Gli scenari aperti dal report AIEA sul programma nucleare dell’Iran.
Middle East & North Africa

Gli scenari aperti dal report AIEA sul programma nucleare dell’Iran

By Francesco Valdiserri
12.11.2011

Il rapporto della AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) sul nucleare iraniano, rilasciato l’8 novembre al Board dei Governatori dell’Agenzia e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha di fatto ufficializzato la dimensione militare del programma nucleare di Teheran. Il report (“Implementation of the NPT Safeguards Agreement and Relevant Provisions of Security Council Resolutions in the Islamic Republic of Iran”), considerato il più severo di sempre, è giunto a tre giorni di distanza dalla minaccia del Presidente israeliano Shimon Peres di intraprendere azioni militari preventive per neutralizzare i siti nucleari iraniani.

L’AIEA, dopo aver raccolto informazioni provenienti da più fonti, incluse quelle degli Stati membri, ha espresso gravi preoccupazioni sugli avanzamenti del programma nucleare iraniano, affermando che Teheran, oltre a non collaborare con l’Agenzia, ha condotto attività che indicano il chiaro intento di sviluppare un ordigno atomico. Inoltre, si ritiene che dietro ai consistenti progressi effettuati da Teheran vi sia Vyacheslav Danilenko, ex scienziato russo, che, secondo David Albright (ex ispettore AIEA sugli armamenti), avrebbe offerto assistenza ai tecnici iraniani per circa cinque anni con lezioni teoriche e dossier scientifici. Da parte sua, l’Iran ha duramente respinto le accuse, riaffermando la natura civile del programma nucleare, ed ha minacciato l’Occidente di andare incontro a ritorsioni qualora dovesse essere sferrato un attacco al Paese.

Nel dettaglio, il rapporto, sebbene non abbia portato stime sul tempo necessario a Teheran per sviluppare l’atomica, ha evidenziato i tentativi, effettuati dall’Iran nel 2008 e 2009, di simulazione al computer di un’esplosione atomica, e i lavori di costruzione, avviati nel 2000, di una sorta di “contenitore di contenimento” nella base militare di Parchin per testare le capacità di esplosivi ad alto potenziale, utilizzati quali innesco per testate atomiche (tra cui la sperimentazione del dispositivo di detonazione EBW, “exploding bridgewire detonator”, usato prevalentemente per scopi militari). Con riferimento allo EBW, dal report emerge che l’Iran avrebbe inoltre ottenuto informazioni sensibili per la fabbricazione e il collaudo del generatore R265, un contenitore emisferico in alluminio dove, attraverso lo EBW, viene fatto detonare esplosivo convenzionale all’intensità necessaria per innescare una carica di uranio o plutonio. Infine, è giunta la conferma che le autorità iraniane stiano installando centrifughe per l’arricchimento di uranio in una struttura a Fordow, vicino a Qom (150 chilometri a Sud di Teheran).

