Geopolitical Weekly n.250
Cina
Lo scorso 5 marzo è iniziata a Pechino l’Assemblea Nazionale del Popolo Cinese (NPC), eletta ogni cinque anni e che si riunisce una volta all’anno per 11 giorni. Si tratta della più alta istituzione statale e unica camera legislativa della Repubblica Popolare Cinese e, in quanto tale, ratifica le decisioni già prese dal Partito. La sessione annuale ha, infatti, lo scopo di rivedere il bilancio delle politiche fatte durante l’anno e di presentare i futuri piani politici alla nazione. Poiché dei 2.979 delegati che compongono l’Assemblea i 2/3 provengono dal Partito Comunista, le posizioni assunte dal NPC sono significative per interpretare la direzione della politica del Partito.
L’Assemblea è stata inaugurata dall’intervento del Primo Ministro Li Keqiang, che si è focalizzato prima di tutto sul dossier economico. Data la crescita economica più lenta mai registrata da 26 anni, nel 2016, è stato posto per il 2017 un tetto di crescita del PIL pari al 6,5%, inferiore di 0,5 punti percentuali rispetto all’obiettivo del 7% stabilito per l’anno precedente. La lenta crescita economica potrebbe essere funzionale ai leader del Partito per giustificare l’utilizzo di maggiori riforme atte a risanare il debito pubblico e ad assicurare la stabilità economica.
Le parole del Primo Ministro hanno messo in evidenza anche le altre priorità per il governo. Da una parte, la lotta all’inquinamento dal momento che ,in assenza degli Stati Uniti, la Cina ha giocato un ruolo indispensabile per la ratifica degli accordi stipulati alla Conferenza sul clima di Parigi. Dall’altra, il principio di “una sola Cina”, ovvero quella rappresentata dalla Repubblica Popolare cinese, sottolineando, dunque, l’opposizione da parte di Pechino a qualsiasi tentativo di indipendenza di Taiwan e, per la prima volta, escludendo di dar corso a qualsiasi rivendicazione indipendentista da parte di Hong Kong.
Dal momento che quest’anno sia diciannovesimo Congresso del Partito Comunista sarà chiamato a rinnovare i vertici della struttura partitica (Comitato Centrale, Politburo e Comitato Permanente del Politburo), l’Assemblea è un’opportunità molto importante per il Presidente Xi Jinping per valutare se ha il sostegno necessario per far approvare nelle prossime elezioni i candidati da lui appoggiati. Avere dei fedelissimi nei quadri del potere è fondamentale per il Presidente cinese che sta cercando di assicurare agli uomini a lui fedeli all’interno del Comitato Permanente del Politburo la possibilità di rimanere in carica per un altro mandato ed estendere così il limite di età (68 anni) fino ad oggi adottato per regolare il rinnovamento della struttura. Prorogando la soglia di pensionamento delle cariche ufficiali, infatti, il Segretario Generale punta sia a garantirsi il prolungamento del proprio mandato presidenziale sia a poter eventualmente confermare all’interno del Comitato Permanente gli uomini a lui fedeli che, secondo la consuetudine, vedrebbero altrimenti scadere il proprio mandato alla fine dell’anno.
Corea del Sud
Il 10 marzo la Corte Costituzionale ha confermato la messa in stato d’accusa per la Presidente sud-coreana Park Guen-hye, eletta nel 2012 in seguito alla vittoria del Partito Conservatore Saenuri. La mozione a favore del processo di destituzione dal potere era stata approvata dal Parlamento il 9 dicembre scorso, in seguito allo scandalo scoppiato a causa del rapporto poco trasparente tra l’ormai ex Presidente e la sua confidente, Choi Soon-sil. A quest’ultima, infatti, l’ormai ex Presidente avrebbe garantito l’accesso ad accesso a importanti dossier confidenziali, tra i quali la posizione sud-coreana sul programma nucleare di Pyongyang, nonché la possibilità di utilizzare la sua influenza sulla presidenza per ottenere dai giganti industriali sudcoreani (chaebols) ingenti somme di denaro da destinare alle proprie fondazioni. Il potere esecutivo nel frattempo, è passato nelle mani del Primo Ministro, Hwang Kyo-ahn.
