Geopolitical Weekly n.266

Geopolitical Weekly n.266

By Francesco Guastamacchia and Roberta Santagati
07.06.2017

Corea del Nord

Il 4 luglio, Pyongyang ha eseguito un test di lancio del missile Hwasong-14, che, secondo le rilevazioni del Comando del Pacifico degli Stati Uniti, ha raggiunto l’area economica esclusiva del Giappone in 37 minuti a 933 chilometri circa dall’area di lancio. Secondo le stime degli esperti militari sudcoreani e statunitensi, si tratterebbe di un missile balistico intercontinentale (ICBM) in grado di raggiungere i 6.700 chilometri di gittata. La notizia ha messo in allerta Washington, poiché la distanza ipotizzata permetterebbe al dittatore asiatico di ordinare un bombardamento in Alaska o persino nell’avamposto militare statunitense di Guam. Il presidente cinese Xi Jinping ha proposto nella sua visita a Mosca di predisporre un piano di de-escalation insieme a Stati Uniti e Corea del Sud, probabilmente intenzionato a tentare la strada diplomatica per prevenire un conflitto al confine col proprio Paese. Tuttavia, non è da escludere che il presidente americano Donald Trump scelga una reazione più muscolare, come dimostrerebbero i test missilistici congiunti USA-Corea del Sud nelle acque territoriali sudcoreane all’indomani del lancio di Pyongyang. La tempistica del test coincide, poi, con i preparativi per il G20 che si terrà ad Amburgo il 7 e l’8 di questo mese e nel quale si discuterà, tra le altre cose, di come rispondere alle minacce poste dal programma nucleare del Nord Corea. Per di più, le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU e quelle unilaterali imposte dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud sembrano non influire sulla volontà del Paese di dotarsi di una capacità di deterrenza nucleare, elemento che aggrava la posizione internazionale di Pyongyang. La Corea del Nord starebbe da tempo lavorando per approntare una capacità missilistica in grado di raggiungere distanze intercontinentali e di caricare testate nucleari sui missili. I recenti e più frequenti test condotti da Pyongyang, oltre ad aver esacerbato i toni con Washington, dimostrerebbero un’accelerazione sulla ricerca e lo sviluppo di soluzioni tecnologiche adatte a creare una minaccia credibile nei confronti dei vicini orientali e del nemico storico, gli Stati Uniti.

Libia

Il 5 luglio il Generale Khalifa Haftar ha annunciato che l’autoproclamato Esercito Nazionale Libico (ENL) ha conquistato l’intera città di Bengasi, dopo aver preso il controllo degli ultimi quartieri in mano alle forze della milizia jihadista Benghazi Defense Brigade (BDB). Le operazioni per conquistare Bengasi erano state avviate nel 2014, anno in cui le milizie jihadiste ne avevano preso il controllo ed il Generale aveva lanciato l’Operazione Dignità, facendo della presa della città un significativo obiettivo. La conquista di Bengasi va a completamento di un periodo particolarmente favorevole per l’ENL. Di fatto, il Generale controlla quasi tutta la Cirenaica e sta progressivamente ampliando la sua influenza nel desertico Fezzan a sud del Paese, caratterizzato da un mosaico eterogeneo di gruppi militanti e milizie tribali. Con i progressi degli ultimi mesi, Haftar ha ottenuto il controllo di punti strategici, come le basi aeree di Jufra, Brak al-Shati e Thamenhit a sud di Tripoli, e la Mezzaluna Petrolifera in Cirenaica, la cui funzione determinante per l’economia dell’intero Paese la rende risolutiva negli equilibri di potere. In questo modo, parallelamente al controllo territoriale, il Generale sembra ottenere un consolidamento anche politico sul piano interno. In questo senso, la presa di Bengasi potrebbe rappresentare un utile e ulteriore elemento di legittimazione per una figura, come quella di Haftar, che ha sempre tentato di presentarsi come uomo forte in grado di far uscire il Paese dal caos. Nonostante ciò, il mutevole sistema delle allenze e la discontinuità dei rapporti, gestiti perlopiù in funzione utilitaristica, rappresenta un’importante variabile sia per il Governo di Tobruk che per il Governo di Unità Nazionale di Tripoli. Quest’ultimo, capeggiato dal Premier del Consiglio Presidenziale Fayez al-Serraj, è militarmente sempre più relegato a Tripoli e nei suoi dintorni. Nonostante il momento sembri propizio per l’Esercito di Tobruk, non è da escludere che Haftar cerchi una soluzione diversa da quella militare nella crisi libica. Infatti, Haftar potrebbe decidere di sfruttare a proprio vantaggio il mutamento degli equilibri interni ed il suo accresciuto potere negoziale nei confronti del Governo di Tripoli, accettando di tornare al tavolo dei negoziati per rimodulare a suo vantaggio gli accordi relativi alla spartizione delle cariche e al sistema di bilanciamento dei poteri.

Siria

Il 4 e 5 luglio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il quinto round di colloqui sulla crisi siriana, che ormai volge alla fine del suo sesto anno consecutivo. Oltre a Russia, Iran e Turchia, promotori di questi negoziati, hanno partecipato ai colloqui Staffan de Mistura, inviato ONU per la Siria, rappresentanti del regime di Bashar al-Assad e dei gruppi ribelli e, infine, alcuni osservatori dalla Giordania e dagli Stati Uniti. L’obiettivo del vertice era l’implementazione delle quattro aree di de-escalation annunciate a maggio, attraverso la definizione dei loro confini, la ripartizione tra gli Stati promotori delle responsabilità di pattugliamento e di monitoraggio del cessate il fuoco. Tuttavia, il vertice si è concluso con un nulla di fatto a causa delle resistenze di alcune fazioni. I rappresentanti dei gruppi ribelli hanno dichiarato che una legittimazione del ruolo delle truppe iraniane metterebbe a rischio la sovranità nazionale siriana. Allo stesso modo, l’intervento di truppe turche nella zona di Idlib, nel nord del Paese, non sarebbe gradito al regime di Assad e ai gruppi combattenti curdi, i quali lo equiparerebbero ad un’appropriazione territoriale indebita. Gli Stati Uniti e la Giordania avrebbero, invece, manifestato interesse a monitorare la zona meridionale intorno a Quneitra, dove i giordani supportano alcuni gruppi ribelli. Ciò creerebbe un cuscinetto che impedirebbe all’Iran di esercitare maggiore pressione lungo il confine con il Golan e Israele. I veti incrociati e le divergenze evidenziano come la legittimazione della presenza di truppe straniere nelle de-escalation zones consoliderebbe le aree di influenza delle singole potenze straniere in Siria. Se non venisse raggiuto un accordo tra Russia e Turchia riguardo al dispiegamento di truppe di Ankara a Idlib non è da escludere che Ankara tenti di forzare la mano e lanci un’offensiva contro l’adiacente cantone curdo di Efrin. Infatti, per la Turchia il ruolo ricoperto nel processo di Astana è funzionale a impedire la formazione di un’area autonoma curda a ridosso del proprio confine, vero obbiettivo del Presidente ErdoÄŸan. Va poi rilevato il crescente interesse degli USA per il modello delle zone di de-escalation. Infatti, qualora si trovasse un accordo per la zona meridionale, Washington potrebbe tentare di replicare lo stesso meccanismo anche nel nord-est della Siria, riuscendo così a conferire una qualche legittimità alla presenza delle proprie truppe nel Paese. Inoltre, da tale posizione gli USA potrebbero controllare più agevolmente il confine siro-iracheno, sia nell’ambito della lotta a Daesh sia in ottica di contenimento dell’influenza iraniana.

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