Le isole Senkaku/Diaoyu e la disputa Tokyo-Pechino
Il 15 agosto scorso, una piccola imbarcazione ha fatto rotta verso l’isolotto di Uotsuri nell’arcipelago delle Senkaku e sette dei quattordici attivisti cinesi a bordo, dopo essere sbarcati con tanto di bandiere cinesi e taiwanesi hanno inscenato una manifestazione per contestare il possesso dell’isola da parte del Giappone. Le autorità giapponesi hanno bloccato gli attivisti e dopo averli portati ad Okinawa, distretto amministrativo di competenza, hanno avviato la procedura di espulsione con relativo accompagnamento ad Hong Kong. In risposta a quest’azione, una piccola flotta di dieci imbarcazioni giapponesi, il 19 agosto si è diretta nella stessa isola, dove alcuni esponenti del partito nazionalista nipponico hanno a loro volta manifestato inneggiando alla sovranità giapponese, issando bandiere nazionali. La particolarità degli episodi di agosto è costituita dalla presenza, tra gli elementi sbarcati, di attivisti provenienti da Hong Kong (a dimostrazione di un’agevole capacità di mobilitazione dei locali sostenitori di Pechino) e da Taiwan, che per contingenti ragioni anche storiche non può rinunciare alle proprie rivendicazioni.
Il 24 settembre, nelle acque antistanti l’isolotto Uotsuri, la Guardia Costiera giapponese è dovuta intervenire, questa volta bloccando circa quaranta imbarcazioni da pesca scortate da sei motovedette della guardia costiera di Taipei che per alcune ore sono entrate nello specchio delle acque contese. L’episodio tra l’altro è avvenuto a poche ore dal previsto vertice bilaterale svoltosi a Pechino il 25 settembre, tra il vice Ministro degli Esteri giapponese Chikao Kawai e il suo omologo cinese Zhang Zhijun, incontro salutato dalle diplomazie internazionali come primo passo per una distensione auspicata: tuttavia né in tale incontro, né in quello organizzato a New York tra il titolare del Ministero degli Esteri di Tokyo Koichiro Gemba e il collega cinese Yang Jiechi si è andati oltre ad una reciproca rivendicazione dei diritti. Sempre a New York, a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU, il primo ministro giapponese Noda ha ancora una volta perentoriamente manifestato una linea di fermezza e di intransigenza in ordine alla problematica. Le settimane successive sono state caratterizzate da scontri e manifestazioni sia in Cina che in Giappone rivolte sia ad una rivendicazione delle isole ma soprattutto segnate da una ripresa di fermenti nazionalistici. Specialmente in Cina, ampi strati della popolazione urbana sono sempre più desiderosi di vedere l’enorme mole economica del Paese tradotta in una versione locale di Machtpolitik prussiana.
Storicamente, non è la prima volta che Giappone e Cina rischiano degli scontri diplomatici a causa di queste porzioni di terra (dal punto di vista morfologico si tratta di cinque isolotti disabitati il più grande dei quali ha un’area di circa 4,3 Km2 e tre scogliere) che si trovano nel Mar Cinese Orientale a circa 120 miglia nautiche a nord est di Taiwan; a circa 200 miglia nautiche ad est del continente cinese e ad altrettanta distanza a sud ovest dell’isola giapponese di Okinawa.
Nel settembre del 2010, un peschereccio cinese era entrato in collisione con una motovedetta della “KaijÅ Ho’an-chÅ” (guardia costiera giapponese) che aveva fermato l’imbarcazione e l’equipaggio, rilasciando i cittadini cinesi solo dopo qualche settimana: per ritorsione, Pechino decise di interrompere le forniture di terre rare a Tokyo che fu così indotta ad un’immediata politica di distensione. Le isole (tre delle quali risultano essere di proprietà di un uomo d’affari giapponese che ne ha concesso l’affitto al suo paese) sono amministrate dal Giappone sin dalla fine del 1800 ma altrettanto datata è la disputa con la Cina che ne rivendica il possesso con il nome storico di isole Diaoyu, e lo stesso fa Taiwan.
