La Turchia e il Mediterraneo Allargato in trasformazione
Il conflitto russo-ucraino e il successivo tentativo di mediazione nella contesa in corso hanno ribadito ancora una volta il ruolo centrale della Turchia nello scenario internazionale e, in particolar modo, in quello mediterraneo-mediorientale. Un processo che parte da lontano, ma che dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 ha visto Ankara intraprendere un cammino, in parte nuovo, volto ad affermare la propria postura a livello regionale.
Infatti, l’episodio del luglio 2016 ha rappresentato per certi versi un nuovo punto di partenza per la Turchia come attore internazionale. La narrazione costruita intorno a questo fatto ha elevato la percezione del ruolo stesso del Presidente come di un “padre della Patria”, il cui compito era quello di guidare e ristabilire, in un’ottica nazionalistica, una postura più consona alla storia del Paese, almeno a livello regionale. Nel far ciò si è perseguito anche un certo di interventismo politico-militare in diversi teatri operativi. In Nord Africa, ad esempio, Ankara è intervenuta nella guerra civile libica in supporto e su richiesta del Governo di Accordo Nazionale (GNA), guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite (gennaio-maggio 2020); tra Mar Nero e Caucaso, oltre il recente supporto offerto a Kiev tramite l’invio dei droni Bayraktar TB2, la Turchia ha dato sostegno all’Azerbaijan nel conflitto del Nagorno Karabakh (settembre-novembre 2020); in Medio Oriente, l’interventismo turco è divenuto palese in Siria, dove sono già state condotte quattro campagne militari nel nord del Paese a partire dal 2016, e in Iraq, dove Ankara supporta il Governo Regionale del Kurdistan iracheno (KRG) per arginare le attività del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).
L’obiettivo, quindi, di questa rivisitazione nell’approccio di politica estera turca risiede nel raggiungimento di un’autonomia strategica tra interventismo e soft power. La realizzazione di tale iniziativa è avvenuta per Ankara tramite, fondamentalmente, due fattori: opportunità strutturali e capacità materiali interne. Nel primo caso, la Turchia percepisce il mondo unipolare nato dopo la fine della Guerra Fredda su una fase di trasformazione. Il sistema internazionale a guida statunitense è stato sfidato da nuove realtà emergenti come Cina, India e Russia. In questo contesto, la Turchia ha puntato a ritagliarsi il proprio spazio come attore regionale e internazionale in grado di mediare e di essere decisivo nella risoluzione di conflitti e dispute. Per affermarsi, Ankara ha dovuto fare affidamento anche alle proprie capacità materiali. In questo senso, sotto il Governo e la Presidenza Erdoğan si è molto investito nell’industria militare e nella Difesa affinché diventassero un fiore all’occhiello del sistema turco, in modo da garantirsi una credibilità internazionale forte di attore impegnato nel soft e nell’hard power. Negli ultimi dieci anni, infatti, le imprese legate all’Esercito si sono moltiplicate, grazie anche agli investimenti stranieri che Ankara è riuscita ad attrarre sul suo territorio. La partnership qatarina, sotto questo punto di vista, è stata fondamentale per poter dare un forte impulso alla Difesa turca e rafforzare la proiezione del Paese anatolico sul piano esterno – grazie anche alla sua base militare costruita a Doha.
Contemporaneamente, è stato ridotto l’import di armi da partner storici come gli Stati Uniti anche per favorire una diversificazione dei contratti ed eliminare la dipendenza da un singolo attore. A trarne vantaggio sono state altre realtà con importanti budget e impianti diplomatici nell’industria pesante: la Russia, per esempio, che ha fornito i sistemi balistici S-400, andando a creare forti tensioni tra Ankara, Washington e i partner occidentali della NATO.
Tuttavia, l’economia turca ha subito ingenti perdite soprattutto a causa della pandemia di Covid-19. I livelli di inflazione nel Paese continuano a crescere costantemente, la lira turca continua a essere svalutata e il problema della stagnazione economica preoccupa la leadership dell’AKP anche in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2023. Senza un sistema economico forte in grado di sostenere gli ambiti interno-esterno, la Turchia rischia di vedere limitato e ridimensionato il proprio ruolo nel vicinato regionale e a livello internazionale.
