Le dispute petrolifere tra Iraq e Kurdistan iracheno
Middle East & North Africa

Le dispute petrolifere tra Iraq e Kurdistan iracheno

By Mara Carro
05.02.2012

I numeri rilasciati dal Ministero del petrolio iracheno confermano come in marzo l’export petrolifero di Baghdad sia stato il più alto dal 1980, raggiungendo 2,317 milioni di barili al giorno. Si tratta di un dato significativo se letto in relazione ai limiti infrastrutturali - per l’estrazione, il trattamento e il trasporto degli idrocarburi - e di expertise che l’Iraq moderno sta cercando di superare.

L’Iraq, nelle stime delle grandi case petrolifere, ha riserve di greggio che sono al quinto posto nella graduatoria mondiale ed è il terzo maggior produttore dell’OPEC. Il suo obiettivo per la fine dell’anno è di estrarre 3,4 milioni di barili al giorno ed esportarne 2,6 milioni. L’obiettivo per il 2017 è quota dodici milioni di barili.

Il petrolio rappresenta per l’Iraq il 95% delle entrate statali e il 70% del PIL. Com’è noto, le esportazioni petrolifere sono vulnerabili alle tensioni geopolitiche e, con Iran e Siria sottoposte a sanzioni internazionali, l’Iraq, con alcuni dei suoi principali pozzi situati in prossimità delle infrastrutture petrolifere del porto di Umm Qasr, nel Golfo Persico, potrebbe veder accresciuto il suo ruolo nel mercato petrolifero mondiale.

Durante il regime di Saddam Hussein, l’assenza di una politica industriale per il settore petrolifero, unitamente all’assenza d’investimenti - sia statali che stranieri - in infrastrutture, tecnologie e ricerca, non ha consentito all’industria petrolifera nazionale di raggiungere uno sviluppo adeguato.

Dopo l’invasione statunitense, la Costituzione irachena ratificata nel 2005 contiene specifici richiami a una moderna legislazione sul petrolio con l’obiettivo di riorganizzare l’intero settore, dalla definizione di una nuova strategia produttiva alla ripartizione degli utili. Ma soprattutto definisce i poteri, le competenze e la ripartizione degli utili petroliferi tra il Governo federale di Baghdad e le autonomie locali. La disputa sulla gestione delle risorse, concentrate nel nord a maggioranza curdo e nel sud a maggioranza sciita, è, infatti, tra le cause principali dell’instabilità dell’area e terreno di scontro soprattutto tra il Governo federale e il Governo Regionale del Kurdistan Iracheno (KRG), entità federale autonoma il cui status gli consente di avere un proprio esercito, un servizio d’intelligence e proprie istituzioni e che rivendica per sé i diritti sull’esportazione del petrolio presente nel proprio sottosuolo dal momento che, tuttora, gli è vietato commerciare autonomamente e legalmente il proprio petrolio.

Poiché l’art.112 della Costituzione contiene elementi d’indeterminatezza e ambiguità in merito all’individuazione dell’organo cui compete la gestione delle risorse, la questione doveva essere regolata attraverso un’apposita legge sugli idrocarburi. La “Iraq Oil Law” del 2007, mai approvata, autorizzava la sottoscrizione di accordi di “production sharing” (PSA) tra le compagnie straniere e il governo centrale di Baghdad e conferiva parziale autorità ai poteri regionali sulle riserve presenti sul loro territorio. Dopo quattro anni di stallo, dovuto anche alle dinamiche politico/settarie interne al Paese, nel settembre 2011 il governo Maliki ha inviato al Parlamento la bozza di una nuova legge in materia d’idrocarburi che renderebbe la Iraqi National Oil Company (INOC) l’autorità principale del settore, eliminando la presenza di delegati di partiti curdi, sciiti e sunniti nel Consiglio della INOC.

