La sfida di Washington a Pechino: la soft diplomacy in Africa e il containment in Estremo Oriente
Il 24 luglio ha avuto inizio il quarto viaggio in Africa del presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Due le tappe: prima il Kenia, poi l’Etiopia; unico il copione: discorsi pubblici ed incontri bilaterali prevalentemente sui temi della salvaguardia dei diritti civili e della lotta al terrorismo, rinnovando la promessa di sostegno all’Africa da parte dell’America.
Nonostante i due precedenti viaggi (nel 1987 e nel 2006), questa è stata la prima visita di Obama in veste di presidente degli Stati Uniti in Kenia, il Paese che ha dato i natali al padre e dove Obama ha incontrato la sorella, Auma Obama, e la zia, Sarah, per i legami con le quali i repubblicani lo hanno più volte attaccato, mettendo in dubbio le sue origini americane.
Un evento rilevante, dunque, preceduto da grandi preparativi a Nairobi, ma anche da alcune problematicità per i timori relativi alla sicurezza del Presidente data la presenza del gruppo estremista islamista al Shabaab, di cui, insieme al ruolo delle donne, ai diritti gay ed al grave problema delle corruzione, Obama ha discusso in occasione dei suoi interventi all’inaugurazione del Global Entrepreneurs Summit ed al Safaricom Indoor Arena di Nairobi.
Primo Presidente americano in carica della storia a visitare l’Etiopia, il secondo Paese più popoloso nel Continente Africano e ospitante la sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba, il 27 luglio Obama è giunto accompagnato da numerose polemiche: in particolare quelle degli attivisti per i diritti umani contro il governo etiopico, accusato di soffocare la libertà di stampa e di aver usato tattiche intimidatorie e vessatorie per ottenere la vittoria assoluta (con un dubbio 100% dei voti) alle elezioni del precedente maggio. Parlando davanti all’Unione Africana e nel corso degli incontri con il primo ministro etiope Hailemariam Desalegne, il Presidente Mulatu Teshome ed i leader di Kenya, Sudan, Unione Africana ed Uganda, Obama ha puntato l’attenzione sul conflitto nel Sud Sudan e, nuovamente, sulla lotta al terrorismo, soprattutto ad al-Shabaab contro cui l’Etiopia ha dispiegato quasi 5.000 unità nell’ambito dell’African Union Mission in Somalia.
In entrambi i Paesi, questione nevralgica toccata da Obama è stata la necessità e l’importanza economica e strategica di una cooperazione più stretta tra America ed Africa. Infatti, sebbene nel 2006 Obama, allora senatore dell’Illinois, avesse assicurato alla folta platea keniota la sua amicizia ed alleanza e nel 2008 avesse espresso con enfasi il desiderio di cambiare l’Africa con gli strumenti della democrazia, della tutela dei diritti delle donne e della lotta alla fame, a conti fatti gli aiuti americani al governo di Nairobi sono stati prevalentemente militari e decisamente inferiori a quelli di altri Paesi, cosicché nel continente il peso economico americano è ancora piuttosto limitato rispetto sia alle antiche potenze coloniali (Francia e Regno Unito), sia ai nuovi attori emergenti (India e soprattutto Cina). E questo nonostante il governo di Obama sia sempre stato dell’idea che l’aiutare l’Africa avrebbe portato agli Stati Uniti grandi vantaggi economici.
E non solo quelli: l’aumento dell’incidenza economica americana in Africa, infatti, avrebbe come conseguenza la contrazione del volume degli investimenti dei competitor, primo fra tutti la Cina che dal 2005 ha aumentato di trenta volte i suoi investimenti in Africa e, superando gli Stati Uniti, ne è divenuta il primo partner commerciale. Non a caso, rivendicando il proprio rapporto privilegiato con l’Africa, non solo in campo economico ma anche diplomatico, la Cina ha subito reagito nella maniera più negativa al viaggio di Obama la cui risposta è stata tanto rassicurante quanto polemica, affermando di apprezzare gli aiuti cinesi al Paese, ma di volersi assicurare che questi benefici non siano tali solo per pochi. Affermazione che chiaramente lascia intendere la volontà precisa di controllare e intromettersi nei rapporti tra Africa e Cina, facendo intuire che questo viaggio non aveva solo lo scopo di consolidare i rapporti con il Kenya, ma anche di arginare l’influenza cinese in Africa ribadendo l’accusa americana alla Cina di essere l’artefice in Africa di quella vera e propria forma di colonialismo.