Alla luce di questa premessa, esaminiamo nel dettaglio quali sono gli scenari operativi e quali gli strumenti adoperati da Ankara per garantirsi profondità strategica, influenza e leverage nel Mediterraneo Allargato.
Mar Nero e Caucaso La prima direttrice presa in considerazione in questa analisi è un doppio contesto cruciale nell’identità e nella storia del Paese: il Mar Nero e il Caucaso. Storicamente parlando, la Turchia e prima ancora l’Impero Ottomano hanno sempre mantenuto un forte interesse nel mantenere il proprio status di protagonista in questo contesto. Se prendiamo in considerazione gli ultimi anni, Ankara ha attuato quello che può essere definito un “equilibrismo diplomatico”. La presenza turca in diversi scenari mostra chiaramente come l’obiettivo ultimo dell’attuale corso politico erdoganiano sia di affermare la posizione del Paese alla pari con le altre potenze regionali, prima fra tutte la Federazione Russa. Questo contrasto con Mosca è stato riscontrato sia nell’annoso conflitto azero-armeno nella regione contesa del Nagorno Karabakh, dove Ankara ha dato sostegno a Baku, sia nel più recente conflitto ucraino, dove la Turchia ha sia inviato aiuti militari a Kiev sia cercato di ritagliarsi un ruolo diplomatico rilevante nella dinamica del conflitto. Nel primo caso, Ankara ha sostenuto attivamente le forze azere attraverso l’invio di droni utili a contrastare le controparti armene sostenute ed equipaggiate da Mosca. L’obiettivo turco è strettamente legato al settore energetico: l’avanzata russa nella regione minaccia gli interessi anatolici legati all’esplorazione del sottosuolo e alla realizzazione del gasdotto che permetterebbe il transito proprio tramite il suolo turco del gas verso l’Europa. La crisi energetica derivata dal conflitto in Ucraina ha riacceso la disputa, mettendo in evidenza come Ankara voglia mantenere una propria indipendenza e, allo stesso tempo, dimostrare di essere un attore credibile e da prendere in considerazione nelle dinamiche tra Mar Nero e Caucaso. In Ucraina, tale ambiguità strategica ha di fatto reso Ankara uno dei principali protagonisti (almeno a livello diplomatico) nello scontro tra Kiev e Mosca, mettendo in secondo piano – quantomeno per il momento – il tentativo di inserimento israeliano nella contesa. A soli 3 giorni dall’inizio dell’offensiva russa, il 27 febbraio il Ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu ha definito l’operazione condotta da Mosca come una “guerra”. L’uso di questo termine e il suo riconoscimento da parte delle autorità turche ha permesso ad Ankara di attivare l’articolo 19 della Convenzione di Montreux del 1936, permettendo così alla Turchia di regolamentare il passaggio di navi militari delle parti belligeranti coinvolte nel conflitto e, in generale, di gestire il flusso di vascelli nel Mar Nero. A questa mossa, che può essere considerata come un ostacolo alle operazioni russe, va segnalato un ulteriore elemento, ossia l’attuale livello dei rapporti tra Ankara e Kiev, che, specie dopo la crisi della Crimea del 2014, è andato via via rafforzandosi. Solamente nel settore della Difesa, il volume di scambi tra i due Paesi ha raggiunto un valore di 7,4 miliardi di dollari. In aggiunta, nel 2020 Ucraina e Turchia hanno stipulato un accordo di cooperazione militare, all’interno del quale è stato eseguito un ammodernamento delle forniture di armi in dotazione all’Esercito ucraino e sono stati forniti anche droni Bayraktar TB2. Nonostante i rapporti saldi con Kiev, Ankara ha saputo dimostrare di saper dialogare anche con Mosca. Il 10 marzo il Ministro degli Esteri Çavuşoğlu ha riunito senza troppo successo gli omologhi di Russia e Ucraina per un incontro al Forum della diplomazia di Antalya. Nonostante il fallimento delle trattative, la Turchia ha mostrato come non sia disposta a giocare un ruolo secondario nella gestione del conflitto e come intenda sfruttare tale dimensione per riabilitarsi anche agli occhi occidentali. A guidare l’azione turca verso la Russia è anche un fattore economico, dato che la Turchia infatti importa da Mosca il 52% del suo gas e il 56% del suo grano.