Il governo centrale e quello di Erbil sono da tempo in conflitto per via di una serie di contratti che, in assenza di un quadro normativo di riferimento, il KRG ha firmato, a partire dal 2007, con diverse compagnie straniere. In linea con la Costituzione irachena, che conferisce alla autonomie locali poteri sulle proprie riserve energetiche, e dopo l’approvazione di una legge regionale sul petrolio e sul gas nell’agosto 2007, le autorità curde hanno firmato 45 contratti PSA con 40 compagnie straniere - tra le quali la Korea National Oil Corporation, la canadese Talisman Energy Inc., la norvegese DNO International, la turca Genel Enerji e la cinese Sinopec - per 10 miliardi di dollari d’investimenti nell’esplorazione e nella produzione petrolifera. Si tratta di contratti immediatamente ritenuti illegali da Baghdad – la cui formula (PSA), tra le altre cose, è particolarmente invisa a Baghdad poiché riconosce allo Stato solo il 25% degli utili - anche perché riguardano pozzi presenti sui “territori contesi” dalle due amministrazioni, come quelli della zona di Erbil, Dahuk, Sulaimaniya e della parte meridionale di Kirkuk ai confini del Kurdistan. Queste frizioni hanno causato anche ripetute interruzioni nell’esportazione del petrolio curdo. D’altra parte, lo stesso governo di Baghdad, dal giugno 2009, dopo i cosiddetti “accordi tecnici di servizio” per l’implementazione della produzione in attesa delle gare di appalto, ha indetto bandi di gara per la concessione dei diritti di sfruttamento dei maggiori giacimenti di greggio del Paese attraverso la stipula di 12 Contratti di servizio per lo sviluppo e la produzione. I primi da quando il governo iracheno, nel 1972, estromise le major del petrolio nazionalizzando la sua industria petrolifera. Contratti, questi, ritenuti dal Kurdistan tanto illegittimi - perché non ratificati dal Parlamento, in violazione della legge n. 9 del 1967 che costituisce tuttora l’unico riferimento normativo in materia - quanto incostituzionali – perché conclusi in assenza dei delegati provinciali e regionali, in violazione dell’art.112 della Costituzione.

L’ultima controversia riguarda la firma di sei contratti, nell’ottobre dello scorso anno, tra il governo curdo e la multinazionale americana Exxon Mobil Corporation per l’avvio di operazioni esplorative in sei siti della regione. Baghdad ha immediatamente ammonito la Exxon a non dar seguito alla collaborazione, escludendola, di fatto, dalle gare di appalto per il 2012. Exxon, che è stata la prima grande multinazionale a negoziare direttamente con il Governo Regionale Curdo, si era precedentemente aggiudicata (novembre 2009), in una joint venture con la Shell (15%) e la Oil Exploration Company irachena (25%), un PSA di 50 miliardi di dollari con il governo iracheno per lo sviluppo del giacimento petrolifero di West Qurna I. Il giacimento è uno dei più grandi siti petroliferi dell’Iraq meridionale, ad ovest di Bassora e si stima possa contenere, tra West Qurna I e West Qurna II, 43 miliardi di barili di riserve. Il contratto, così come quello vinto da ENI e i suoi partner per il campo petrolifero di Zubair e quello della British Petroleum e della China National Petroleum Corporation (CNPC) per Rumaila, ha durata ventennale, prorogabile per altri cinque.

Un consorzio guidato dalla Exxon Mobil, insieme all’italiana Eni, l’anglo-olandese Shell, la russa Lukoil Holding, la CNPC e la malesiana Petronas, si è fatto, poi, promotore di un progetto circa 3 miliardi di dollari per la realizzazione di un sistema d’iniezione idraulica, che aumenterebbe considerevolmente la produzione di greggio iracheno dei giacimenti meridionali di West Qurna I e II, Rumaila e Majnoon.

Rescindere il contratto per West Qurna-I potrebbe, dunque, compromettere i piani di espansione delle esportazioni petrolifere del sud iracheno ma, qualora il governo iracheno dovesse cedere sul contratto Exxon - KRG, darebbe vita ad un precedente che annullerebbe di fatto i contenuti della nuova bozza di legge in fase di approvazione e riabiliterebbe gli accordi - contestati e/o bloccati - stipulati dall’autonomia curda. Oltre alla Exxon, molte major del petrolio sono, infatti, interessate alle risorse del Kurdistan, tra queste Eni, Shell, Total, BP.

La gestione autonoma dei proventi del petrolio potrebbe, poi, galvanizzare le spinte indipendentiste del Kurdistan, vero e proprio volano dell’economia nazionale, acuendo, così, i problemi interni alla Federazione irachena. Queste istanze potrebbero rappresentare un fattore d’instabilità regionale, dal momento che importanti attori quali l’Iran, la Siria e la Turchia contano al loro interno importanti minoranze curde.

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