Come cambia l'insorgenza jihadista in Pakistan
Asia e Pacifico

Come cambia l'insorgenza jihadista in Pakistan

Di Francesca Manenti
06.11.2016

La profonda fase di transizione attraversata dalla militanza talebana negli ultimi 2 anni sta portando ad una netta ridefinizione delle alleanze e dei rapporti tra l’insorgenza pakistana e il panorama jihadista internazionale.

A differenza da quanto accade in altri contesti geografici, infatti, in Pakistan al-Qaeda non ha ancora ceduto il passo all’avanzata del Califfato e sembra avere ancora delle importanti carte da giocare per scongiurare un rafforzamento dell’influenza di Daesh. Già nel settembre 2014 la fondazione di Qaedat al-Jihad (al-Qaeda in the Indian Subcontinent - AQIS), nuova branca dell’organizzazione nel territorio compreso tra l’Afghanistan e il Myanmar, aveva messo in evidenza il tentativo della leadership qaedista di riaffermare la propria presenza e la propria forza all’interno della regione. In realtà, più che una nuova formazione nascente nel variegato panorama jihadista dell’Asia meridionale, AQIS è una formazione prevalentemente pakistana, frutto della volontà di Zawahiri di riunire sotto una nuova veste quei gruppi che, nel tempo, hanno stretto un rapporto simbiotico con l’organizzazione. Tra questi Harakat-ul-Muhajideen, Harakat-ul-Jihad-al-Islami e Brigade 313, Jaish-e-Mohammad, Lashkar-e-Jhangvi e, soprattutto, gruppi di Talebani pakistani che, in rotta con la leadership del Movimento dei Talebani pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan – TTP), avevano deciso di fuoriuscire dal TTP per rivendicare una maggior autonomia. A partire dal 2014, infatti, la mancanza di carisma del nuovo Emiro del TTP, Fazlullah, e la predilezione di quest’ultimo per attività di natura prevalentemente criminale (anche oltre confine) rispetto all’implementazione di una lotta sistematica contro le autorità di Islamabad per l’imposizione della sharia, avevano spinto molti comandanti militari a prendere le distanze dal gruppo. Tale frattura si è ulteriormente approfondita con l’inizio dell’operazione militare Zarb-e-Azb, lanciata dalle Forze Armate pakistane nel giungo 2014 contro le roccaforti dell’insorgenza nelle Agenzie Tribali del Nord e Sud Waziristan, che ha costretto Fazlullah a ripiegare oltre confine (nella provincia afghana di Kunar). L’assenza dell’Emiro ha inevitabilmente contribuito ad allentare il già precario legame con le frange più critiche del TTP e ha favorito la creazione di nuove realtà indipendenti. In questo contesto, il rilancio della presenza qaedista non si è proposto come alternativa all’ombrello da sempre fornito dal TTP, ma, al contrario, ha cercato di fungere da cerniera all’interno del panorama talebano. Al-Qaeda, infatti, ha saputo inserirsi tra le spaccature interne alla militanza, intercettare le nuove formazioni ed offrirsi come interlocutore intermedio tra esse e la leadership di Fazalullah per cercare di arginare un’emorragia che avrebbe potuto creare pericolosi spazi per l’inserimento di realtà alternative e concorrenti alla propria. Arrivata in Pakistan come realtà esterna, al-Qaeda è diventata così una sorta di sistema endogeno, una sovrastruttura di sostegno che di fatto riconduce ad una sintesi le diverse anime dell’insorgenza pakistana. I contatti e i rapporti creati in quasi 40 anni di stretta collaborazione hanno consentito all’organizzazione di al-Zawahiri di ritagliarsi così un ruolo di guida, in grado di dare alla militanza talebana un indirizzo politico che di fatto prescinde dai rapporti tribali e dalle diatribe di potere locale e che garantisce una maggior coesione trasversale. In un momento in cui le lotte interne stavano compromettendo l’efficacia del TTP stesso, la leadership qaedista sembra dunque aver ricoperto un ruolo importante nel facilitare un ricongiungimento, seppur prettamente operativo, tra la cerchia di Fazlullah e i gruppi secessionisti, ed evitare l’intromissione del Daesh nel panorama pakistano. Un