**Mediterraneo ** Nell’analizzare la politica estera turca sulle coste del Mar Mediterraneo e, in particolare, in Nord Africa, bisogna osservare come le dottrine di “profondità strategica” e della Blue Homeland (Mavi Matan) siano due driver fondamentali per decriptare l’azione di Ankara nelle dinamiche regionali. Il primo è un concetto introdotto dall’ex Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu nella sua opera “Profondità strategica. La posizione internazionale della Turchia” (2001), nel quale viene affermato che la posizione di un Paese nella politica mondiale dipende dalla posizione geo-strategica e dalla profondità storica. Entrambi questi elementi appartengono alla Turchia, erede dell’Impero ottomano e dell’ultimo Califfato. In parallelo a tale concetto, l’establishment turco ha sviluppato, altresì, la dottrina marittima Mavi Vatan. Ideata nel 2006 dagli ex Ammiragli Cem Gürdeniz e Cihat Yaycı, ma mai ufficialmente adottata da Ankara – nonostante il grande sostegno soprattutto dopo il 2016 –, tale dottrina afferma come l’assetto attuale del Mediterraneo limiti la Turchia e le impedisca di assumere un ruolo di leadership a livello regionale grazie al suo ampio accesso ai mari. Questa combinazione di elementi, unita alla spinta nazionalistica impressa in politica estera dal governo, specie dal 2016, ha portato la Turchia ad entrare sempre di più nelle dispute regionali delle ex province ottomane e in rotta di collisione con numerosi attori regionali e internazionali. Gli strumenti utilizzati da Ankara sono stati molteplici: dagli investimenti agli aiuti economici, passando per l’intervento militare, fino a forme di soft power culturale, storico e religioso. Nel Maghreb, ad esempio, la Turchia ha utilizzato un approccio da soft power nel quale si sono intravisti per lo più accordi economici per stabilire legami con gli attori del quadrante. Il soft power di Ankara è stato esercitato, per esempio, tramite la diffusione dei programmi televisivi turchi, la creazione di una rete di istruzione legate al fondo Maarif, che garantisce l’insegnamento in lingua inglese a oltre 17 mila persone in 25 Paesi africani e il forte impegno diplomatico turco che, a partire dal 2002, ha visto Erdoğan compiere 38 visite ufficiali nel continente africano. Questo impegno, che rientra nel piano del dossier “Opening up to Africa policy”, ha permesso alla Turchia di aprire le attuali 43 Ambasciate e aumentare il volume degli scambi commerciali, passando dai 5,5 miliardi di dollari del 2003 ai 25 miliardi di dollari del 2020. In Marocco, il rapporto con Ankara si è basato sul reciproco riconoscimento come attori cardine, dal momento che, storicamente parlando, Rabat non è mai stata ufficialmente sotto il dominio ottomano ma ha mantenuto un certo grado di indipendenza nel corso dei secoli. In Algeria, invece, il soft power culturale e le potenzialità del mercato interno hanno spinto la Turchia ad aumentare il volume dell’export, arrivando a un valore di 1,45 miliardi di dollari nel 2020 che rendono Algeri il secondo partner commerciale turco in Nord Africa dietro solo all’Egitto. Tra i due attori maghrebini, Ankara risulta un potenziale partner anche per la questione del Sahara Occidentale. La disputa sulla regione ha portato nel 2021 alla rottura delle relazioni tra Rabat e Algeri. Il Marocco, visto il dinamismo della propria politica estera e la ricerca di riconoscimento internazionale nel perorare la causa, ha più volte guardato alla Turchia come sponsor. Al contrario, l’Algeria ha voluto mantenere i rapporti con Ankara ristretti al comparto commerciale, non volendo creare un rapporto di dipendenza con attori terzi nella questione. In Tunisia, invece, la vicinanza religiosa ad Ennahda di Rachid Ghannouchi ha permesso ad Ankara di inserirsi