Dal Mar Rosso a Malacca: la competizione strategica per i porti della regione dell’Oceano Indiano
Se è vero che il baricentro economico del mondo è in fase di matura istallazione in Asia, è altrettanto vero che l’epicentro politico delle relazioni internazionali appare destinato a fare altrettanto. Infatti, seppur il Continente Asiatico, nella sua vastità geografica e di risorse, abbia sempre costituito un quadrante di primario interesse per le maggiori potenze globali, oggi gli Stati del cosiddetto Occidente non possono approcciarsi al Grande Oriente con la postura predatoria e colonialista del passato. Appare evidente che la stagione dell’imperialismo e dei “Trattati ineguali” è tramontata e che quella parte del mondo un tempo riunita nel fronte dei Non Allineati e oggi nel calderone del Sud Globale avanzi sonoramente due richieste: la parità tra ruolo economico e peso politico globali e la riscrittura delle regole e degli equilibri di governance internazionali. Quindi, se il futuro assetto del nostro pianeta avrà nell’Asia il motore e la consolle di comando, la partita per l’egemonia nel continente sarà decisiva per scoprire chi avrà le chiavi e il volante. In questo contesto, la competizione per la primazia asiatica e globale avrà nel controllo dell’Oceano Indiano, centro nevralgico dei traffici commerciali tra Est e Ovest, il suo architrave. A riguardo, basta pensare, semplicemente, ai tanti tentativi di classificazione geografica che, negli ultimi 15 anni, i diversi Paesi e blocchi di alleanze hanno promosso sulla regione, dalla Regione dell’Oceano Indiano di New Delhi all’Indo-Pacifico giapponese e statunitense, dall’Asia Pacifico europeo della Guerra Fredda fino al più recente all’IndoMediterraneo europeo di ultima generazione. A ben vedere, oltre al ricorrere della parola “Indo”, occorre sottolineare come ciascuna classificazione abbia nell’omonimo oceano il suo pilastro e il suo nucleo.
L’importanza primaria della regione dell’indo-pacifico risiede, innanzitutto, nel gigantesco volume economico e commerciale che genera e movimenta: secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2024 oltre il 60% degli scambi globali sono avvenuti in quest’area del mondo, seguendo sia vettori transcontinentali (Europa-Asia-Africa-Americhe) che regionali (Asia Centrale, Asia Meridionale, Asia Orientale). La produzione di beni e la generazione della ricchezza avviene, attualmente, secondo precise dinamiche dominanti, che vedono manifatture asiatiche in costante crescita, Paesi africani, Monarchie del Golfo e Paesi sudamericani bacini di risorse e materie prime, Europa e Stati Uniti ricchi detentori di superiorità tecnologica. Parziale eccezione è la Repubblica Popolare Cinese che, pur essendo un importatore netto di prodotti energetici, dispone di significative riserve di materie prime critiche e terre rare all’interno del proprio territorio. Ad oggi, la competizione verte sulla messa in sicurezza delle linee di comunicazione marittima per tutelare i flussi di import-export, sulla difesa delle supply chain di materie prime e sull’aggressione ai mercati internazionali. Tuttavia, alcuni attori coinvolti nella partita regionale intendono modificare il paradigma: i Paesi asiatici vogliono accedere alle tecnologie occidentali (soprattutto ai design industriali per chip e semiconduttori) per compiere il definitivo salto di qualità da manifatture low a manifatture high tech, i Paesi africani intendono incentivare la costruzione di impianti industriali sul proprio territorio, e le Monarchie del Golfo desiderano aumentare il livello di sofisticazione delle proprie economie, smettendo di essere semplici “stazioni di servizio” del mondo.