A seguito della decisione della Corte Costituzionale, la Presidente è, dunque, costretta a lasciare la Casa Blu. Inoltre, non godendo dell’immunità, dovrà rispondere alle accuse di corruzione, estorsione e di abuso di potere a lei intentate. E’ la prima volta dal 1980, anno della fine della dittatura, che a Seoul un leader democraticamente eletto viene esautorato dal potere prima della fine del mandato presidenziale. Ci sono 60 giorni per indire le elezioni, che dovrebbero designare il nuovo leader nei tempi più brevi possibili al fine di scongiurare un’escalation delle proteste, scoppiate a sostegno della Presidente, e contenere il clima di instabilità. L’esito delle elezioni potrebbe essere fortemente influenzato dagli ultimi mesi di crisi. Non è da escludere, infatti, che il disappunto nei confronti del Partito Conservatore possa favorire l’opposizione, il Partito Democratico, il cui principale candidato è Moan Jae-in, ex Primo Ministro e favorevole a un dialogo più disteso con la Corea del Nord. Al contrario, il fronte conservatore non sembra ancora aver individuato un possibile nome da proporre alla prossima tornata elettorale. Uno dei candidati in lizza per il Partito Conservatore è l’attuale Presidente ad interim Hwang, che dovrebbe però dimettersi da ogni incarico ufficiale già nei prossimi giorni per poter proporre la propria candidatura. Tuttavia, il calo dei consensi subito dopo lo scandalo presidenziale, potrebbe convincere i dirigenti del Partito Conservatore a non concorrere per le elezioni, in vista di una probabile sconfitta. Già l’ex Segretario Generale ONU Ban Ki Moon, inizialmente papabile front runner del Saenuri alle prossime elezioni, nelle scorse settimane aveva fatto un passo indietro.
Per la Corea del Sud, un governo stabile è necessario per fronteggiare le urgenze regionali. Oltre alle tensioni con la Corea del Nord e la storica rivalità con il Giappone, Seoul si trova a gestire anche l’inasprimento dei rapporti con la Cina a causa dell’installazione del sistema anti-missilistico statunitense THAAD, a cui Pechino si oppone. Una rinnovata stabilità interna permetterebbe a Seoul di presentarsi come valido interlocutore per gli attori presenti nell’area e scongiurare così di essere marginalizzata nel delicato processo di gestione degli equilibri regionali.
Libia
Nel corso dei giorni 3 e 4 marzo, alcune milizie appartenenti alle Brigate per la Difesa di Bengasi (BDB), milizia jihadista che raggruppa combattenti di diversi movimenti estremisti incluso Ansar al-Sharia e il Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, hanno assunto il controllo dei terminal petroliferi di Ras Lanuf e al-Sidra, nella Mezzaluna petrolifera, lungo il golfo della Sirte. Gli hub erano precedentemente nelle mani dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) del Generale Khalifa Haftar. Le forze legate al governo di Tobruk hanno subito lanciato una controffensiva nel tentativo di riconquistare i pozzi petroliferi, non riportando tuttavia alcun successo.Nel corso dello stesso attacco, le Brigate per la Difesa di Bengasi, hanno preso anche il controllo del principale aeroporto di Ras Lanuf. Mentre il Consiglio Presidenziale di Tripoli, facente capo al Premier internazionalmente riconosciuto Serraj ha inviato sul luogo le Guardie per le Infrastrutture Petrolifere (GIP), guidate da Idris Bukhamada, per rivendicare il controllo dei giacimenti, l’ENL ha iniziato a radunare circa 5000 truppe nei pressi di Brega per lanciare una nuova offensiva finalizzata a riprendere possesso dei nodi infrastrutturali. Già lo scorso settembre 2016, la zona della Mezzaluna petrolifera era stata teatro di diversi scontri che avevano visto da un lato le truppe fedeli ad Haftar e dall’altro le Guardie per le Infrastrutture Petrolifere allora guidate da Ibrahim Jadhran che detenevano il controllo dei terminal petroliferi prima di perderlo a vantaggio dell’Esercito Nazionale Libico. I ripetuti scontri per il controllo degli asset petroliferi del Paese e i conseguenti avvicendamenti fra le diverse fazioni in campo testimoniano da un lato l’elevato grado di instabilità dell’intero scenario libico, di fatto in continua evoluzione, e dall’altro il ruolo strategico che tali risorse rivestono per tutti gli attori in gioco. Infatti, il controllo dei principali hub petroliferi del Paese, al di là del valore propriamente economico, è indice soprattutto dell’influenza e del potere di cui dispongono le diverse fazioni ed è cruciale nel definire i rapporti e gli equilibri tra di esse. Così se negli ultimi mesi si era assistito ad un rafforzamento del ruolo del generale Khalifa Haftar a livello sia nazionale che internazionale, la sconfitta riportata dall’ENL a Ras Lanuf e al-Sidra ne potrebbe segnare un parziale ridimensionamento e aprire nuovi spazi di opportunità per un eventuale, seppur complicato, accordo tra i fronti contrapposti di Tripoli e Tobruk.
