Geopolitical Weekly n.241
Egitto
Nella mattinata di domenica 11 dicembre, l’esplosione di una bomba nella cappella di San Marco, nei pressi della Cattedrale Copta del Cairo, ha provocato circa 25 morti e 50 feriti. Secondo fonti di polizia, un ordigno con circa 12 kg di esplosivo sarebbe stato piazzato all’interno della cappella e programmato per esplodere proprio durante l’orario di maggiore affluenza dei fedeli.
L’attacco è stato rivendicato da Ansar Bait al-Maqdis (“Protettori della Santa Casa”, riferito ai luoghi sacri dell’Islam a Gerusalemme), gruppo jihadista egiziano affiliato allo Stato Islamico (IS o Daesh) e conosciuto anche con il nome di Wilayat Sayna (Provincia del Sinai). La comunità copta è stata tradizionalmente bersaglio degli attentati da parte dei movimenti terroristici e salafiti egiziani, soprattutto dopo l’appoggio che il loro leader spirituale, Papa Tawadros II, ha pubblicamente offerto al governo di al-Sisi.
L’attentato contro la cattedrale copta del Cairo è soltanto l’ultimo episodio della campagna terroristica e di guerriglia lanciata dallo Stato Islamico contro le istituzioni governative e i membri delle minoranze non religiose. La strategia muscolare di al-Sisi, volta sia al contrasto dei fenomeni terroristici sia alla repressione dell’islamismo in tutte le sue forme, ivi inclusa quella rappresentata dalla Fratellanza Musulmana, ha progressivamente contribuito ad esacerbare la polarizzazione della scena politica nazionale, causando un aumento nella diffusione del radicalismo e negli attriti tra i movimenti massimalisti e salafiti nazionali da una parte e le minoranze religiose e il governo centrale dall’altra.
Gambia
Lo scorso 4 dicembre, il Presidente uscente Yahya Jammeh sembrava aver accettato i risultati delle elezioni presidenziali che lo avevano visto soccombere nei confronti del candidato indipendente Adama Barrow, sostenuto da molteplici partiti di opposizione. Tuttavia, il successivo 9 dicembre lo stesso Jammeh ha sorprendentemente annunciato che non riconoscerà il risultato dell’ultima tornata elettorale, a suo dire inficiata da molte irregolarità nelle votazioni. Il Presidente uscente ha aperto alla possibilità di ripetere le elezioni ponendole sotto il controllo di una nuova commissione elettorale indipendente.
L’annuncio di Jammeh ha generato sconcerto fra la popolazione civile, già vessata da precarie condizioni di vita e dalla conduzione fortemente autoritaria e violenta del Capo dello Stato, con il rischio dell’esplosione di manifestazioni di massa o addirittura di una aperta ribellione contro il governo. Dunque, qualora il Presidente uscente non decidesse di abbandonare il suo incarico, sul Paese aleggerebbe l’ombra di una sollevazione popolare contro Jammeh o addirittura di una guerra civile. Al momento, Jammeh appare debole e isolato, soprattutto a causa della sensibile diminuzione del sostegno delle Forze Armate e dell’etnia Mandinka, il maggior gruppo etnico del Paese (30% della popolazione).
Una simile possibilità ha spinto i Paesi dell’ECOWAS (Economic Community of West African States, Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale) ha intraprendere tutte le misure necessarie per una risoluzione pacifica della crisi. In particolare, il Presidente senegalese Macky Sall e quello nigeriano Muhammadu Buhari hanno avviato consultazioni con Jammeh per spingerlo ad un dialogo costruttivo con le opposizioni.
Ghana
Il 9 dicembre 2016 sono stati annunciati i risultati delle elezioni presidenziali, con oltre un mese di ritardo rispetto alla scadenza inizialmente prevista. Il candidato del partito progressista di opposizione NPP (New Patriotic Party, Nuovo Partito Patriottico), Nana Akufo-Addo, è risultato vincitore con il 53% delle preferenze rispetto al 44% del Presidente uscente John Dramani Mahama, supportato dalla formazione conservatrice NDC (National Democratic Congress, Congresso nazional Democratico). Si tratta della prima volta nella storia del Ghana che un Presidente uscente non riesce a ri-confermarsi per il secondo e ultimo mandato.
Le ragioni della sconfitta del Presidente uscente risiedono principalmente nella contrazione della crescita economica del Paese. Il Ghana infatti, nel 2011 ha visto una crescita del PIL pari all’11%, dovuta all’inizio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, mentre negli ultimi anni i tassi si sono ridotti ad appena il 4%. Inoltre, le opposizioni hanno imputato a Mahama una gestione poco accorta degli introiti petroliferi e delle finanze dello Stato. Infatti, nonostante il dinamismo dell’economia ghanese, le autorità di Accra si sono viste costrette a chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale per evitare il default nel 2015.
