La minoranza curda, l’Iran e i nazionalismi incrociati
Chi studia la diaspora curda e il suo tentativo d’organizzarsi politicamente è solito affermare che, se i palestinesi hanno tendenzialmente un’unica controparte – Israele –, i curdi, al contrario, nella loro lotta per il riconoscimento sono stretti tra molteplici oppositori, in primo luogo Turchia e Iran. Secondo il CIA World Factbook i curdi costituirebbero il 10% della popolazione turca e il 4% di quella iraniana. Ma esistono stime che parlano addirittura di 1/3 della popolazione turca e del 7% di quella iraniana.
Sotto l’egida generale del PKK (il partito curdo dei lavoratori) sono pertanto nate formazioni confederali di natura politico-militare che combattono per l’autonomia curda nei singoli contesti d’appartenenza. Il PEJAK (letteralmente, partito per la libera vita del Kurdistan) è la formazione attiva dal 2004 sui confini iracheni e iraniani, ha un’ispirazione politica marxista e il suo attivista è un hewal, “compagno”. Dal 2009 è inserita tra le organizzazioni che il Dipartimento USA riconosce come terroristiche, ma tuttavia questo non basta a far cadere i sospetti dei governi turchi e iraniani intorno ad un possibile appoggio statunitense alla guerriglia curda. La principale zona d’operazione e conflitto è quella dei monti Qandil, nel nord dell’Iraq. La natura internazionale della militanza curda ha recentemente indotto gli Stati oppositori ad unirsi nella repressione. In quest’ottica va letta la collaborazione turco-iraniana che arriva a prevedere un coordinamento delle operazioni militari.
L’evento bellico più recente risale alla metà d’ottobre 2011, quando guerriglieri curdi hanno ucciso 24 soldati turchi e ne hanno ferirti 18 nelle postazioni militari del sud-est del paese. La risposta di Ankara (bombardamenti con F16) ha, come in altre recenti occasioni, mostrato una necessità geopolitica, ovvero lo sconfinamento militarmente in territorio iracheno per operare la repressione, in quanto, dalla caduta di Saddam, il margine d’attivismo curdo in Iraq s’è ampliato. Strategie analoghe ha messo in campo anche l’Iran.
A partire da luglio/agosto le Guardie della Rivoluzione Islamica hanno avviato una grande operazione contro la PEKAK che ha interessato anche il Kurdistan iracheno, laddove si ritiene operino le basi del PEJAK, specialmente nella provincia di Arbil, capitale del distretto curdo-iracheno, dunque ancora una volta oltre i confini dell’Iran e in violazione della sovranità statuale della federazione irachena. Conseguenza principale di queste azione è stata la creazione d’una massa di profughi, costituita in larga parte da pastori locali e dalle loro famiglie che gradualmente abbandonano i villaggi di montagna.
Esiste poi l’aspetto riguardante le ricadute della repressione iraniana sui rapporti diplomatici tra Teheran e Bagdad. Il governo iracheno e il suo presidente Nuri al-Maliki non hanno, difatti, ancora mosso alcuna protesta ufficiale per le azioni militari che si stanno svolgendo sul loro territorio, nonostante singoli parlamentari iracheni siano giunti a suggerire il richiamo in patria dell’ambasciatore iracheno a Teheran.
Il nuovo attivismo del PEJAK si colloca dunque in un momento storico assai inedito, ovvero in una fase in cui Iraq e Iran rinsaldano i loro rapporti, come testimonia la visita, lo scorso 6 luglio, del vicepresidente iraniano Mohammad Reza Rahimi a Bagdad, proprio in concomitanza con l’inizio delle operazione repressive sui curdi. Tra gli ultimi e più rilevanti atti della vicenda curdo-iraniana è da collocare, in senso opposto, la visita di Leon Panetta, segretario statunitense alla Difesa, nel Kurdistan iracheno e il suo incontro con Massoud Barzani, presidente del Governo curdo. In quest’ottica sembra verosimile che gran parte delle sorti curde dipendano dall’atteggiamento che assumerà non tanto il governo turco o iraniano ma piuttosto dalle scelte di Bagdad che, finora, ha lasciato i due Stati interessati alla repressione curda liberi di agire militarmente sul proprio territorio nazionale.