nello scenario politico tunisino. Il partito islamista si è affermato sulla scena politica nazionale dopo le Primavere Arabe, divenendo un ponte di collegamento per i progetti di neo-islamismo che hanno caratterizzato la politica estera turca degli ultimi anni. Un discorso a parte va fatto per il contesto libico ed egiziano. In Libia la Turchia ha usato anche la carta dell’hard power: non a caso, si tratta del primo intervento militare ufficiale a sostegno di un governo coinvolto in un conflitto. Ankara ha preso le difese del GNA andando ad opporsi alla fazione guidata dal Generale Khalifa Haftar, sostenuto principalmente da tre attori con i quali la Turchia ha interessi e legami contrapposti e convergenti: la Federazione Russa, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Mosca è presente nel teatro libico tramite il Wagner Group, organizzazione paramilitare sempre più spesso utilizzata dal Cremlino come forma di ingerenza indiretta in contesti di crisi. Il Cairo, invece, sostiene il Generale Haftar dall’inizio delle ostilità. Tuttavia, le recenti sconfitte del leader libico hanno indotto il governo egiziano a diminuire sempre di più il proprio supporto alle sue operazioni. Sebbene dal 2013, ossia dalla destituzione di Mohammed Morsi in Egitto, i rapporti con Il Cairo siano stati tesi, i due Paesi da oltre un anno puntano a far rientrare le tensioni, pur lasciando inalterato il rispettivo ambito di relazione bilaterale economica. L’Egitto infatti rimane il principale mercato nordafricano per i prodotti e gli investimenti turchi (nel 2020 il Free Trade Agreement ha garantito un volume di scambi pari a 5,27 miliardi di dollari). Infine, anche nel contesto del Mediterraneo Orientale, rimane aperto il discorso energetico e dalla cui risoluzione positiva per la Turchia deriverà gran parte del successo o meno della cosiddetta autonomia strategica. Nel Mediterraneo Orientale, infatti, lo scontro con i vicini rivieraschi avviene maggiormente nell’ambito del settore dell’energia e dello sfruttamento di zone ricche di giacimenti. Nonostante il governo turco stia cercando di instaurare rapporti amichevoli con i Paesi del quadrante – si vedano i tentativi di dialogo con Israele ed Egitto in primis – sulla questione energetica Ankara ha ancora diversi ostacoli. La partnership tra Egitto, Israele, Grecia e Cipro nell’Eastern Mediterranean Gas Forum rimane un problema non secondario per le mire turche nella regione. Inoltre, è ancora presente la questione relativa alle ZEE con la Grecia – Paese con il quale recentemente Ankara ha aumentato la tensione – e connesse al conflitto libico.
**Siria ** Nel contesto siriano la politica estera turca è guidata, in prevalenza, dalla questione curda. Il timore di Ankara è di assistere ad una sorta di saldatura ideologica e politica, prima ancora che culturale, tra la propria comunità curda, che rappresenta circa ⅕ della popolazione turca totale, e quelle oltre-confine, in particolar modo quella siriana, con il rischio di trovarsi nuovi problemi di destabilizzazione interna. Da tempo, infatti, la Turchia ha espresso preoccupazioni per i legami che vi sono tra il Partito dell’Unione Democratica (PYD, attivo in Siria) e il PKK. Quest’ultimo è già stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche e rappresenta, oltre che un problema di natura regionale e transnazionale, anche uno strumento politico transazionale per Ankara nel processo di accettazione di Finlandia e Svezia nella NATO. Nel marzo 2016, il PYD ha dichiarato la creazione del Rojava (Sistema Democratico Federale) nel nord della Siria, vicino ai confini turchi. La decisione ha portato a forti tensioni con il governo di Ankara che, da quel momento, ha cambiato approccio nel teatro siriano. Le operazioni militari condotte sono state finora