Il programma di Akufo-Addo ha sfruttato il malcontento popolare e si è concentrato sul miglioramento della rete infrastrutturale nazionale e su un programma di industrializzazione di tutte le provincie. Infatti, secondo il neo-Presidente, il Paese ha bisogno di continuare lungo il percorso di differenziazione economica iniziato oltre 10 anni fa e che ha portato il sistema produttivo nazionale ad essere tra i più complessi e avanzati del Continente Africano.
Nigeria
Venerdì 9 dicembre, due attentatori suicidi hanno fatto esplodere le proprie cinture esplosive in un mercato di Madagali, a circa 150 km a sud-est di Maiduguri, capitale dello Stato nord-orientale del Borno. Il bilancio dell’attentato è di 50 morti e 30 feriti. Anche se non è pervenuta alcuna rivendicazione ufficiale, la responsabilità dell’attacco potrebbe essere facilmente attribuita a Boko Haram (“L’educazione Occidentale è peccaminosa”), principale gruppo jihadista attivo nella regione.
L’attacco di Madagali rappresenta la dimostrazione della persistenza della minaccia jihadista nelle regione settentrionali del Paese e la perdurante pericolosità di Boko Haram, gruppo che, nonostante i notevoli sforzi militari di Abuja e degli Stati della regione del lago Ciad (Camerun, Ciad, Benin, Niger) e la perdita di notevoli porzioni di territorio, continua a portare avanti la propria campagna di insorgenza contro il governo centrale.
In questo senso, il movimento terroristico ha dimostrato una notevole resilienza sia rispetto alla strategia contro-terroristica della Nigeria e dei suoi vicini, che rispetto alle divisioni interne che ne hanno fiaccato le capacità operative e l’unità politica.
Infatti, da circa un anno, Boko Haram vive una feroce faida interna tra la fazione guidata dall’emiro Abubakar Shekau e la fazione sotto il comando di Abu Musab al Barnawi, suo ex luogotenente ed oggi leader designato dal autoproclamato Califfo dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi.
La continuazione delle attività da parte di Boko Haram costituisce un ulteriore motivo di preoccupazione per il Presidente Mohammadu Buhari, già impegnato sia nel contrasto alla rediviva insorgenza nel Delta del Niger che alla gestione del malcontento popolare dovuto alla pesante crisi economica che affligge il Paese.
Siria
Lo scorso 9 dicembre, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto un’importante offensiva che ha permesso la riconquista dell’antica città di Palmira, centro dall’alto valore strategico per via del passaggio dell’arteria stradale M20 che congiunge Homs e Deir Ez-Zhor. La città era caduta nelle mani dello Stato Islamico (IS o Daesh) nel maggio 2015 e riconquistata, grazie al fondamentale appoggio aereo e terrestre russo, nel marzo di quest’anno.
L’azione degli uomini al comando dell’autoproclamato Califfo Al-Baghdadi è stata ben condotta ed organizzata. Infatti, nel corso delle ultime settimane, unità provenienti da Raqqa e Deir Ez-Zhor sono confluite alla periferia di Palmira. Successivamente, approfittando della partenza di unità russe e siriane destinate a combattere sul fronte di Aleppo, i miliziani dell’IS hanno dapprima attaccato i check-point posti lungo la strada tra Palmira e Deir Ez-Zhor ed in seguito i fortini sulle colline che abbracciano il centro abitato. Le stime sul numero di uomini impiegati dallo Stato Islamico varia dalle 1.000 (cifra considerata attendibile) alle 4.000 unità (valore indicato dal Cremlino). Colta di sorpresa, la guarnigione siriana ha dovuto abbandonare la città, perdendo tra i 50 e 200 soldati in ritirata verso l’aeroporto di Tiyas, 50 km ad ovest.
La controffensiva russa non si è fatta attendere e nella giornata successiva alcuni bombardieri Tu-22 ed elicotteri d’attacco hanno bombardato i mezzi e le postazioni dell’IS distruggendo, secondo Mosca, 11 carri armati e 31 veicoli pesanti ed eliminando 300 miliziani. I velivoli del Cremlino hanno permesso di frenare temporaneamente l’avanzata dello Stato Islamico all’interno del complesso cittadino, permettendo ai soldati di Assad di procedere ad una ritirata strategica per l’aeroporto di Tiyas.
La presa di Palmira potrebbe essere interpretata come dimostrazione della capacità di Daesh di sfruttare al meglio circostanze temporaneamente favorevoli sul campo. Vista la concentrazione di forze lealiste su Aleppo, le milizie dello Stato Islamico avrebbero deciso di riprendere il controllo su una città simbolo del conflitto siriano. Tale vantaggio potrebbe facilmente dissolversi visti i risultati sul campo delle forze governative nel nord del Paese che, in questi ultimi giorni, sono vicine a sconfiggere le milizie ribelli capeggiate da Jabhat Fateh al-Sham (Al-Nusra) nella città di Aleppo.
