testimoniare la volontà della Casa Bianca di distendere le tensioni nel Kashmir, al fine di scongiurare effetti indesiderati sulla propria agenda in Asia Meridionale.
Nel complesso e delicato quadro regionale si inserisce anche la Cina, portatrice di interessi sia economici, sia securitari. In ambito economico, Pechino ha siglato un accordo con il Pakistan per avviare i lavori di costruzione del China Pakistan Economic Corridor (CPEC), progetto che prevede il finanziamento e la costruzione di strade ed infrastrutture lungo una direttrice che parte dal porto di Gwadar sul Mar Arabico, attraversa il Pakistan e giunge a Kashgar, nella Regione autonoma dello Xinjiang, nell’Ovest della Cina. La rilevanza strategica del CPEC risiede nel fatto che il petrolio importato dal Golfo Persico giungerà direttamente nello Xinjiang, evitando il transito attraverso lo Stretto di Malacca, nel Sud-Est asiatico, pattugliato da navi straniere. Ciò avrebbe un impatto importante sulla strategia di sicurezza energetica cinese. Di conseguenza, per Pechino un’eventuale escalation nel Kashmir destabilizzerebbe il Pakistan, andando ad impattare negativamente sullo sviluppo del CPEC e, dunque, sui propri interessi economici.
In ambito securitario, il focus delle attenzioni cinesi è l’Afghanistan. Infatti, da circa due anni Pechino e Kabul conducono operazioni congiunte di polizia lungo i 76 km di confine che separano lo Xinjiang dall’Afghanistan, per impedire un eventuale ingresso in territorio cinese di militanti di etnia uigura (minoranza turcofona che abita la regione occidentale dello Xinjiang) affiliati a gruppi legati al terrorismo di matrice jihadista (sia al-Qaeda sia Daesh), minandone la sicurezza interna.
Alla luce di quanto detto, la questione del Kashmir non può essere vista come una semplice disputa bilaterale tra India e Pakistan, poiché ha ripercussioni sugli equilibri dell’intera regione dell’Asia Meridionale.
Dati gli interessi dei diversi Paesi, sembra assodato che un’escalation militare non gioverebbe ad alcuna delle parti coinvolte, prime fra tutte l’India e il Pakistan. Benché la situazione in Kashmir rimanga tesa, un piccolo passo avanti sembra essere stato fatto in occasione della Giornata Nazionale del Pakistan, il 23 marzo scorso: i Primi Ministri dei due Paesi si sono scambiati messaggi di reciproca volontà di allentare le tensioni e stabilizzare la situazione nella regione. Il portavoce del Ministro degli Affari Esteri cinese, Geng Shuang, ha espresso pieno sostegno ad entrambi i Paesi, dichiarando che Pechino li sosterrà nel mantenere l’impegno di iniziare a dialogare sulla questione kashmira. Tali dichiarazioni scaturiscono principalmente dall’interesse che la Cina nutre nella prosecuzione dei negoziati di pace afghani, che consentirebbero di stabilizzare il confine sino-afghano e tutelare gli interessi economici cinesi in Pakistan.
Dal canto loro, anche per gli Stati Uniti il processo di stabilizzazione afghano rimane prioritario. Dunque, nei prossimi mesi è possibile che Pechino e Washington decidano di intervenire mediatori per favorire la distensione nel Kashmir, e poter così rivolgere l’attenzione al prioritario processo di stabilizzazione afghano.