L'importanza del summit Obama-Xi
Il 7 e l’8 giugno il Presidente Americano Obama ed il Presidente cinese Xi Jinping si sono incontrati vicino Palm Springs, in California, per un summit bilaterale dal profondo valore politico, a causa dei tantissimi argomenti, dalla cyber-warfare agli equilibri asiatici, che riguardano direttamente il futuro equilibrio dei rapporti. La cornice del meeting è stata scelta con cura ed è pregna di simbolismo. Infatti, la California è il più “asiatico” degli Stati dell’Unione - si affaccia sul Pacifico ed ospita numerose e prospere comunità asiatiche, fra cui quella giapponese, cinese, coreana e filippina - e il luogo dell’incontro, l’Annenberg Estate, (oggi noto come Sunnylands) fu molto amato da Richard Nixon, il Presidente che con la famosa “diplomazia del ping-pong” fu responsabile dell’apertura alla “Cina Rossa” nel 1971. Si tratta del primo summit fra i due Presidenti, e sarà certamente un‘occasione per confrontarsi sui temi di politica estera, specie per quanto riguarda le ambizioni del nuovo leader cinese, una personalità ritenuta essere più nazionalista rispetto al suo diretto predecessore Hu.
Da parte statunitense, l’incontro è fondamentale al fine di calibrare meglio la politica asiatica dell’Amministrazione Obama e per evitare attriti con Pechino in una serie di temi caldi: dal dossier nucleare nordcoreano e gli equilibri in Asia nordorientale, alle dispute marittime fra Pechino ed un numero di Stati dell’area, molti dei quali alleati statunitensi. Inoltre, va assumendo grande rilevanza nei rapporti bilaterali la questione delle intrusioni cyber da parte di hacker cinesi nei confronti di società della Difesa, del Pentagono e di altre grandi compagnie americane, inequivocabilmente ricondotte dalle autorità statunitensi a Pechino.
Da parte cinese, la visita di Xi è volta alla ricerca di un nuovo equilibrio nei rapporti con Washington, ovvero un assetto che tenga conto delle mutate dinamiche fra i due Paesi sotto il profilo economico, politico e militare e manifestate principalmente dall’ accresciuto ruolo della Cina nella regione dell’Asia-Pacifico e più in generale in tutto scacchiere internazionale. In particolare, alla luce del pivot strategico verso l’Asia annunciato l’anno scorso da Obama, nelle intenzioni cinesi vi è anche l’urgenza di rigettare l’idea che il contenimento della potenza cinese, così come viene interpretato da Pechino, possa essere realizzabile o anche solo desiderabile.
Il meeting sino-americano è avvenuto in un momento nel quale il Partito Comunista comincia, suo malgrado e con estrema riluttanza, a rendersi conto che il potere americano in Asia non è in procinto di sciogliersi come neve al sole. La combinazione dell’ascesa rapidissima della Cina in questi ultimi trent’anni ed il sopraggiungere della crisi finanziaria nel 2008 hanno avuto un ruolo di primo piano nel promuovere in Cina, fra apparatcik del Partito, militari e accademici, la convinzione che il cosiddetto “secolo americano” stia volgendo al termine, spianando la strada ad un presunto prossimo “secolo cinese”. Proprio ragionando in termini “post-americani”, lo stesso Xi Jinping ha promosso la sua visione di “Sogno Cinese”. In genere, ogni Capo di Stato cinese diviene noto per lo slogan con cui vuole connotare il proprio mandato e, nel caso di Xi, è appunto quello del Sogno Cinese. In teoria, esso fa riferimento ad un processo di galvanizzazione e ringiovanimento nazionale volto al miglioramento degli standard di vita, alla prosperità e allo sviluppo sostenibile di una società ormai profondamente diversa da quella di Mao. Sono in tanti, tuttavia, a ritenere che tale visione contempli, almeno in parte, il consolidamento del Paese come Grande Potenza, riscattando i “secoli bui” segnati dalla sudditanza nei confronti dell’Occidente e investendo fortemente sulle capacità militari. Del resto, il varo della portaerei Liaoning nel 2012 e l’adozione di un atteggiamento estremamente aggressivo in tutte le dispute marittime in cui è coinvolto il Paese, sono certamente segnali tangibili di un atteggiamento più muscolare da parte di Pechino nella regione.
Tuttavia, negli ultimi mesi, una serie di eventi ha contribuito a raffreddare l’euforia cinese riguardo l’approssimarsi del “secolo cinese”. In Myanmar, il processo di democratizzazione del 2011 è stato ben accolto da Washington, che con la rimozione di sanzioni ed embarghi economici, ha posto fine a quell’isolamento che aveva favorito la penetrazione strategica cinese. Nel Mar Cinese Meridionale, le aggressive rivendicazioni cinesi sugli arcipelaghi di Paracel e Spratly, avamposti strategici per posizione geografica e per disponibilità di risorse energetiche e ittiche, hanno suscitato le proteste delle Filippine, del Vietnam, del Brunei e della Malesia. In questo modo, Pechino ha dato a questi Paesi – perfino al Vietnam, non propriamente un alleato statunitense – ottime ragioni per fare da sponda al Pivot asiatico di Obama e stringersi ancor più attorno a Washington.