quattro, l’ultima delle quali chiamata “Aquila d’Inverno” (2022) e attivata tramite il diritto alla difesa sancito dall’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. La giustificazione è stata la neutralizzazione delle forze delle Forze Democratiche Siriane (SDF), dell’YPG (ossia il braccio armato del PYD) e dell’Unione della Comunità del Kurdistan (KCK), reputate come soggetti di diretta emanazione del PKK. La decisione del governo turco, tuttavia, si è andata a scontrare con la presenza russa e il supporto statunitense a parte di questi gruppi per la lotta contro lo Stato Islamico. Nonostante infatti il ritiro statunitense dalla Siria nel 2019 e la revoca del riconoscimento alle organizzazioni curde – inteso come atto distensivo tra Stati Uniti e Turchia –, il peso di Washington rimane saldo nel conflitto. Parallelamente, le operazioni militari turche hanno più volte portato a reazioni da parte di Mosca, che vede in Ankara un competitor importante nel Paese, così come in Libia, specie dopo il conflitto in corso in Ucraina. Dal 2015 in avanti, la Federazione Russa ha espresso il proprio disappunto nei confronti delle scelte della Turchia, a partire dalla concessione alla coalizione anti-ISIS di operare dalla base aerea di Incirlik. Le operazioni aeree russe hanno poi scatenato le proteste della leadership turca, la quale ha comunque adottato un atteggiamento fluido nei confronti dei partner NATO. Inoltre, Putin ha deciso di adottare sanzioni di natura economica e commerciale per esercitare pressioni su Ankara e minare la sua posizione anche nei confronti del mondo occidentale. Tuttavia, il cambio di rotta della politica estera turca dopo il 2016 aveva già favorito un avvicinamento tra i due attori nella regione. Dal marzo 2020, Turchia e Russia sono riuscite a far accettare dalle varie forze in campo nel Nord Ovest e nella zona di Idlib un cessate-il-fuoco. Nonostante le numerose violazioni, il cessate-il-fuoco resiste e sia Mosca sia Ankara hanno buoni motivi per il mantenimento dello status quo. Se la Russia, infatti, dovesse trovarsi sempre più coinvolta nel conflitto in Ucraina, la Turchia potrebbe approfittare della situazione per cambiare gli equilibri sul campo. Al contempo, non dovrebbe stupire se i russi decidessero di intensificare la loro operatività nel Nord Ovest della Siria proprio per mettere pressione alla Turchia, che nel conflitto ucraino punta a ritagliarsi un ruolo di spicco come intermediario. Il teatro siriano ha, inoltre, una duplice valenza soprattutto per Erdoğan e la leadership del partito. Internamente, la campagna anti curda portata avanti dal Presidente viene in parte giustificata anche tramite le operazioni militari condotte sul territorio siriano. Il legame ideologico e culturale esistente con i gruppi curdi oltre i confini può essere usato dalla leadership dell’AKP per continuare l’opera di discriminazione e diffamazione dei propri avversari politici. In un’ottica di politica estera, invece, Ankara ha due motivi per continuare la sua campagna nel Paese. In primis, creare una zona sicura per allontanare potenziali nemici dal proprio confine e allo stesso tempo contrastare la fazione che si oppone al regime di Assad sostenuto dalla Russia. In secondo luogo, Ankara percepisce il teatro siriano come punto fondamentale per affermare il proprio ruolo di potenza di mezzo indispensabile per la risoluzione del conflitto. Non a caso, la Turchia potrebbe scegliere nel breve-medio periodo di riprendere i rapporti diplomatici con il regime di Damasco in un’ottica opportunistica sia per la gestione della questione dei rifugiati (che sono 3,7 milioni e pesano sempre più anche in termini di opinione pubblica nelle dinamiche interne turche) sia in un’ottica collaborazione anti-curda contro le YPG e le SDF.
