La realpolitik del riavvicinamento tra Cina e India
Si è conclusa il 22 maggio la visita in India del Primo Ministro cinese, Li Keqiang, impegnato nel suo primo viaggio all’estero dopo l’elezione a capo del governo da parte dell’Assemblea Nazionale del Popolo, avvenuta lo scorso marzo. Al termine di tre giorni di colloqui con il Premier indiano Manmohan Singh, i due leader hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per annunciare la reciproca intenzione di migliorare il sistema di garanzia dei rispettivi confini nazionali. Si tratta di un tema fondamentale per la stabilità dei rapporti tra i due Stati, specialmente alla luce del recente sconfinamento di truppe cinesi sull’Himalaya. Cominciata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la disputa per gli oltre 4.000 chilometri di confine che separano i due Paesi riguarda in particolare l’altopiano dell’Aksai Chin, annesso dalla Cina al proprio territorio nazionale nel 1962 e ora rivendicato da New Delhi, e lo Stato dell’Arunachal Pradesh, rivendicato da parte cinese come regione meridionale del Tibet.
Le ragioni strategiche che portano i due governi a non riconoscere le rispettive linee di demarcazione – la Cina non ha mai riconosciuto la linea MacMahon (confine coloniale britannico), adottata unilateralmente dall’India nel 1950; in seguito alla vittoria nel conflitto sino-indiano del ’62, Pechino ha pertanto stabilito come riferimento la Line of Actual Control (LAC) – hanno rallentato la formulazione di un accordo in grado di calmierare la tensione tra di essi. Benché con la firma di accordi nel 1993 e nel 1996 la Linea Attuale di Controllo abbia assunto valore ufficiale, la disputa non si è mai veramente sopita, con centinaia di sconfinamenti a sud della linea da parte dei cinesi. Solo negli ultimi dieci anni una serie d’incontri bilaterali ha permesso di individuare gli strumenti necessari per l’instaurazione di un dialogo sulla questione. Due in particolare sono i cardini di questo sistema: l’incontro tra i due Rappresentanti Speciali – figura istituita nel 2003, durante la visita dell’allora Primo Ministro indiano Vajpayee a Pechino – nominati dai rispettivi governi e incaricati di portare avanti le trattative politiche; e il Working Mechanism for Consultation and Coordination on India-China Border Affairs, tavolo di consultazione semestrale formato da personale diplomatico e da ufficiali militari, nato nel gennaio 2012 per realizzare un meccanismo di coordinamento militare e istituzionale nelle zone di confine.
Non si può, però, ancora parlare di una vera e propria cooperazione tra i due Paesi, e la disputa per la sovranità sui territori di confine rimane una questione irrisolta, come dimostrano le decine d’infruttuosi incontri, sintomo di una mancanza di reciproca fiducia tra le parti. Il 15 aprile scorso, infatti, l’India ha denunciato lo sconfinamento di cinquanta soldati del People’s Liberation Army (PLA) nella regione indiana del Ladak, adiacente al Kashmir pakistano e all’Aksai Chin. I soldati cinesi avevano allestito un accampamento a 19 km dal confine stabilito (nel settore di Daulat Beg Oldi), suscitando la preoccupazione del governo indiano, il quale ha mobilitato i paramilitari della Indo Tibetan Border Police (ITBP) per scongiurare un ulteriore avanzamento nel territorio. Benché inizialmente il governo di Pechino avesse smentito di aver violato il confine con l’India, dopo giorni di trattative, la crisi è rientrata solo quando New Delhi ha annunciato la propria disponibilità a smantellare alcuni bunker a Chumar, 250 km più a sud, ripristinando lo status quo ante lungo la LAC. L’episodio, oltre a dimostrare l’instabilità intrinseca dell’attuale sistema di garanzia dei confini, che poggia esclusivamente sulla disponibilità al dialogo delle parti, ha rappresentato una palese dimostrazione di forza da parte di Pechino, alla quale il governo indiano non ha voluto, o saputo, rispondere a tono, suscitando le critiche da parte dell’opposizione.
I ripetuti sconfinamenti cinesi, in passato, avevano già portato New Delhi a rafforzare il proprio dispositivo militare nello Stato di Assam come misura cautelativa – nel 2010 uno squadrone di SU-30 MKI a Tezpur e un altro, l’anno successivo, nella base aerea di Jabua. E questo atteggiamento di Pechino è stato alla base della decisione presa nei primi mesi del 2013 da parte del Ministero della Difesa indiano di portare avanti un progetto per costituire un nuovo Corpo d’Armata da posizionare nel nordest del Paese lungo il confine cinese. E il posizionamento da parte di Pechino di caccia SU-27 nella base di Gonkar, in Tibet, con i quali potrebbe raggiungere obiettivi nell’Arunachal Pradesh e nel Sikkim, avvenuto a poche ore dall’incontro tra i due Primi Ministri, sembrerebbe, di fatto, ridimensionare quello che è stato interpretato come un passo avanti per la soluzione della questione territoriale.
Nonostante ciò, l’incontro dei giorni scorsi rimane un fattore importante per leggere le dinamiche degli equilibri della regione. L’interesse del governo cinese nel portare avanti le trattative sulla questione territoriale, sembrerebbe, di fatto, strumentale alla realizzazione di obiettivi di altra natura.