esempio di questa iniziativa può essere visto nell’azione di Jamaat ul Ahrar (JA), ad oggi la formazione più attiva all’interno del panorama talebano, nonché una delle principali espressioni della vecchia guardia talebana filo-qaedista. Il fondatore, Abdul Wali (alias Omar Khalid Khorasani), ucciso da un raid statunitense lo scorso aprile, infatti, aveva una lunga esperienza jihadista: unitosi nei primi anni ’90 all’insorgenza nel Kashmir come membro di Harakat al Mujahedeen, Khorasani si era formato nei campi di addestramento di al-Qaeda. Ex comandante TTP in Mohamand, aveva nel tempo stretto forti legami con realtà affiliate al network qaedista, quali l’Islamic Muvement of Uzbekistan, l’East Turkestan Islamic Movement e con combattenti di origine araba e cecena presenti nelle FATA. Proprio questa entratura nei confronti della vecchia generazione di militanti e, in particolare, della leadership di JA, dunque, sembra dare ora ad al-Qaeda la possibilità di indirizzare l’azione dell’insorgenza per cercare di massimizzarne l’efficacia e scongiurare così la formazione di gruppi alternativi, indipendenti da ogni legame con la struttura qaedista e potenzialmente attratti dal Daesh. Non appare causale, infatti, che sia JA ad aver rivendicato i 2 più eclatanti attentati compiuti nel Pakistan nel corso del 2016: l’attentato al parco Gulshan-i-Iqbaldi di Lahore a marzo, nel quale sono rimaste uccise circa 70 persone, e l’attentato compiuto ad agosto durante la veglia funebre del Presidente della Balochistan Bar Association all’ospedale di Quetta (capoluogo del Balochistan). L’assunzione di un nuovo ruolo politico nei confronti della militanza è funzionale ad al-Qaeda per ribadire il proprio primato come entità jihadista di riferimento all’interno del contesto pakistano. Tale sforzo sembra trovare una conferma nel fatto che fino ad ora la retorica del Califfato, galoppante in altri contesti geografici, non abbia trovato grande spazio nel Paese. Il tentativo di creare una branca regionale affiliata al gruppo jihadista iracheno (chiamata Islamic State in Khorasan), intrapreso tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 da un gruppo di Talebani sia pakistani sia afghani, non ha prodotto grandi risultati e le residuali cellule legate all’autoproclamatosi Califfo sono ad oggi confinante nella provincia di Nangharar, nell’est dell’Afghanistan. Tuttavia, un fattore di cambiamento potrebbe emergere dalla nuova e progressiva radicalizzazione che si sta registrando all’interno del Punjab, regione in passato interessata solo in modo marginale dall’attività della militanza. Negli ultimi anni, infatti, quest’area ha conosciuto un processo di radicalizzazione che ha interessato in modo trasversale la società punjabi. La gemmazione di numerose madrasse nei centri rurali affetti da un più alto tasso di disoccupazione e di sperequazione sociale rispetto alle altre aree della provincia, e l’attività di organizzazioni di influenza islamista, quali Hizb-ut-Tahrir e Jamaatud Dawa, nei centri urbani hanno diffuso una maggior sensibilità per un’interpretazione integralista dell’Islam. Tale tendenza, di fatto, sta creando anche all’interno del Punjab un terreno fertile per l’attecchimento della retorica jihadista. In questo contesto, però, la mancanza di una tradizione talebana radicata che possa riproporre anche in quest’area le dinamiche che caratterizzano il resto del Paese crea di fatto un vuoto che potrebbe essere colmato da nuove formazioni sensibili al fascino dello Stato Islamico. Il ritrovamento di materiale propagandistico e l’arresto di un nucleo non ancora attivo di 40 militanti ispirati dal Daesh in diverse città della provincia hanno messo in luce come proprio il Punjab, nel prossimo futuro, potrebbe diventare non solo la testa di ponte per uno “sbarco” dello Stato Islamico in Pakistan, ma anche territorio di scontro tra la vecchia guardia qaedista e i seguaci del nuovo Califfato.

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