Iraq L’approccio turco verso l’Iraq ha avuto negli anni una forma moderata e di collaborazione con le autorità locali, salvo assumere come di recente accaduto un atteggiamento più aggressivo e meno prudente. La rottura con il PKK ha favorito l’avvicinamento tra Ankara e il KRG che ha ottenuto l’indipendenza tramite referendum nel settembre 2017. I rapporti con quest’ultimo si sono ulteriormente rafforzati tramite due canali: operazioni militari di sicurezza nella regione e nuovi accordi legati al settore energetico. Nell’aprile 2022, la Turchia ha dato via all’operazione Claw Lock. Si tratta di una campagna transfrontaliera, aerea e terrestre, anti-terrorismo nelle aree di Zap, Metina e Avaşîn. Questa operazione altro non è che la continuazione delle precedenti Claw Lightning e Claw Thunderbolt, lanciate il 24 aprile 2021. L’obiettivo delle forze turche è colpire e annientare le attività del PKK che, secondo l’intelligence di Ankara e del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), guidato dalla famiglia Barzani, continuerebbe le proprie azioni di destabilizzazione regionale a cavallo tra Siria e Iraq del Nord. Tuttavia, all’interno del Parlamento turco, il Partito Democratico dei Popoli (HDP) ha espresso contrarietà all’azione militare. Secondo i leader del partito, oltre a violare diverse leggi internazionali, Ankara porterebbe avanti l’operazione per motivi politici e di supporto elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. La messa in sicurezza della regione rientra nella questione energetica che lega il Kurdistan iracheno e la Turchia. Il Premier del KRG, Masroud Barzani, ha recentemente affermato che le riserve petrolifere della regione possono essere utilizzate per ricavare grandi quantità di energia, in correlazione alla crisi energetica derivante dal conflitto ucraino che ha provocato forti tensioni sui mercati regionali e internazionali. Pochi giorni dopo le dichiarazioni del leader curdo, è stata annunciata la realizzazione di una ferrovia che permetterà di trasportare le riserve petrolifere curde in Turchia, Iraq e nei Paesi del Golfo. In cambio di un rapporto privilegiato riguardante i prezzi di vendita e i relativi quantitativi, Ankara ed Erbil hanno deciso di comune accordo che il successivo passo sarebbe stato il contenimento (anche numerico) del PKK nel territorio tramite l’operazione Claw Lock, iniziata il 17 aprile a soli 4 giorni di distanza dalla visita di Barzani in Turchia dove ha incontrato Erdoğan. Tuttavia, la risposta di Baghdad all’iniziativa turca è stata di ferma condanna per aver violato il territorio iracheno e messo in pericolo la stessa sicurezza nazionale. A preoccupare le autorità irachene è soprattutto una duplice questione: da una parte la crisi che ha coinvolto il comparto energetico, dall’altra l’instabilità politica derivante dal mancato accordo sull’elezione del Presidente della Repubblica e la formazione di un governo stabile. Nonostante infatti la domanda crescente di petrolio da parte dei Paesi europei, portando Baghdad a raggiungere livelli di export record (i migliori dal 1972), la mancata modernizzazione degli impianti di raffinamento ha inciso sui costi dell’import dei prodotti petroliferi. In quest’ottica preoccupano gli accordi stretti tra Ankara e il KRG: il Kurdistan ha nel suo sottosuolo alcuni dei più grandi giacimenti del Paese, e una scelta arbitraria delle autorità regionali curde sulla vendita e l’esportazione del petrolio può rappresentare un pericoloso precedente. Inoltre, la crisi politica che attraversa i partiti del KRG a livello interno può rappresentare un ulteriore ostacolo: senza la risoluzione della questione, non può esserci la formazione di un governo stabile e l’elezione del Presidente, dal momento che secondo la costituzione irachena il Presidente viene scelto tra i candidati di etnia curda che provengono dalle relative principali forze politiche.