Come sottolineato in precedenza, Palmira mantiene una notevole importanza strategica data dal passaggio dell’autostrada M20 che collega Homs con Deir Ez-Zhor, città quest’ultima in cui è assediata un’importante guarnigione governativa che riceve rifornimenti solo mediante via aerea e per la quale l’apertura di una linea di supporto terrestre potrebbe essere decisiva per la riconquista dell’intero centro abitato.
Somalia
Domenica 11 dicembre, un attentatore suicida ha fatto esplodere il suo minivan imbottivo di esplosivo contro il checkpoint della Polizia all’ingresso del porto di Mogadiscio. L’esplosione ha causato circa 30 morti e una cinquantina di feriti.
L’attacco è stato rivendicato da al-Shabaab, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda, che ha pubblicamente dichiarato di aver voluto colpire i poliziotti somali addestrati per garantire la sicurezza nelle elezioni Presidenziali del prossimo 28 dicembre.
L’insorgenza di al-Shabaab ha, infatti, fra i suoi obiettivi la cacciata delle truppe dell’Unione Africana (UA) dal Paese e il rovesciamento dell’attuale governo sostenuto dalla Comunità Internazionale.
Nonostante al-Shaabab fosse stato sostanzialmente eliminato dalla regione di Mogadiscio da oltre un anno, da quando sono state indette le elezioni presidenziali il gruppo terroristico ha ricominciato a colpire con durezza la capitale con l’intento di disturbare e, quando possibile, impedire il processo elettorale.
La recrudescenza degli attacchi nella capitale potrebbe essere dovuta agli aiuti economici e logistici che il gruppo terroristico potrebbe aver ricevuto da alcuni clan e signori della guerra locali decisi a destabilizzare il Paese e danneggiare il Presidente uscente Sheik Hassan Mohammud e il Primo Ministro Abdiweli Sheikh Ahmed, entrambi candidati al vertice dello Stato. Su Mohammud e Ahmed, espressione della diaspora somala, sono accusati di non tutelare gli interessi della popolazione locale e di non essere riusciti a dialogare in maniera costruttiva con i clan attivi sul territorio.
In un clima di crescente tensione, un attacco di al-Shabaab alla vigilia del voto metterebbe a rischio l’intero processo elettorale, con i parlamentari che potrebbero essere oggetto di violenze e attentati per impedirgli portare a termine il proprio compito.
I miliziani, che considerano illegittimo l’attuale governo somalo, potrebbero quindi approfittare del caos generato dallo stallo politico per riguadagnare il controllo di nuove porzioni di territorio, vanificando gli sforzi dell’ultimo anno delle truppe dell’Unione Africana.
Turchia
Nella notte di sabato 10 dicembre, un duplice attentato ha colpito le Forze di Polizia e la popolazione civile nella capitale Istanbul, causando complessivamente 46 morti e 170 feriti. Nello specifico, un’autobomba è esplosa nei pressi dell’ingresso della Vodafone Arena, stadio di calcio nel quartiere Besiktas, prendendo di mira le unità anti-sommossa della Polizia. A distanza di pochi minuti, un attentatore suicida ha fatto esplodere la propria cintura esplosiva contro una seconda pattuglia di Polizia nel vicino Parco Macka.
Entrambi gli attacchi sono stati rivendicati dal TAK (Teyrêbazên Azadiya Kurdistan, Falchi per la Libertà del Kurdistan) formazione terrorista afferente all’estrema destra curda e già responsabile di numerose azioni simili nel corso dell’ultimo biennio.
L’attentato perpetrato dal TAK costituisce soltanto l’ultimo episodio del violento conflitto tra i movimenti terroristici ed insurrezionali curdi e le autorità turche guidate dal Presidente Erdogan. A partire dal luglio 2015, dopo la rinuncia al negoziato politico con il governo, la galassia eversiva curda ha ripreso massicciamente la propria campagna terroristica e di guerriglia, accusando Ankara di discriminazione e repressione nei confronti delle istanze politiche curde.
In risposta agli attentati, il governo ha lanciato una vasta operazione di polizia che ha portato all’arresto di numerosi attivisti dei diritti umani e di membri del partito curdo HDP (Halklarin Demokratik Partisi, Partito Democratico Popolare), accusati di connivenza con gli ambienti terroristici. Tuttavia, l’HDP si è sempre discostato dai movimenti terroristici, denunciando pubblicamente ogni forma di violenza o lotta politica condotta con strumenti militari.
La politica repressiva adottata da Erdogan nei confronti di tutti i movimenti curdi ha spinto le opposizioni ad accusare il Presidente di utilizzare la minaccia terroristica e la tensione popolare per giustificare l’adozione di misure draconiane e anti-liberali. Inoltre, l’improvvisa crescita capacitiva del TAK, gruppo che, fino al 2015, non era mai riuscito a compiere azioni di notevole entità, ha fatto nascere il sospetto, negli ambienti anti-erdoganisti, che i servizi segreti nazionali possano aver facilitato le attività dei movimenti eversivi curdi allo scopo di destabilizzare il Paese e creare un clima politico e sociale propenso all’accentramento dei poteri nelle mani del Presidente.