Le rivelazioni sui progressi effettuati da Teheran hanno suscitato differenti reazioni in ambito internazionale, causando una rapida escalation delle tensioni; mentre Israele ha richiamato la comunità internazionale all’adozione di severe misure contro l’Iran, paventando la possibilità di sferrare un attacco, l’Unione Europea, sulla linea d’onda delle posizioni di Londra e Parigi, ha richiesto l’introduzione di nuove e forti sanzioni contro il regime degli Ayatollah. Il Regno Unito non ha tuttavia escluso alcuna opzione, aprendo quindi anche alla possibilità di intervenire militarmente, allineandosi così con Israele e discostandosi dall’atteggiamento di cautela di Francia e Germania. Russia e Cina hanno immediatamente chiuso la porta all’ipotesi di nuove sanzioni, insistendo piuttosto sulla ripresa del dialogo, mentre gli Stati Uniti hanno adottato una posizione abbastanza defilata; sebbene da una parte, Washington, attraverso la dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner, consideri molto gravi le accuse mosse dall’AIEA a Teheran, dall’altra i vertici americani hanno preso tempo per riflettere su come esercitare possibili pressioni supplementari sull’Iran. In realtà, l’atteggiamento di freddezza degli Stati Uniti nei confronti di Israele si inserisce in un trend caratterizzato da un parziale deterioramento delle relazioni tra i due Paesi, acutizzato dalla divergenza di opinioni circa le politiche di Israele nei confronti della questione arabo-palestinese e culminato nell’opposizione di Washington all’ipotesi di un raid su territorio iraniano. Le ragioni degli Stati Uniti sono legate alle conseguenze negative connesse ad un attacco di Israele all’Iran; in primis, l’impegno militare di Washington in Iraq ed Afghanistan è un fattore alla base della contrarietà americana all’apertura di un nuovo fronte, tenuto inoltre in considerazione che verrebbe messa a repentaglio l’incolumità dei soldati americani nel vicino Iraq. Inoltre, un Iran sotto attacco porterebbe ad un aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio, in un contesto generale di crisi economica ancora in essere (nella fattispecie, il timore principale ruota intorno al possibile blocco da parte dell’Iran dello Stretto di Hormuz, dal quale transitano giornalmente circa sedici milioni di barili, il 33% del petrolio commerciato via mare e il 17% del petrolio mondiale). La ritorsione di Teheran potrebbe quindi materializzarsi in una destabilizzazione del mondo arabo sciita, in particolare in Iraq ed in Libano, dove è operativo Hezbollah. Infine, qualora l’operazione militare non ottenesse successo, l’Iran otterrebbe un pretesto valido per affermare la dimensione militare del proprio programma nucleare, adducendo l’autodifesa come giustificazione allo sviluppo di ordigni atomici.

Un eventuale attacco mirato alla neutralizzazione dell’arsenale nucleare iraniano presenta evidenti limiti di fattibilità, dal momento che il raid dovrebbe riuscire nell’obiettivo di riportare a zero il programma nucleare di Teheran; in questo ambito, lo stesso Ministro della Difesa di Israele Ehud Barak ha delineato le enormi difficoltà di riuscita del progetto, ricordando ad esempio che l’istallazione nucleare sotterranea nei pressi di Qom è a prova di armi convenzionali. Inoltre, non devono essere sottovalutati i progressi effettuati dall’Iran nello sviluppo del proprio apparato militare. Senza dubbio, Israele non può prescindere dall’appoggio militare degli Stati Uniti, per ora tuttavia fermi su una posizione defilata; al momento quindi, appare improbabile la realizzazione di un’azione unilaterale da parte di Israele in contrasto alle obiezioni di Washington.

Alla luce delle problematiche inerenti l’avvio di una campagna militare su larga scala, Israele e Stati Uniti potrebbero proseguire con operazioni “covert” su territorio iraniano, attraverso il tentativo di sabotaggio del sistema informatico connesso al programma nucleare (i sistemi responsabili del funzionamento delle centrifughe nel sito nucleare di Natanz sono stati attaccati nel giugno 2010 dal virus “Stuxnet”, quindi nell’aprile 2011 è stata la volta del virus denominato “Stars” ed infine nel novembre 2011 del virus “Duqu”) e attraverso l’appoggio ai movimenti dissidenti locali (in primis MEK, Mujahedin-e Khalq). Il 12 novembre, si è verificata un’esplosione in una base delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (GRI) a trentacinque chilometri da Teheran, dove hanno perso la vita diciassette persone, tra cui Hassan Tehrani Moghaddam, Direttore della Jihad Self-Sufficiency Organization del Corpo delle GRI e considerato figura chiave del programma missilistico iraniano. Sebbene Teheran abbia riportato che si è trattato di un incidente nello spostamento di munizioni, rimane il forte dubbio sulla dinamica che ha portato all’esplosione della base, dove si stima che siano andati distrutti alcuni missili Shahab-3 (il report AIEA ha riferito del tentativo da parte dell’Iran di creare delle testate di minori dimensioni, che possano contenere un ordigno nucleare da impiantare direttamente su questo tipo di missili, che hanno una gittata di 1.280 chilometri). Fino ad oggi, Teheran ha assorbito gli attacchi al proprio programma nucleare (incluso l’assassinio di scienziati) senza rispondere alle provocazioni; tale posizione può essere letta come una volontà da parte dei vertici iraniani di non innescare una escalation dello scontro ad un livello tale da giustificare un intervento militare esterno su larga scala. Ciò può essere giustificato dal fatto che l’Iran, nonostante gli attacchi delle operazioni “covert” e le sanzioni, ha saputo proseguire, seppur lentamente, nello sviluppo del proprio programma nucleare. Sarà interessante valutare l’atteggiamento di Teheran qualora dovessero aumentare gli atti di sabotaggio, ma fino a quando l’Iran avrà margini di manovra per proseguire il programma atomico, è altamente improbabile assistere ad una risposta militare alle provocazioni.