Il 2023 della Turchia tra elezioni presidenziali, il centenario della Repubblica e la sfida del settore economico L’attuale corso di politica estera turca si è snodato, dunque, tra un atteggiamento interventista nelle zone di conflitto (non solo prossime geograficamente) dove Ankara può trarre vantaggio e un soft power di carattere religioso, storico e culturale, oltre che economico-commerciale. Nel primo caso è emersa una dichiarata ambizione turca, tramite anche l’uso dello strumento militare, nel voler ribadire un suo ruolo di attore indispensabile nelle macro-dinamiche di area. Un battitore libero ma pur sempre legato ai vincoli di partnership, le quali devono poter essere utili a garantire un consolidamento del suo ruolo di media potenza internazionale. Nel secondo caso, invece, la scelta di “come” inserirsi in un determinato contesto viene dettata dalle singole caratteristiche della realtà locale. Nei Paesi islamici, per esempio, l’ondata di neo ottomanesimo è stata utilizzata spesso in associazione alla difesa dei valori islamici riproposti dal partito del Presidente Erdoğan. Tuttavia, il grande dinamismo turco in materia di politica estera può avere anche degli effetti negativi per la leadership interna, oltre che sui legami con i principali attori internazionali. Nel breve periodo, le politiche condotte da Ankara hanno portato a risultati più che soddisfacenti, fornendo al Paese uno status di attore internazionale di un certo peso e conferendo prestigio e autorità alla leadership turca. In Nord Africa l’uso equilibrato di soft e hard power hanno permesso ad Ankara di inserirsi efficacemente nei contesti regionali, facendola diventare un attore a cui chiedere supporto e con il quale instaurare determinati tipi di rapporti, sia militari che diplomatici ed economici. Ciò detto, però, nel lungo periodo le iniziative intraprese negli ultimi anni hanno segnato inequivocabilmente la percezione che molti Paesi, anche al di fuori dello scenario regionale, hanno nei confronti della Turchia. L’ambiguità delle scelte nei vari conflitti e il parziale disallineamento dall’Occidente potrebbero allontanare ulteriormente Ankara dai suoi partner storici e, al contempo, relegare il Paese in una posizione di relativa impotenza nei confronti delle grandi potenze internazionali. Una condizione, quest’ultima, gravata dalla precarietà del sistema finanziario turco, che rende difficile pensare a un impegno costante di Ankara in tutti i teatri citati in questa analisi, cosa che modificherà in qualche modo la tipologia dei rapporti costruiti dal Presidente Erdoğan soprattutto a partire dal 2016. A livello interno, invece, l’economia turca, che già sta vivendo attualmente una forte crisi accentuata anche dalla pandemia di Covid-19, potrebbe richiedere molti più anni per tornare ad essere competitiva sia a livello regionale che su quello internazionale. Inoltre, le elezioni presidenziali e parlamentari che si terranno nel 2023 rappresentano un turning point per la leadership erdoganiana e i vertici politici del suo partito. I sondaggi pubblicati a giugno 2022 dall’ORC Research, infatti, hanno mostrato le percentuali a favore dell’AKP scendere al 27,7%, con una perdita di consensi di oltre il 14% rispetto alla tornata elettorale del 2018, mentre il secondo partito del Paese, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), si attesta intorno al 23% dei consensi. Ad incidere su questi dati è la crisi del settore economico e finanziario turco. La politica monetaria mantenuta inalterata dal Presidente ha lasciato esposta la lira turca a forti svalutazioni, rendendola di fatto poco appetibile nel panorama internazionale. Legato alla svalutazione della moneta, il problema dell’inflazione che continua a salire. Nel mese di maggio si è raggiunto il valore del 70%, il quale porta il sistema economico turco ad essere uno dei dieci più inflazionati a livello globale. Tuttavia, una carta che può essere giocata in vista delle elezioni è il centenario della nascita della Repubblica. Il fattore ideologico e nazionalistico potrebbero essere sfruttati dall’AKP per fortificare il voto e direzionarlo intorno alla figura del Presidente che negli ultimi anni ha cercato di riportare la Turchia al ruolo e alla posizione che le competono all’interno della comunità internazionale. Senza una risposta concreta e mirata, le campagne militari turche, lo sviluppo dell’industria pesante, gli aiuti internazionali che la Turchia elargisce, così come il suo interventismo nei principali scenari di crisi regionali non saranno più sostenibili, in primo luogo economicamente. La conseguenza che ne deriva ha una duplice portata: a livello interno, l’economia turca dovrà attraversare anni di stagnazione prima di poter tornare a essere competitiva; a livello di politica estera, invece, Ankara dovrà rivedere il proprio ruolo, la sua posizione e la sua credibilità come attore internazionale in attesa di tempi migliori in cui i mezzi a disposizione dello Stato saranno in grado di sostenere il dinamismo della politica erdoganiana a livello regionale.