Geopolitical Weekly n.135

Geopolitical Weekly n.135

By Andrea Tolfa and Stefano Sarsale
01.23.2014

Sommario: Repubblica Centrafricana, Siria, Sud Sudan, Ucraina

Repubblica Centrafricana

Lunedì scorso Catherine Samba-Panza, ex sindaco della capitale Bangui, è stata nominata Presidente della Repubblica Centrafricana dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). La neo-Presidente si troverà di fronte al difficile compito di ristabilire l’ordine dopo le violenze scoppiate nei giorni scorsi tra le milizie cristiane e musulmane. Una situazione di instabilità aggravatasi, due settimane fa, dopo le dimissioni dell’ex Presidente Michel Djotodia, salito al potere nel marzo del 2013 a seguito di un colpo di Stato. Djotodia aveva infatti perso l’appoggio di buona parte dell’eterogeneo fronte dei ribelli Seleka a causa delle proprie politiche personalistiche e autoritarie.

Ad aggravare ulteriormente la crisi, potrebbe essere il temporaneo arresto del flusso degli aiuti umanitari: a causa infatti dell’insicurezza che ormai dilaga in tutto il Paese, 38 camion con aiuti umanitari sono da giorni fermi alla frontiera col Camerun. Una sospensione prolungata nella distribuzione di cibo potrebbe causare ulteriori tensioni, specialmente tra i 100 mila sfollati del campo profughi allestito presso l’aeroporto di Bangui.

La nomina del nuovo Presidente suscita un cauto ottimismo. Samba-Panza gode infatti di ampie fasce della popolazione ed è stata inoltre salutata con favore dalla Francia, attore di assoluto rilievo nello scenario centrafricano. Basti ricordare che 1600 peacekeeper francesi siano dispiegati nell’area a partire dal dicembre scorso, nel quadro della missione delle Nazioni Unite MISCA.

Siria

Si sono aperti la mattina del 22 gennaio i lavori della Conferenza internazionale di pace sulla Siria - Ginevra 2 – volto a instaurare un dialogo diretto fra i ribelli siriani e i rappresentanti del regime di Bashar al-Assad. Punto centrale resta il ruolo del Presidente siriano nel futuro assetto istituzionale del Paese, questione sulla quale continua a non registrarsi un accordo tra le parti.

I margini per una soluzione negoziale al conflitto, che dura ormai da 3 anni e che ha causato più di 100.000 morti, restano in ogni caso assai stretti. Ginevra 2 vede infatti l’assenza di molti attori – da un lato le numerose milizie islamiste e i gruppi curdi attivi nel teatro siriano, dall’altro potenze regionali, quali l’Iran, profondamente coinvolte nel conflitto – il cui ruolo nella crisi siriana appare assolutamente centrale.

Altro fattore che rischia di ridurre ulteriormente le possibilità di una soluzione diplomatica è rappresentato dalla forza negoziale del regime di Assad. Nell’ultimo anno, le forze governative siriane sono infatti riuscite a invertire il trend del conflitto e riconquistare punti strategici di notevole importanza per la tenuta del regime. Ciò rende Damasco assai meno propensa a eventuali compromessi di quanto non fosse in passato.

Sud Sudan

Il Sud Sudan sta nuovamente attraversando un periodo di violenze. Questa volta gli scontri non sono con il vicino Sudan, da cui si è ufficialmente separato il 9 luglio 2011, ma si stanno verificando all’interno dei confini nazionali tra forze governative fedeli al Presidente Salva Kiir e truppe di ribelli guidate dall’ex Vice Presidente Riek Machar. La causa all’origine degli scontri armati, che vanno avanti da più di un mese, è stata la decisione del Presidente Kiir, presa lo scorso luglio, di escludere dal governo il suo numero due (Machar occupava quella carica sin dall’indipendenza del Sud Sudan).

Nel mese di dicembre alcune truppe dell’esercito sud sudanese che avevano deciso di seguire Machar hanno tentato di rovesciare il governo in carica con un assalto armato alla capitale Juba. L’esercito governativo è riuscito a respingere gli insorti, ma le violenze non si sono affatto placate. Anzi, si sono presto propagate al resto del Paese e sono rapidamente cresciute di intensità. Questo perché lo scontro, alla cui base vertevano ragioni politiche, ha presto assunto i contorni di una guerra interetnica. Tale evoluzione è stata favorita dal fatto che il Presidente Kiir e Machar appartengono a due diverse etnie. Il primo è di etnia Dinka, maggioritaria nel Paese, mentre il secondo è Neur.

I bilanci degli scontri hanno già fatto segnare circa 400 mila sfollati e migliaia di morti. Una delle regioni più colpite è quella del Jonglei, dove i soldati dell’esercito regolare hanno da pochi giorni riconquistato la città di Bor, caduta in mano ai ribelli tempo prima.

Ad Addis Abeba l’Unione Africana sta portando avanti i negoziati per giungere ad un accordo di pace tra le parti, mentre l’ONU ha rinforzato il suo contingente sul posto che ora conta circa 15 mila unità. Tuttavia, la sensazione è che la presenza di ingenti risorse petrolifere nell’area possa finire col complicare ulteriormente il conflitto.

Ucraina

Nell’ultima settimana sono notevolmente cresciuti di intensità gli scontri in Ucraina. Le ultime cronache hanno riportato la morte di cinque manifestanti negli scontri con la polizia avvenuti in Piazza Indipendenza, a Kiev. Quattro di questi sarebbe deceduti per colpi d’arma da fuoco.

Bersaglio delle proteste è il Presidente Yanukovych, che lo scorso novembre ha deciso di bloccare l’accordo di associazione con l’Unione Europea. Le fazioni filo-europeiste, guidate nella protesta dai leader dei partiti di opposizione, hanno interpretato questa mossa del Presidente come un disegno per tutelare gli interessi degli oligarchi legati a doppio filo all’elite politica russa, a discapito della volontà popolare che invoca ulteriori passi verso il modello europeo. Ben nota è l’importanza strategica che l’Ucraina, terreno di transito per il gas russo diretto verso l’Europa, riveste per Mosca.

Inizialmente, le proteste avevano avuto carattere pacifico. A scatenare scontri violenti, la scorsa settimana, è stata l’approvazione di una legge, subito bollata come anti-democratica da Unione Europea e Stati Uniti, che prevede, tra le altre cose, l’arresto per chi si copre il volto con caschi o fazzoletti e che vieta di erigere barricate, di entrare in massa in luoghi pubblici, di allestire tende o palchi. Una norma, dunque, chiaramente orientata a soffocare le manifestazioni in corso, ma che ha avuto il solo effetto di far precipitare la situazione e aprire la strada all’uso delle armi.

Ieri si sono svolti i colloqui tra i leader dell’opposizione e il Presidente Yanukovych per giungere ad un compromesso che fermi le violenze. Ma sembra che il governo, forte anche dell’appoggio di Mosca, non intenda scendere a patti e proseguire sulla strada della repressione senza mezzi termini.

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