Per quel che riguarda le dispute con Tokyo, incentrate sull’arcipelago delle Senkaku/Diaoyutai nel Mar Cinese Orientale, l’elezione del conservatore Abe ha portato ad un automatico consolidamento dell’alleanza con Washington e ad un graduale allentamento delle restrizioni costituzionali sul potenziale militare nipponico. Infine, la crisi nucleare nordcoreana, ha certamente contribuito ad un generale rinforzo dell’architettura di sicurezza USA nella regione, specie dal punto di vista sensoristico (2 radar in banda X in Giappone) e anti-balistico (il sistema di difesa aerea THAAD a Guam), ed ha contemporaneamente spinto Seoul e Tokyo a potenziare ed aggiornare sensibilmente le proprie capacità militari.
In un certo senso, il Pivot statunitense, tanto deriso da Pechino come velleitaria politica di un Paese ed un sistema in declino, specie alla luce della crisi finanziaria, comincia a dimostrarsi, al contrario, una politica sempre più concreta con cui i leader cinesi hanno la necessità di misurarsi.
Detto ciò, l’ascesa politica, economica e militare della Cina rimane il fattore che influenza maggiormente lo scacchiere dell’Asia-Pacifico, in un contesto dove gli altri attori regionali sono estremamente preoccupati per le ambizioni di Pechino. Inoltre, la latente rivalità tra Pechino e Washington, pur condizionata da una profonda e mutualmente benefica relazione economica, rischia di trasformare l’Asia-Pacifico in un gioco a somma-zero dove gli attori regionali sono costretti a schierarsi con uno dei rivali. La mancanza di trasparenza nella modernizzazione militare (soprattutto navale) e la considerevole ambiguità strategica che grava sull’impiego da parte di Pechino del suo nuovo ed accresciuto potere, sono due fra le principali incognite sia per Washington che per gli altri Paesi della regione. Per questa ragione, Tom Donilon, Consigliere per la Sicurezza Nazionale uscente, in visita in Cina per preparare l’incontro californiano, ha sottolineato quanto sia prioritario per gli USA rafforzare ed istituzionalizzare i rapporti bilaterali militari (mil to mil) con Pechino, nonostante le tensioni per gli attacchi cyber e le dispute marittime. Per Washington una parte essenziale di una relazione stabile e matura fra Grandi Potenze è rappresentata dallo status dei rapporti fra i rispettivi comparti della Difesa ed acquisisce maggiore importanza nel contesto asiatico dove, ad eccezione dello Shangri-La Dialogue (31 maggio-2 giugno) a Singapore, non vi sono forum o consessi dedicati al dialogo mil to mil e di sicurezza.
Se proprio l’ultimo incontro a Singapore dovesse essere la cartina di tornasole per verificare lo status della relazione bilaterale, le prospettive sul futuro dei rapporti sino-americani non sarebbero molto rosee. Nella città-stato, il Segretario alla Difesa Hagel non ha lesinato critiche sul cyber, mettendo i cinesi di fronte alla dura realtà di essere stati scoperti. Dal canto suo, il Gen. Qi Jianguo, capo della delegazione cinese e contestualmente comandante dell’intelligence militare del People’s Liberation Army (PLA), ha duramente criticato il pivot asiatico definendolo un malcelato tentativo di contenimento militare dell’ascesa cinese.
Per quanto gli USA insistano sul fatto che il ri-orientamento strategico verso l’Asia sia multidimensionale ed integri aspetti economici e diplomatici a quelli militari, per Pechino sono soprattutto gli ultimi a contare. D’altra parte, la stessa Washington, pur ponendo l’accento sulla cooperazione con la Cina, non ha minimamente segnalato l’intenzione di abbandonare la posizione di attore militare dominante dell’Asia-Pacifico. È in questo montante clima di reciproci sospetti che molti cominciano ad immaginare un futuro dei rapporti bilaterali sino-americani sulla falsa riga di quelli instaurati con i sovietici durante la Guerra Fredda.
Tuttavia, non è ancora detto che in futuro gli interessi americani e quelli cinesi continuino ad essere necessariamente in contrapposizione. Infatti, con l’espansione della sfera di influenza di Pechino al di fuori della regione asiatica, sono molte le aree dove invece potrebbe nascere una virtuosa collaborazione. Lo stesso Donilon ha rimarcato l’importanza della cooperazione su tematiche quali il peacekeeping e le operazioni di stabilizzazione, la lotta al terrorismo jihadista, la lotta alla pirateria e la risposta alle catastrofi naturali. Del resto sono decenni che, specie gli alleati europei, sentono Washington lamentarsi del fatto di essere l’unico gendarme del mondo, e in quest’ottica, almeno in zone per la Cina più lontane dal suo tradizionale “giardino di casa”, l’ascesa cinese potrebbe, nel tempo, fornire a Washington un partner nelle missioni internazionali. In effetti già oggi, dal Congo al Libano (e, forse, anche in Mali), passando per la missione antipirateria al largo del Corno D’Africa, i cinesi sono sempre più attivi. Certamente, esisteranno sempre aree dove i due “nemici-amici” (“frenemies” è il termine inglese con cui spesso viene descritto il rapporto bilaterale) non potranno che essere in disaccordo, se non addirittura rivali. Ad esempio, stanti le attuali dinamiche, è difficile vedere una convergenza sul cyber, sulla detenzione di prigionieri politici, sulla questione di piazza Tiananmen, o sul trattamento delle minoranze uigure o tibetane. Quindi, pur considerando le tensioni attuali, siamo lontani anni luce dalla contrapposizione ideologica totale dell’era bipolare, anche se, in futuro, confrontandosi con l’imperscrutabilità della strategia cinese, qualche volta agli americani verrà nostalgia del telefono rosso.