Mali
Lo scorso 3 marzo, tre dei principali gruppi jihadisti del Sahel, Ansar al-Din, movimento tuareg guidato da Iyad Ag-Ghali, al-Mourabitoun (le Sentinelle) organizzazione sotto il comando di Mokhtar Belmokhtar e il Fronte di Liberazione del Macina, formazione fulani maliana capitanata da Amadou Kouffa, hanno annunciato la loro fusione in una nuova organizzazione-ombrello denominata “Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen” (Gruppo di Sostegno all’Islam e a tutti i Musulmani, GSIM). Seppur riunite in un’unica sigla, ciascuna entità continuerà a mantenere la propria autonomia, aumentando il coordinamento delle iniziative nella regione. La neonata struttura ha prontamente proclamato il bayat (giuramento di fedeltà ed affiliazione) ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), nominando Ag-Ghali quale proprio leader. Quest’ultima decisione è probabilmente derivata dall’autorevolezza del comandante, figura di spicco del jihadismo regionale nonché personalità di riferimento di Osama bin Laden nel Sahel ed espressione del clan tuareg Ifoghas, originario di Kidal.
La decisione di creare il GSIM potrebbe rappresentare il tentativo delle sigle terroristiche regionali filo-qaediste di razionalizzare i propri sforzi e resistere alla crescente influenza dello Stato Islamico (IS o DAESH). Infatti, quest’ultimo ha gradualmente consolidato le propri posizioni in Africa settentrionale e nel Sahel, costruendo una rete attiva sia il Libia che nel resto della regione. Nel 2015, due importanti figure vicine a Belmokhtar si sono unite allo Stato Islamico. Si tratta di Hamada Ould Kheirou, comandante jihadista mauritano, fondatore e capo del Movimento per l’Unità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO) e Adnan al-Sahrawi, portavoce e co-fondatore insieme a Belmoktar di al-Morabitoun.
La decisione di GSIM di riconoscere l’autorità di AQMI risponde ad una logica di opportunità legata all’impatto propagandistico che il marchio dell’organizzazione di bin Laden e Zawahiri continua ad avere in Africa e rappresenta l’apice del percorso di riconciliazione tra l’emiro Droukdel e Belmokhtar, in rotta dal lontano 2011 a causa di divergenze sulla strategia operativa e sulla leadership del gruppo.
La nascita di GSIM potrebbe condurre, nel prossimo futuro, ad una intensificazione delle attività jihadiste nella regione, a cominciare da possibile atto dimostrativo che funga da inaugurazione del nuovo corso regionale. A questo proposito, oltre ai Paesi tradizionalmente oggetto dell’insorgenza terroristica, quali Mali, Libia, Algeria e Niger, tra i possibili target del GSIM potrebbero rientrare quegli Stati adiacenti alla fascia sahelo-sahariana, come Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio, Benin e Ghana.
Mozambico
Lo scorso 3 marzo, Alfonso Dhlakama, leader del partito di opposizione RENAMO (Resistenza Nazionale Mozambicana,) ha prolungato di due mesi il cessate il fuoco con il governo del Presidente Felipe Nyusi, leader del partito di maggioranza FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico), principale fautore della lotta per l’indipendenza dal Portogallo.
La tregua, stabilita il 27 dicembre scorso, era stata rinnovata già il 3 gennaio e sarebbe dovuta cessare proprio il 3 marzo. La sua estensione ha lo scopo di aprire la strada alla ripresa dei negoziati tra l’opposizione e il governo che potrebbero contribuire, così, alla fine delle tensioni.
