Geopolitical Weekly n. 335

Geopolitical Weekly n. 335

By Simone Acquaviva and Melania Malomo
09.12.2019

Russia: il partito “Russia Unita” crolla alle municipali

Nella giornata dell’8 settembre, i cittadini russi sono stati chiamati alle urne per il rinnovo dei consigli locali, in particolare per la Duma della capitale Mosca. Le elezioni si sono svolte in un clima di tensione a seguito dell’ondata di proteste che da metà luglio ha visto la popolazione civile scagliarsi contro la decisione della Commissione Elettorale Centrale di impedire la candidatura a 30 tra candidati indipendenti e appartenenti all’opposizione, accusati di aver falsificato le firme dei loro sostenitori, necessarie per partecipare alla competizione elettorale.

Dopo otto settimane di proteste antigovernative duramente represse dalle forze di polizia locali, cui hanno fatto seguito numerosi arresti, uno dei leader dell’opposizione, Alexei Navalny, ha lanciato la strategia del cosiddetto “voto intelligente”, pensata per superare il monopolio politico di Russia Unita, partito di governo e filo-putinista. Tale strategia consiste nello spingere gli elettori a votare il candidato con più probabilità di sconfiggere il candidato di Russia Unita o, quanto meno, di arrivare al ballottaggio con esso.

I risultati elettorali hanno visto Russia Unita perdere un terzo dei seggi, pur mantenendo la maggioranza nella Duma moscovita (25 su 45), mentre il Partito Comunista, movimento di opposizione “sistemica” ha conquistato 13 seggi Altri partiti minori come “A Just Russia” e il partito liberale “Yabloko” hanno ricevuto rispettivamente 3 e 4 seggi.

I risultati elettorali devono essere letti anche alla luce del calo di popolarità recentemente accusato dal primo partito russo. Dopo il picco di consensi raggiunto in seguito all’invasione e annessione della Crimea nel 2014, le principali cause dello storico declino di consensi sono da ricercarsi nelle accuse di corruzione imputate al partito, oltre che alle modalità utilizzate per reprimere le proteste e all’introduzione una riforma pensionistica impopolare, aggravata da una situazione economica stagnante, caratterizzata da una crescita del PIL al di poco sopra lo 0,5%.

Tali elezioni hanno palesato la crescente distanza esistente tra le istituzioni politiche e le reali esigenze dei cittadini e lavoratori russi che, nel tempo, si sono identificati nel Presidente Putin. Perciò, il risultato delle elezioni rappresenta una sconfitta personale per il leader del Cremlino, la cui popolarità, pur rimanendo continuamente supportata attraverso i media di Stato, è minata da richieste di maggiori libertà politiche e civili. D’altronde, impedendo una reale competizione politica, la già magra vittoria del partito “Russia Unita” si configura come un successo fragile che, se non seguito da un processo di profonda riforma nazionale e dialogo con la società civile potrebbe aumentare il malcontento popolare nel Paese.

Siria: Turchia e Stati Uniti iniziano pattugliamenti congiunti nel nord-est

Domenica 8 settembre, truppe turche e statunitensi hanno dato il via ai primi pattugliamenti congiunti con l’obiettivo di stabilire una zona cuscinetto nei pressi del confine turco-siriano, tra le città di Akçakale (Turchia) e Tel Abyad (Siria), in un’area attualmente controllata da forze curde. L’operazione è il risultato di accordi pattuiti lo scorso agosto, a seguito di lunghi negoziati tra i due alleati NATO, spesso interrotti per via delle divergenze sul conflitto che sta devastando la Siria da 8 anni.

Il raggiungimento dell’accordo va letto sullo sfondo della necessità, per gli Stati Uniti, di bilanciare i rapporti con Ankara e con le autorità curde siriane, la cui aspra rivalità negli ultimi anni ha costantemente costretto Washington ad una difficile opera di mediazione e di allentamento delle tensioni.

Infatti, dal punto di vista della Casa Bianca, l’azione congiunta può essere spiegata dalla volontà di prevenire azioni unilaterali da parte di Ankara, dimostratasi capace di lanciare operazioni militari contro le postazioni del YPG (le milizie curde che controllano gran parte del territorio siriano a ridosso del confine turco), e decisa a neutralizzare quella che continua ad essere percepita come la principale minaccia alla sicurezza nazionale turca. L’accordo può inoltre essere letto come un tentativo di rivitalizzare il difficile rapporto tra i due membri dell’Alleanza Atlantica, che ha recentemente vissuto un periodo particolarmente turbolento a causa, tra gli altri motivi, della querelle sull’acquisto turco dell’S-400 russo e la conseguente esclusione di Ankara dalla partita degli F-35.

