Il licenziamento di Gallant e l’elezione di Trump: le implicazioni per Netanyahu
Il recente licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant segna un momento cruciale nella politica di Israele e per la leadership di Benjamin Netanyahu. Un’azione orchestrata e sostenuta con il beneplacito di quella destra estrema di governo sua alleata, che risponde alle posizioni interessate di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
La notizia in sé, infatti, non deve sorprendere in quanto già nella primavera dello scorso anno il Ministro era stato licenziato e poi reintegrato nel governo a causa di divergenze con i leader di Sionismo Ebraico. All’epoca dei fatti, le cause della tensione riguardavano la contrarietà di Gallant all’istituzione di una Guardia Nazionale alle dipendenze del Ministero della Sicurezza Nazionale (l’equivalente del Dicastero dell’Interno), da dispiegare, in un certo qual modo, in maniera alternativa alle forze di polizia. Le ragioni che hanno condotto alla scelta eclatante del 5 novembre, però, sono in parte diverse, se non addirittura peggiori rispetto al contesto storico e politico peculiare che vive oggi Israele.
Da tempo, Gallant si era mostrato contrario alla controversa riforma giudiziaria voluta dal governo, così come al mantenimento dell’esenzione della leva militare (obbligatoria per tutti nel Paese) per gli ultra-ortodossi (36 mesi per gli uomini e 24 mesi per le donne). Inoltre, lo stesso Ministro si era detto favorevole all ’introduzione di un tribunale speciale che avrebbe dovuto indagare le responsabilità del Premier e dell’esecutivo intero circa quanto accaduto il 7 ottobre 2023, un po’ sulla falsa riga di quanto avvenuto nel 1973 con l’allora Primo Ministro Golda Meir alla fine della guerra dello Yom Kippur. Forse, però, la motivazione più forte si lega a quanto andato in scena nelle ore precedenti la notizia del licenziamento di Gallant. I fatti in questione riguardano l’ arresto del portavoce di Netanyahu, Eliezer Feldstein, accusato di aver fatto uscire informazioni sui media per distorcere e direzionare il dibattito nell’opinione pubblica circa un possibile accordo sugli ostaggi. Non a caso, Gallant si era sempre mostrato interessato a negoziare una qualche intesa a differenza del Premier, che ha solo rigettato ogni negoziato, posizionandosi paradossalmente alla stessa stregua di Hamas: sabotare le trattative su Gaza e non definire una posizione chiara in merito al rilascio degli ostaggi israeliani in mano all’organizzazione islamista.
Di fatto, attraverso il licenziamento del suo Ministro della Difesa, Netanyahu ha eliminato un diretto competitor all’interno del Likud, nonché una delle poche personalità ritenute affidabili dagli apparati dello Stato (militari, magistratura e istituzioni) e dall’uscente Amministrazione Biden. La sostituzione di Gallant – e prossimamente anche quella dei capi delle Forze Armate e dell’intelligence – con Israel Katz, con quest’ultimo che lascia gli Esteri in favore di Gideon Sa’ar, conferma ancora una volta il tentativo del Premier di non voler rispondere personalmente degli errori del 7 ottobre. Al contempo, tale atto spiega come mai sia il più longevo leader nella storia del Paese. Uno straordinario quanto ambiguo animale politico in grado di saper navigare tra le difficoltà, anche dinanzi a molteplici tensioni interne e minacce per la sicurezza nazionale. La decisione di Netanyahu ha sollevato forti critiche, con manifestazioni pubbliche (si sono segnalati scontri a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa e in tutte le più grandi città) e un dibattito politico acceso. La rimozione di Gallant riflette, quindi, le crescenti fratture all’interno della classe dirigente israeliana e l’impatto delle politiche domestiche sulla stabilità complessiva del Paese. Questo episodio solleva domande e criticità sul rapporto tra sicurezza e democrazia, nonché sulle responsabilità del Premier nell’aver contribuito a dare forma ad un contesto avvelenato nella stessa società israeliana.
Contestualmente, nelle stesse ore, andava in scena l’attesissima rielezione di Trump negli USA. La vittoria di “The Donald” rappresenta per Netanyahu un’opportunità strategica, poiché il tycoon newyorkese è legato al Premier israeliano da una forte sintonia personale e storicamente è sempre stato favorevole ad un appoggio incondizionato nei confronti di Tel Aviv, in quanto garante degli interessi statunitensi nella regione MENA. L’alleanza con un Presidente americano amico potrebbe, quindi, offrire a Netanyahu un sostegno internazionale prezioso per consolidare il suo controllo interno e ridurre l’opposizione politica. I vantaggi più immediati riguarderebbero le dinamiche di guerra a Gaza e in Libano, così come vi sarà piena mano libera in favore di Tel Aviv su Cisgiordania e palestinesi. Il tutto corredato dalla ripresa di una forte assertività anti-iraniana (sotto forma di quella “massima pressione” divenuta una bandiera dell’azione di Esteri trumpiana), nella quale anche gli Accordi di Abramo diventano strumento funzionale a tale scopo.
In estrema sintesi, la vittoria di Trump è da considerarsi un fattore stabilizzante per Netanyahu, poiché la sua Amministrazione potrebbe limitare le critiche occidentali alle politiche israeliane e rafforzare il supporto degli Stati Uniti, indispensabile per affrontare le tensioni regionali e le critiche internazionali in sede ONU. Al contempo, il licenziamento di Gallant fornisce a Netanyahu una nuova spinta per consolidare il suo primato sulla politica israeliana.