Il FRELIMO e il RENAMO hanno combattuto aspramente durante la guerra civile che ha interessato il Paese dal 1975 al 1992. Tuttavia, da allora, le due parti non sono mai riuscite a stabilire una vera collaborazione politica. Al contrario, dal 2013 il RENAMO ha ripreso una diffusa campagna di guerriglia.
Quando nel 2014 il FRELIMO ha vinto le elezioni presidenziali e legislative, il RENAMO non ne ha riconosciuto la validità forte del fatto di aver ottenuto la maggioranza in sei delle dieci province del Paese. Questa contestata vittoria ha esacerbato ancor di più le tensioni tra le parti, nonostante i tentativi di mediazione perpetrati da diverse organizzazioni internazionali, inclusa l’Unione Europea.
Il RENAMO chiede al partito di maggioranza una riforma costituzionale che garantisca una maggiore de-centralizzazione dello Stato e che possa favorire una maggiore distribuzione del potere tra i diversi soggetti politici nazionali. Inoltre, a pesare in maniera determinante sull’insorgenza del RENAMO è il desiderio di attingere ai fondi di cui il Paese disporrà quando avrà consolidato il meccanismo di esportazione delle proprie risorse gasiere, al momento appannaggio soltanto dell’apparato di potere rappresentato dal FRELIMO. Dunque, una possibile soluzione alla perdurante crisi mozambicana potrebbe provenire dall’inclusione delle opposizioni all’interno dei quadri burocratici nazionali e da una più equa distribuzione delle risorse nazionali.
Sud Sudan
Il 6 marzo, l’ex Generale di Corpo d’Armata ed ex Vice-capo di Stato Maggiore della Difesa per la logistica del Sudan People’s Liberation Army (SPLA), Thomas Cirillo Swaka, ha annunciato la formazione del National Salvation Front (NSF), un nuovo gruppo di opposizione al governo del Presidente Salva Kiir.
Il Generale Swaka era stato uno dei tre alti ufficiali che si erano dimessi lo scorso 19 febbraio in seguito alla decisione del Presidente Kiir di concedere l’impunità ai militari per i crimini compiuti durante la guerra civile che attanaglia il Paese dal 2013. Nello specifico, i reati inizialmente ascritti ai soldati riguardavano violenze a sfondo etnico con intento genocidario contro tutte le comunità non-Dinka, l’etnia maggioritaria del Paese.
Infatti, il Generale Swaka, di etnia Nuer, ha accusato il Presidente Kiir di proseguire con le sue politiche pro-Dinka e di discriminare sistematicamente le altre etnie nazionali, a cominciare dai Nuer. Oltre alle rappresaglie a sfondo etnico, chiari esempi di tale strategia sono stati offerti dalla monopolizzazione degli apparati pubblici, sia civili che militari, da parte dei Dinka.
La formazione del nuovo gruppo ribelle potrebbe aggravare la già deficitaria situazione di sicurezza che perdura nel Paese dallo scoppio della guerra civile e che ha provocato una grave crisi umanitaria. Da quattro anni ormai, in Sud Sudan si consuma un conflitto inter-etnico che oppone i Dinka (35% del totale della popolazione), capeggiati dal Presidente Kiir, e i Nuer (16%), prima minoranza nazionale, il cui principale leader politico è Riek Machar, ex Vice-Presidente e attualmente comandante del movimento ribelle Sudan People Liberation Movement in Opposition (SPLM-IO).
Nonostante il compromesso di Pace di agosto 2015 che avrebbe dovuto garantire una maggiore rappresentatività delle varie etnie all’interno dei ranghi politici e militari, le derive autocratiche del Presidente hanno inasprito le tensioni inter-etniche che si sono manifestate di nuovo in maniera violenta nella capitale, Juba, nel luglio scorso.
Oltre alla rivalità Dinka-Nuer, in Sud-Sudan la presenza di più di 60 gruppi etnici ha contribuito alla formazione di innumerevoli milizie tribali ognuna con le proprie velleità territoriali. In questo contesto, le possibili attività della nuova milizia di Swaka potrebbe ulteriormente peggiorare il quadro securitario.