Di conseguenza, le faglie di conflitto economiche interregionali ed internazionali si sviluppano innanzitutto attorno alla creazione di corridoi commerciali privilegiati e lungo la sfida tra detentori di tecnologie e detentori di materie prime, secondo la più classica “dialettica del Servo e del Padrone” di hegeliana memoria. La competizione nell’Indo-Pacifico ruota attorno ai tre pesi massimi cinese, indiano e statunitense, con gli altri attori chiamati ad adattarsi alle strategie promosse da Pechino, New Delhi e Washington, prediligendo un approccio da blocco di alleanze, oppure a preferire modalità di azione più flessibili, individualiste e speculative, volte a massimizzare, di volta in volta ed a seconda dei singoli dossier, il beneficio nazionale. Il corridoio economico cinese, l’ormai famosa Nuova Via della Seta (o BRI, Belt and Road Inititative), nei suoi due rami terrestre e marittimo, rappresenta il più ambizioso progetto infrastrutturale e la più massiccia linea di logistica integrata della storia dell’umanità, volta a collegare il Celeste Impero, l’Asia e l’Europa. La risposta indiana è il più recente India Middle East Europe Corridor (IMEC), il cui scopo è connettere New Delhi con il vecchio continente attraverso il Medio Oriente. Sul futuro della BRI pesano le incertezze sul futuro dell’economia cinese e, soprattutto, le strategie di contenimento attuate dagli Stati Uniti e dall’Europa attraverso il derisking e il decoupling. Tuttavia, dopo decenni di globalizzazione, di delocalizzazione delle imprese e di integrazione delle strutture produttive attraverso le catene di valore, un distacco rapido e semplice da Pechino non è né semplice né immediato. In questo contesto, l’India è il nuovo partner individuato da europei e statunitensi per sostituire la Cina, anche se la potenza manifatturiera e la scarsa disponibilità di materie prime critiche sono due ostacoli di non facile superamento e non in tempi brevi. Inoltre, non va sottovalutato il fatto che l’India non ha alcuna intenzione di accreditarsi come partner subalterno nei grandi disegni strategici euro-atlantici, bensì intende sedersi al tavolo della futura governance globale su un piano di assoluta e riconosciuta parità. In questo contesto, a Paesi europei, alla Turchia e alla Russia resta da scegliere quale ruolo giocare, quale posizione costruire e quali interessi tutelare e perseguire. Mosca, impegnata nel pantano del conflitto ucraino e alle prese con la necessità di gestire la crisi siriana e il futuro delle sue basi nel mar Mediterraneo, può contare sulla resilienza del dialogo con l’India, basato sulla necessità indiana di acquistare materie prime russe a basso prezzo, e sulla partnership strategica obbligata con la Cina. Il suo ruolo, tuttavia, sembra destinato ad un profilo di secondo piano incentrato sullo sviluppo di sinergie nel settore delle commodities e mantenimento dell’influenza in Africa. La Turchia, da parte sua, è favorita dalla posizione geografica e dalla recente espansione del suo potere in Siria: chiunque intenda costruire corridoi economici terrestri o marittimi tra Est e Ovest dovrà necessariamente confrontarsi con Ankara. Infine, i Paesi europei appaiono procedere a rimorchio di Washington, più per necessità che per convinzione. Per alcuni di essi, in primis la Germania, il distacco dalla Cina è un evento traumatico mentre per altri, a cominciare dall’Italia, il parallelo rafforzamento della partnership con l’India è un’occasione strategica epocale. Infatti, se si pensa all’IMEC, è impossibile non considerare l’Italia come terminale occidentale ed europeo privilegiato.
L’evoluzione dei corridoi commerciali ed infrastrutturali è il primo atto di questa nuova competizione globale e, di conseguenza, il controllo delle linee di comunicazione marittime, dei porti e degli avamposti militari a loro protezione rappresenta il presupposto irrinunciabile alla creazione di una proiezione strategica solida e sostenibile. L’obbiettivo di questo lavoro, quindi, è comprendere lo stato attuale e le prospettive future della “guerra dei porti”, poiché dal suo esito sarà possibile misurare la portata e la sostenibilità delle ambizioni cinesi, indiane e statunitensi e, di conseguenza, i rapporti di forza del mondo che verrà.