Per Ankara, la zona di sicurezza rappresenterebbe una soluzione a due problematiche pressanti. In primis, un’area sotto controllo turco taglierebbe le linee di comunicazione inter-curde tra lo YPG e il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, che si batte per l’indipendenza del Kurdistan turco ed è considerata associazione terroristica da Ankara. Tale zona cuscinetto potrebbe inoltre accogliere parte dell’ingente flusso migratorio (più di 3,5 milioni di persone) provenienti dalla Siria attualmente presenti in Turchia. In un momento in cui la spinta migratoria sta creando forti malumori nell’elettorato, una parziale soluzione potrebbe giovare al Presidente turco Recep Tayyip ErdoÄŸan, ancora stordito dalle recenti sconfitte alle amministrative e da un appannamento della sua leadership.

Ad ogni modo, al di là delle prime simboliche operazioni, vige ancora una totale incertezza sull’effettiva portata dell’operazione. I primi pattugliamenti hanno avuto luogo in una zona circoscritta e solo dopo che le incessanti pressioni di Washington sono riuscite a fare breccia nella leadership curdo-siriana. Non è possibile escludere un diverso atteggiamento curdo se l’area interessata dai pattugliamenti dovesse estendersi ulteriormente. A certificare quanto la partita possa considerarsi tutt’altro che chiusa si aggiunge l’atteggiamento di Ankara, che per voce del Ministro degli Esteri, Mevlüt ÇavuÅŸoÄŸlu, si è dichiarata insoddisfatta ed ha accusato gli Stati Uniti di aver compiuto solo passi cosmetici, con l’obiettivo di rinforzare la cooperazione con i curdi piuttosto che collaborare con Ankara.

Sudan: entra in carica il primo governo post al-Bashir

Il nuovo governo di Khartum ha prestato giuramento lo scorso 8 settembre, a circa 5 mesi dalla deposizione dell’ex Presidente Omar al-Bashir, a capo del Paese durante lo scorso trentennio.

La composizione del gabinetto era stata svelata dal primo ministro incaricato Abdallah Hamdok, economista ed ex funzionario d’alto rango delle Nazioni Unite, lo scorso 5 settembre. Tra i 18 ministri presenti anche 4 donne, tra le quali spicca il nome del responsabile agli esteri Asma Mohamed Abdallah, diplomatica di lungo corso nell’era pre-al-Bashir. Tra i compiti più ardui del nuovo esecutivo vi è quello di rivitalizzare l’economia del Paese. A tal proposito giocherà un ruolo fondamentale la credibilità e il prestigio del nuovo Ministro delle Finanze Ibrahim Elbadawi, economista con ventennale esperienza alla Banca Mondiale.

L’esecutivo di Hamdok è frutto di un laborioso compromesso tra Forze Armate, autentica eminenza grigia della politica sudanese, e società civile. I militari, spodestato sl-Bashir lo scorso aprile, hanno ritardato la formazione di un governo civile e tutt’ora mantengono la guida del Consiglio Sovrano, organo al vertice del sistema istituzionale creato per guidare il periodo di transizione alla piena democrazia. Il Consiglio, in carica per i prossimi 36 mesi, ha il compito di supervisionare l’operato dell’esecutivo e dell’assemblea legislativa.

La presenza di personalità con esperienza nelle Organizzazioni Internazionali è funzionale a trasmettere un messaggio di forte discontinuità dalla precedente amministrazione, accusata di autoritarismo, finanziamento del terrorismo internazionale e crimini di guerra nella regione del Darfour. Di primaria importanza sarà propio la rimozione del Paese dalla lista degli sponsor del terrorismo della Casa Bianca, così come il reperimento di aiuti internazionali e finanziamenti esteri.

Gli sforzi per la ricostruzione economica e la pacificazione sociale passano per la risoluzione di profondi conflitti tribali interni al Paese. Segnale positivo è il raggiungimento di un accordo tra il governo e le tribù Beni Amer e Nuba, siglato a Port Sudan lo scorso 8 settembre. Il compromesso, la cui tenuta risulta incerta a causa della tradizionale bellicosità delle tribù, è stato concluso sotto l’egida del generale Mohamed Hamdan Dagalo. Quest’ultimo, alias “Hemeti”, è a capo delle Forze di Rapido Supporto (RSF), unità paramilitare cardine del potere di al-Bashir e tuttora attore determinante per l’ordine pubblico nazionale e la pacificazione delle remote aree rurali.

La forte influenza degli apparati militari lascia intendere che il cammino verso la piena democratizzazione sia piuttosto tortuoso ed incerto. Infatti, nonostante l’accordo sulla formazione del governo rappresenti un significativo passo in avanti per la stabilizzazione nazionale, i rapporti tra società civile e Forze Armate restano tesi, soprattutto a causa della reticenza dei militari a cedere completamente il potere accumulato negli anni del regime di al-Bashir.

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