Sintetizzando le vicende storiche si ricorda che le Senkaku, insieme a Taiwan facevano parte dei territori ceduti dalla Cina al Giappone nel 1895 come sancito dal trattato di Shimonoseki stipulato il 17 aprile 1895 tra i rappresentanti dell’Impero giapponese e quelli dell’Impero cinese, al termine della prima guerra sino-nipponica; restarono quindi sotto il dominio giapponese fino al 1945 anno in cui i territori occupati passarono sotto l’amministrazione degli Stati Uniti d’America. Gli anni a seguire si caratterizzarono per alcuni accordi commerciali e da una particolare fase negli anni ‘50, periodo in cui la Cina aveva annunciato di voler ampliare la giurisdizione marittima dalle tre miglia iniziali a dodici miglia nautiche con il conseguente risentimento del Giappone che non riconobbe questa “pretesa” ritenuta pregiudizievole per la propria attività di pesca esercitata in quelle aree (benché non ancora amministrate). Nel 1952 entrò in vigore il trattato di pace di San Francisco tra Giappone e Stati Uniti con il riconoscimento delle isole come parte del territorio di Okinawa (sede di una base militare USA): al trattato ovviamente non parteciparono né Taiwan (che cominciò una rivendicazione di quei territori con il nome di Diaoyutai), né la Cina, la quale oltre a non riconoscerlo formalmente, ha specificato che quelle isole (in cinese Diaoyu) erano conosciute e censite in carte geografiche della dinastia Ming già nel 1403. Il citato trattato di pace portò come conseguenza la restituzione delle isole al Giappone, avvenuta nel 1972; in quello stesso anno, firmando una dichiarazione congiunta, Cina e Giappone stabilizzarono le loro relazioni diplomatiche.
Nel 1978, con il “Trattato di pace e amicizia tra Cina e Giappone” i due paesi adottarono una linea morbida relativa ai diversi contenziosi in atto, non assumendo alcuna decisione in merito alle Senkaku/Diaoyu. Seguirono altri accordi in ambito commerciale e, tra questi, quello sulla pesca stilato da Giappone e Cina nel 1997. Entrato in vigore nel 2000, presenta molti aspetti di difficile interpretazione e in linea con un prudente linguaggio diplomatico, individua delle aree provvisorie del territorio marittimo nell’ambito delle quali i relativi paesi possono esercitare una reciproca attività di pesca senza permesso altrui. Un’analisi più accurata mostra tuttavia molti limiti proprio in relazione all’art. 7 che, nel definire tali aree, specifica che esse sono comprese tra i 27 gradi di latitudine nord ed il nord più lontano, mentre il mare delle Senkaku è delimitato tra i gradi 25 e 26 di latitudine nord.
Per quanto riguarda la “zona economica esclusiva” ognuno dei due Paesi rivendica un’area che si estende per 200 miglia nautiche dalle proprie coste, mentre la porzione di mare in esame è larga soltanto 360 miglia. Quanto sia importante e di interesse strategico il controllo dell’area del Pacifico convenzionalmente nota come Mar Cinese Orientale (ove si trovano le Senkaku/Diaoyu) e del tratto più a sud denominato Mar Cinese Meridionale (ove si trovano le isole Paracel e Spratly, fonti di altre rivendicazioni cinesi) risulta evidente anche dalle sempre più numerose esercitazioni militari che negli ultimi anni sono state effettuate. La strategia marittima della Cina è ormai notoriamente diretta verso un proprio concetto di sea power sviluppato attraverso un’espansione delle capacità navali a garanzia delle proiezioni in quelle aree; ma al di là di queste ragioni va tenuta in debita considerazione un altro dato. Il flusso di commercio che transita per queste zone marittime è notevole e l’importanza strategica che esso riveste per l’economia globale è indiscutibile.