Tra questi, il consolidamento della relazione commerciale con New Delhi, il cui interscambio dovrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari nel 2015. L’India rappresenta un mercato vastissimo, in cui Pechino esporta prodotti finiti per un valore che nel 2012 si è attestato intorno ai 47,75 miliardi di dollari. Si tratta di una relazione commerciale che vede New Delhi fortemente in svantaggio anche a causa del protezionismo selettivo applicato da Pechino (ad es. nei settori farmaceutico e informatico) e dal dumping cinese che asfissia l’imprenditoria indiana. Le rassicurazioni su un futuro ammortamento del divario commerciale attraverso un più ampio accesso al mercato cinese per i prodotti indiani, arrivate al termine dell’incontro tra i due Premier dei giorni scorsi, ha ulteriormente palesato la reale disparità nei rapporti tra i due Paesi.
Soprattutto, però, la Cina ha l’interesse a mantenere rapporti cordiali con il governo indiano anche nell’ottica di arginare gli interessi statunitensi in Asia, in quanto il famoso “pivot” di Obama si fonda in una certa misura anche sull’avvicinamento diplomatico e strategico tra Washington e New Delhi, nonostante questo proceda a fasi altalenanti.
La ricerca di una convergenza tra Stati Uniti e India, per un possibile bilanciamento della potenza cinese nella regione, è stata ribadita lo scorso giugno, durante la visita dell’ex Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta. Definita in quell’occasione come il cardine della strategia statunitense in Asia, l’India è considerata dagli Stati Uniti un partner affidabile con cui cercare di instaurare una cooperazione in materia di sicurezza nell’area indo-pacifica. Nonostante il governo indiano si sia sempre dimostrato cauto nell’aderire ad una partnership militare con gli Stati Uniti – non sono mai stati firmati, per esempio, il Logistics Supply Agreement (LSA), il Communications Interoperability and Security Memorandum of Agreement (CISMOA) e il Basic Exchange and Cooperation Agreement for Geo-spatial Cooperation (BECA), considerati dall’India eccessivamente intrusivi – la fornitura di tecnologia statunitense permette all’India di incrementare il potenziale delle proprie Forze Armate, fattore che rappresentare una minaccia per il governo di Pechino. È dello scorso mese la notizia dell’avvenuta consegna, da parte della Boeing, del primo pattugliatore marittimo P-8I Neptune alla Marina indiana. Da parte di Pechino vi è indubbiamente il timore che una siffatta collaborazione possa portare in futuro anche a maggiori legami in ambito militare che favorirebbe una presenza più massiccia di Washington nella regione dell’Asia-Pacifico. A tal riguardo si ricorda che a partire dal 2007, le esercitazioni congiunte fra Stati Uniti e India previste annualmente dal programma MALABAR, sono aperte anche a Giappone, Australia e Singapore e si tengono sempre più spesso nel Mar Cinese Meridionale e nel Pacifico occidentale, suscitando la preoccupazione del governo cinese per una possibile ingerenza nelle varie contese territoriali nell’area.
In quest’ottica, normalizzare le relazioni con New Delhi, permetterebbe alla Cina di focalizzare la propria attenzione sulle dispute marittime per le isole Paracel, Spratly, Pratas, per il Macclesfield Bank e per lo Scarborough Shoal – territori strategici per posizione geografica e per disponibilità di risorse energetiche e ittiche. La rivendicazione della sovranità su questi arcipelaghi ha causato le proteste delle Filippine, del Vietnam, del Brunei e della Malesia, in occasione della presentazione (nel 2009) all’ONU da parte del governo cinese di una carta geografica in cui veniva rappresentata la linea di massima estensione di tali rivendicazioni, contraria alle disposizioni della Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS). La volontà di risolvere le questioni pendenti attraverso un dialogo bilaterale con i rispettivi Paesi interessati, senza ricorrere alla mediazione internazionale, dimostra come la Cina consideri il Mar Cinese un’area di propria, ed esclusiva, influenza, da cui eliminare ogni possibile forma di contenimento alla propria espansione.
L’apertura dimostrata verso il governo indiano, se di “apertura” si può parlare, avendo Delhi dovuto smantellare delle strutture all’interno del suo territorio per consentire il ritorno allo status quo ante, fa parte della strategia cinese di concorrenza con gli Stati Uniti nella regione e, più in generale, della risposta di Pechino al ri-orientamento strategico di Washington verso l’Asia. In particolare, è la crescente cooperazione militare tra USA e India a preoccupare la Cina, e il riacutizzarsi della disputa sul confine himalayano, unitamente al rinsaldamento dei rapporti con Islamabad, rivale atavico di New Delhi, potrebbe essere il modo di Pechino per comunicare il suo malcontento a New Delhi.
Nonostante questo, effettivamente il dialogo tra i due Paesi rimane un elemento di fondamentale importanza per gli equilibri in Asia. Entrambi i governi, infatti, almeno sulla carta, riconoscono la necessità di trovare un punto d’incontro sulle questioni ancora aperte, al fine di garantire la stabilità e, conseguentemente, lo sviluppo dei propri interessi, nella regione.