La comunità internazionale deve quindi tenere in considerazione le ambizioni dell’Iran, in grado di effettuare nel corso degli anni notevoli avanzamenti nel settore del nucleare. Un quinto round di sanzioni (dopo quelle imposte con le Risoluzioni ONU 1737, 1747, 1803 e 1929) potrebbe soltanto rallentare il programma nucleare iraniano, non scalfendo tuttavia le ambizioni di Teheran. Alla luce del veto che verosimilmente verrà esercitato da Russia e Cina in sede ONU, sarà più probabile assistere a sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti. Yukiya Amano, Direttore Generale della AIEA, insistendo sulla necessità di colloquiare con Teheran, ha proposto il 17 novembre di inviare una missione di alto livello in Iran per cercare una soluzione diplomatica alla crisi.

Il rapporto AIEA viene ad inserirsi in una peculiare fase della vita politica iraniana, caratterizzata dalla crisi istituzionale che vede una crescente contrapposizione tra l’Ayatollah Ali Khamenei ed il Presidente Mahmoud Ahmadinejad, in seguito al tentativo di quest’ultimo di divincolarsi dalla dipendenza della Guida Suprema. In questo contesto, le crescenti pressioni internazionali sull’Iran costituiscono un banco di prova per la tenuta dell’establishment governativo iraniano, alla luce del contrasto Ahmadinejad – Khamenei esacerbato dal tentativo di rimozione da parte del Presidente del Ministro dell’Intelligence Heydar Moslehi, vicino all’Ayatollah (aprile 2011), e da un recente scandalo finanziario che ha minato la posizione del Presidente (la presunta frode bancaria del valore di 2.6 miliardi di dollari ha visto coinvolti membri dell’entourage di Ahmadinejad). Il 29 marzo 2012 si terranno in Iran le elezioni parlamentari e nel giugno 2013 quelle presidenziali, alle quali non potrà candidarsi Ahmadinejad poiché avrà già realizzato due mandati, massimo consentito dalla Costituzione. Il Presidente sta cercando di aumentare il suo potere interno in vista del 2012 per poi poter candidare una personalità a lui vicina. In questo senso, la volontà di Ahmadinejad di creare una sorta di diarchia interna è alla base del contrasto con Khamenei. Il rapporto AIEA e la minaccia di intervento armato israeliano e di ulteriori sanzioni aprono quindi uno scenario che potrebbe vedere l’Ayatollah allontanare definitivamente dalla scena Ahmadinejad per riaffermare il proprio potere interno. Occorre quindi tener presente in questo contesto il presunto complotto di assassinio dell’ambasciatore saudita a Washington sventato ad ottobre 2011. Sebbene si debba ancora fare luce sull’episodio, è emerso che l’evento possa essere sintomatico di cambiamenti all’interno dell’establishment politico iraniano. Infine, un ulteriore scenario che potrebbe aprirsi è la riaffermazione del movimento riformista interno riconducibile all’Onda Verde, qualora la situazione economica iraniana dovesse subire un contraccolpo a causa delle sanzioni.

In conclusione, la comunità internazionale, qualora non seguisse la strada dell’intervento armato che avrebbe esiti catastrofici, di fatto si troverebbe di fronte due opzioni, entrambe potenzialmente negative: adozione di ulteriori sanzioni per rallentare il programma nucleare iraniano in attesa di sviluppi futuri o rassegnazione all’idea di un Iran in possesso della bomba atomica, situazione che di fatto muterebbe radicalmente gli equilibri a livello internazionale e soprattutto in Medio Oriente.

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