Geopolitical Weekly n.318

Geopolitical Weekly n.318

Di Francesco Barbaro, Andrea Cerasuolo e Gloria Piedinovi
14.02.2019

Algeria

Il 10 febbraio, ad Algeri, l’agenzia stampa APS ha diffuso un comunicato che, in vista delle prossime elezioni presidenziali previste per il 18 aprile, ufficializza la ricandidatura di Abdelaziz Bouteflika. Questi, Presidente della Repubblica algerina dal 1999, si appresterebbe così al suo quinto mandato consecutivo. La candidatura di Bouteflika è stata avanzata nonostante il Presidente abbia ormai 82 anni e, almeno dal 2005, combatta contro gravi problemi di salute, ulteriormente aggravatisi dal 2012. Costretto da allora a spostarsi su una sedia a rotelle, compare ormai raramente in pubblico, anche per via delle sue difficoltà nel parlare.

Ciò nonostante, l’indicazione di Bouteflika lo rende, di fatto, Presidente in pectore e candidato favorito alle elezioni. Infatti, come di consueto, la candidatura è il risultato di un accordo tra le diverse componenti del sistema di potere algerino, il cosiddetto pouvoir, che regge il Paese fin dall’indipendenza nel 1962. Si tratta di un sistema fluido e tripartito, che comprende una componente politica, rappresentata dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), da una militare espressa dalle Forze Armate e attualmente guidata dal Generale Ahmed Gaid Salah, e da una componente securitaria, i servizi di intelligence, che tuttavia dopo la riforma del 2015 ha uno spazio d’azione più limitato. Il fatto che la scelta sia ricaduta di nuovo su Bouteflika, anziano e malato, sembra indicare che queste tre componenti non siano riuscite a raggiungere un’intesa sulla sua successione, spingendoli a prolungare lo status quo.

Va sottolineato che si tratta di una scelta con un elevato profilo di rischio. Infatti, nel caso il vecchio Presidente morisse improvvisamente, l’establishment algerino dovrebbe indicare un suo successore. Ciò potrebbe far emergere, in modo anche turbolento, quelle tensioni tra le componenti del pouvoir finora tenute a freno soltanto dalla figura di Bouteflika. Eventuali vuoti di potere, inoltre, potrebbero consentire alla popolazione di ribadire le richieste di riforma di un sistema politico la cui conservazione è stato, finora, l’unico punto d’incontro tra le fazioni rivali.

Iran

Il 13 febbraio è stato compiuto un attentato suicida contro un pullman di Pasdaran (Guardie della Rivoluzione), corpo militare iraniano istituito dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. L’attacco è avvenuto nella provincia del Sistan-Balochistan, nel sud-est dell’Iran, lungo la strada che collega le città di Zahedan e Khash, vicino al confine con il Pakistan. I Pasdaran stavano tornando da un’operazione di pattugliamento della frontiera, quando un’autobomba è esplosa accanto al pullman provocando almeno 27 morti e numerosi feriti. L’attentato è stato rivendicato dal gruppo Jaish al-Adl (Esercito della Salvezza), formazione di militanti sunniti appartenenti alla minoranza etnica balocha, formato nel 2012 da ex militanti di Jundullah (I soldati di Dio), gruppo affiliato all’organizzazione Al Qaeda.

L’attentato del 13 febbraio è l’ultimo di una lunga serie di attacchi terroristici avvenuti nella provincia del Sistan-Balochistan, un’area tra le più turbolente dell’Iran a causa dei traffici di droga e della presenza di gruppi separatisti e di ispirazione radicale. L’attacco si inserisce, infatti, nell’alveo della diatriba tra l’insorgenza armata dei gruppi separatisti balochi, minoranza sunnita stanziata tra l’Iran orientale e le zone meridionali di Afghanistan e Pakistan, e la Repubblica Islamica.

In un momento nel quale l’Iran deve fare i conti con difficoltà interne – la crisi economica e le divisioni tra i conservatori e i riformisti – ed internazionali – primo fra tutti, le ostilità con Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele –, l’attentato ai Pasdaran fa riemergere con prepotenza le problematiche legate alla sicurezza interna. Ciò potrebbe avere un forte impatto sul sostegno dell’opinione pubblica al governo guidato da Hassan Rouhani, andando a minare ulteriormente le tensioni politiche che stanno attraversando la Repubblica Islamica d’Iran.

Nigeria

Il prossimo 16 febbraio si terranno lo consultazioni popolari per l’elezione del Presidente della Repubblica e dell’Assemblea Nazionale. Benché siano 91 le formazioni politiche che prenderanno parte alla contesa elettorale, sono solo due le quelle che possono realisticamente ambire alla vittoria: il Congresso di Tutti i Progressisti (APC), guidato dall’attuale Presidente Muhammadu Buhari, e il Partito Democratico del Popolo (PDP), capeggiato dall’ex Primo Ministro e imprenditore Atiku Abubakar.

Buhari e Abubakar sono entrambi originari degli Stati federali settentrionali a maggioranza musulmana e appartenenti all’etnia Fulani, che rappresenta circa il 29% della popolazione. Entrambi hanno scelto come candidati alla vice-presidenza politici originari delle regioni meridionali a maggioranza cristiana del Paese, secondo la prassi consolidata. Il Presidente Buhari si accompagnerà di nuovo al suo vice Yemi Osinbajo, di etnia Yoruba, la seconda più numerosa nel Paese, mentre lo sfidante Abubakar ha scelto Peter Obi, appartenente agli Igbo, gruppo etnico a cui appartiene il 18% dei nigeriani.

I sondaggi più recenti indicano che sussiste un’alta volatilità elettorale e che l’eventuale vittoria di uno dei due contendenti potrebbe avvenire con margine di voti molto ridotto rispetto all’avversario. In ogni caso, il vincitore dovrà affrontare le molteplici sfide economiche, politiche e securitarie che attanagliano il Paese più popolo del continente africano.

Il Presidente Buhari ha concentrato la propria campagna elettorale difendendo il proprio operato, puntando sulla lotta alla corruzione, sulla neutralizzazione del gruppo jihadista Boko Haram e sulla cessazione del conflitto tra pastori semi-nomadi e agricoltori nella fascia centrale del Paese. Abubakar, invece, forte del suo passato da imprenditore, ha deciso di insistere sul tema dello sviluppo economico, dichiarando di voler invertire il trend negativo in cui è scivolato il Paese. Infatti, il PIL della Nigeria è calato di quasi il 34% dal 2014 al 2017, influenzato dal crollo del prezzo del petrolio e dalla vulnerabilità strutturale del sistema produttivo nazionale, basato quasi esclusivamente sull’esportazione di materie prime.

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