Infatti, secondo molti osservatori, si può riconoscere un vero e proprio modello di penetrazione cinese in Africa: le aziende cinesi, quasi tutte pubbliche, in questi anni hanno comprato numerose concessioni per lo sfruttamento di miniere, foreste e distese di terreno coltivabile e questo al solo scopo di soddisfare l’immensa domanda interna di risorse naturali; in cambio è stata assicurata la costruzione di gigantesche infrastrutture, come la nuova sede dell’Unione africana ad Addis Abeba, stadi di calcio e superautostrade sicuramente apprezzate da molti leader africani ed utili per la modernizzazione delle infrastrutture, ma ancora più utili ai cinesi, attenti a realizzare tali strade in corrispondenza di una miniera di loro proprietà collegandola ad un porto da loro gestito, pronti ad impiegare la propria manodopera, e non quella locale pur bisognosa di lavoro, ed indifferenti alle violazioni dei diritti umani, ai comportamenti antidemocratici dei governi.
Una volta attinto alle riserve minerarie africane, la Cina ha ovviamente la necessità di movimentare tali risorse e, di conseguenza, di avere sia il controllo delle zone di transito davanti alle proprie coste sia favorevoli accordi economici con i Paesi vicini.
La Cina da tempo contende a Brunei, Malaysia, Filippine, Vietnam e Taiwan la sovranità di un gruppo di isole situate in un tratto del Mare Cinese Meridionale, le Paracel e le Spratly, dove è intenta a costruire insediamenti civili e militari sin dal 2012, ma ad ottobre nella zona ha navigato il cacciatorpediniere USS Larsen, un’azione che la Cina ha interpretato ovviamente come provocatoria e pericolosa, anche se gli Usa hanno parlato semplicemente di operazioni di routine nel Mar cinese meridionale in accordo alla legge internazionale.
Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno siglato il più importante accordo commerciale fra Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico degli ultimi due decenni, la Trans-Pacific Partnership (TPP), dalla quale però è esclusa la Cina e che si pone chiaramente come contrappeso ed alternativa al ruolo economico di Pechino in quest’area.
L’accordo raggiunto ad Atlanta dai i dodici Paesi che insieme producono il 40% del PIL mondiale, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti, ha lo scopo, sulla carta, di abolire molte barriere commerciali, stabilire regole comuni per tutelare lavoratori ed ambiente e regolamentare l’e-commerce, ma, nel reale, porterà ad un immediato rafforzamento delle relazioni tra gli Usa ed i suoi alleati e, soprattutto, confermerà le leadership americana nel Pacifico: l’intesa, infatti, è stata definita dalla stampa come il principale successo dell’agenda economica di Obama che, secondo alcune testate, dopo la firma avrebbe chiaramente detto di non voler lasciare che sia la Cina a scrivere le regole dell’economia globale, dimostrando che la sua esclusione dalla TPP rappresenta un altro espediente per arginare lo strapotere cinese, oramai esteso dall’Africa al Pacifico, in accordo con un più complesso, ma riconoscibile, piano strategico americano.
Inoltre, secondo gli autori della National Military Strategy of the United States of America del 2015 (NMS 2015) presentata dal Gen. Dempsey a luglio, uno dei documenti strategici di vertice che illustrano come gli Usa percepiscano ed affrontino soprattutto dal punto di vista militare le sfide di questi anni, gli Stati Uniti devono proseguire nella riorganizzazione dell’area del Pacifico sia con dispositivi militari collocati in punti chiave, sia con il rafforzamento delle alleanze e delle partnership (con Australia, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Thailandia, India, Bangladesh, Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam) indispensabili anche per un efficace monitoraggio strategico che comprende, letteralmente, missile defense, cyber security, maritime security, and disaster relief.
Così la questione cinese, affiorata marginalmente durante un viaggio presidenziale in Africa ufficialmente volto solo a ribadire la disponibilità americana a sostenere l’Africa contro le piaghe della fame, del terrorismo e della scarsa democrazia, si rivela invece il nodo e l’obiettivo centrale di un piano di contenimento della Cina da parte della parte della Casa Bianca. Tale strategia si dipana su più fronti, dal campo economico a quelli politico e militare, in un panorama dalle facili increspature che, se non si fermerà alla base il meccanismo delle reciproche esclusioni ed aggressioni, molto probabilmente potrebbe generare in una preoccupante escalation delle tensioni politiche e militari.