Gli interessi reali in quella parte dell’oceano pacifico risentono anche delle previsioni allettanti per quanto concerne le capacità dei fondali marini di fornire di risorse energetiche; da tempo ormai lo sfruttamento dei fondali costituisce una materia di notevole interesse non solo per gli idrocarburi ma anche per l’estrazione di minerali quali oro, argento, zinco, rame, nichel e cobalto e dei elementi rari o terre rare (per i quali da 20/30 anni la Cina è il paese leader con quote che si attestano a circa il 50% delle estrazioni mondiali e il 98% delle esportazioni mondiali). Altro aspetto da non sottovalutare nella disputa diretta tra Pechino e Tokyo è infine quello relativo alle possibili implicazioni di carattere prettamente politico. Il 2013 è la data in cui il Giappone andrà alle urne e l’attuale primo ministro Yoshihiko Noda, è particolarmente impegnato, stante anche il recente rimpasto del governo, a rafforzare la propria figura all’interno del suo partito e agli occhi dell’opinione pubblica fronteggiando consistenti problemi tra i quali quello relativo allo sviluppo di un’adeguata politica economica ed alla decisione di sospendere lo sfruttamento dell’energia nucleare come richiesto anche da manifestazioni pubbliche sempre più insistenti. Le stesse consultazioni riveleranno se e quanto le attuali politiche di collaborazione con gli Stati Uniti (che hanno identificato l’Asia come punto fondamentale della loro Defense Strategy Review) potranno proseguire nel solco già tracciato o dovranno essere ridisegnate seguendo nuove strategie.
Dal canto suo la Cina, si prepara ad affrontare il 18° congresso nazionale previsto per il mese di novembre. Oltre agli avvenimenti conseguenti alla poliedrica vicenda che ha coinvolto l’ormai ex segretario di Chongqing del partito Bo Xilai e alle recenti nomine ai vertici di forze armate e di polizia che hanno determinato un restyling dell’apparato militare, sarà interessante osservare come sarà condotta la transizione della leadership nazionale e la capacità di affrontare le sfide per il futuro decennio, seguendo modelli di strategie adeguate ai tempi. Al momento, comunque, i fermenti nazionalistici hanno portato nel breve termine quale unica conseguenza ad una dura reazione dei mercati, con la borsa di Shanghai crollata ai minimi dal 2009 a causa delle preoccupazioni per la crescita cinese che ancora stenta a riprendere.
Inoltre, sempre a causa degli scontri e delle manifestazioni, molte imprese giapponesi hanno sospeso le loro attività negli stabilimenti aperti in Cina, con pesanti ricadute economiche. Nella complessità della situazione permane l’ipotesi che vi sia da risolvere un problema di tipo strutturale legato alla delocalizzazione avviata in Cina attratto dai vantaggi del basso costo del lavoro: se i disordini e gli atti di vandalismo dovessero persistere, Tokyo sarà costretta a rivedere le scelte fin qui adottate e valutare, in tempi brevi, le proposte - già al vaglio - per trasferire gli stabilimenti in quei paesi come Vietnam, Thailandia e Myanmar che attualmente rappresentano valide alternative commerciali.
Gli aspetti fin qui affrontati evidenziano come la disputa per le Senkaku è, nel suo complesso, inserita in un più ampio contesto, dove ad indiscutibili e rilevanti fattori geopolitici, vanno ad aggiungersi mutevoli aspetti di ordine interno, quali per l’appunto la ricerca di legittimazione della futura classe dirigente cinese e la necessità di distogliere l’attenzione dai più recenti scandali, anche con una mirata manipolazione mediatica degli eventi. Tuttavia un’ulteriore escalation di incidenti potrebbe portare ad una crisi di difficile gestione e dagli effetti destabilizzanti per quell’area.