Tensioni in Libano: nuovo sviluppo nella crisi Israele-Iran
Mentre sfumano, ancora una volta, le possibilità che Israele e Hamas trovino un’intesa minima su una tregua armata di sei settimane nelle ultime trattative in corso al Cairo, si assiste con crescente preoccupazione alla tensione incalzante in Cisgiordania e al confine con il Libano. Specie in quest’ultimo scenario, si intravede una situazione sempre più complessa e aggravata dai continui raid transfrontalieri tra le milizie di Hezbollah e le Israeli Defence Forces (IDF), nonché dalle dichiarazioni assertive rilanciate dalle istituzioni politiche e militari israeliane circa una possibile offensiva militare di terra lungo il confine settentrionale con il Libano entro la metà del mese di giugno. Un’azione, come annunciata dal Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, che si renderebbe necessaria qualora Hezbollah continuasse ad attaccare i villaggi di frontiera israeliani, portando le IDF a penetrare in profondità nel sud del Paese dei Cedri con il chiaro obiettivo di restaurare la sicurezza di Tel Aviv e respingere la minaccia portata dalla milizia sciita respingendola a nord del fiume Litani. Di converso, Naim Qassem, un alto comandante tra le fila di Hezbollah, ha espresso il rinnovato sostegno dell’organizzazione ad Hamas e il supporto operativo del Libano come secondo fronte della guerra regionale contro Israele.
Nonostante le ultime dichiarazioni, la dinamica non deve stupire né essere sopravvalutata in quanto da mesi si assiste all’ uso di narrazioni veementi, assertive e fortemente retoriche da ambo i lati. Un processo che mirava a preservare entrambi i fronti da un coinvolgimento diretto e/o dall’apertura di un nuovo fronte di conflitto attraverso un uso strumentale della minaccia della guerra. Ora, però, questa situazione sembra essere mutata, con Israele interessato a chiudere in conti con Hamas a Rafah e nella Striscia di Gaza, riposizionare attenzioni e focus militare verso il Libano e rispondere alle pressioni domestiche provenienti dai numerosi sfollati (circa 60.000 persone evacuate dal confine settentrionale). Da parte sua,il governo di Beirut e, soprattutto, Hezbollah, pur avendo più volte espresso la loro contrarietà ad una guerra contro Israele,hanno interesse a tenere elevato il livello di scontro, seppur entro un range accettabile/controllabile. Infatti, nella prospettiva dell’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah aumentare il numero degli attacchi oltre la Blue Line consente a Hezbollah di congelare il ritorno dei civili israeliani a tempo indeterminato e di danneggiare anche l’economia del Paese, essendo quelle aree tra le più fertili e importanti dal punto di vista agricolo. Al contempo, un attacco delle IDF verso il sud del Libano cambierebbe totalmente lo scenario e la dinamica delle tensioni oggi in corso nell’intero Medio Oriente, con Hezbollah intenzionata a mutare le sue posizioni “attendiste” in favore di un’esigenza di compiere il primo passo per anticipare e disorientare Israele.
In uno scenario radicalmente trasformato, l’allargamento del conflitto da Gaza a Libano, da un lato, permetterebbe a Tel Aviv di degradare le capacità operative di Hezbollah, dall’altro, distoglierebbe le attenzioni (e le critiche) internazionali nei suoi confronti dovute in parte alle operazioni in corso nell’enclave palestinese. A mutare non sarebbe solo lo spazio geografico-politico-militare del confronto, ma cambierebbe anche e soprattutto la ratio della strategia israeliana nella regione. Così come, non è da sottovalutare l’impatto potenziale che un conflitto di questo tipo potrebbe avere in Libano, un Paese alle prese con la peggiore crisi sistemica (politico-economico-sociale-istituzionale) dalla fine della guerra civile del 1990. In altre parole, la dinamica escalatoria instaurata rischia di dare definitivamente forma alla guerra ombra in corso da oltre un decennio in Medio Oriente tra Tel Aviv e Teheran, con tutte le conseguenze del caso sul piano regionale e internazionale.
In un certo senso, lo scambio di rappresaglie tra Israele e Iran del mese di aprile potrebbe essere stato soltanto un primo passo verso la definizione di questo nuovo scenario di confronto regionale che potrebbe vedere nel Libano e nelle operazioni contro Hezbollah il mutato obiettivo strategico israeliano in Medio Oriente. Allo stesso tempo, però, questa azione potrebbe esporre Israele a cadere in una nuova trappola strategica e comunicativa sulla falsa riga di quanto avvenuto a Gaza. Un eventuale attacco delle IDF oltre confine darebbe ad Hezbollah la patente percettiva, a livello regionale e internazionale, di vittima e aggredito.
Un siffatto scenario favorirebbe una maggiore coesione domestica e una più compatta reazione su entrambi i fronti. In quel caso, il confronto diretto di Hezbollah con Israele sarebbe inevitabile e riceverebbe il pieno sostegno delle milizie sciite filo-iraniane presenti in Siria e Iraq, con la possibilità per Hezbollah (con un supporto indiretto di Teheran) di infiltrare e destabilizzare Giordania e West Bank, già alle prese con situazioni di sicurezza estremamente difficili. In questo modo, e in maniera inevitabile, l’Iran sarebbe chiamato a dover prestare soccorso al proxy alleato contro Israele e gli Stati Uniti, definendo quindi quello scenario catastrofico che invece tutti vorrebbero – almeno nominalmente – rifuggire. Dall’altro lato del confine, uno sviluppo del genere potrebbe aiutare il governo israeliano a ricompattare il suo fronte interno – sebbene rimarrebbero forti le fratture – e, presumibilmente, anche quello esterno, nonostante gli alleati occidentali abbiamo mostrato insoddisfazione nei confronti della condotta del partner nella campagna militare (e reputazionale) lanciata a Gaza e in Cisgiordania.
Un’operazione di questo tipo contro Hezbollah, infatti, potrebbe approfondire le differenze notevoli emerse tra Tel Aviv e Washington, come testimoniato anche dalle dichiarazioni critiche del Presidente Joe Biden nei confronti di Benjamin Netanyahu circa un tentativo di quest’ultimo di voler prolungare la guerra a Gaza per motivazioni politiche. Una diatriba pubblica severa e critica ormai consolidata da mesi, con Israele che persegue una sua linea politica in opposizione alle pressioni statunitensi e con la Casa Bianca non interessata a farsi coinvolgere in una guerra regionale contro l’Iran – peraltro come dimostrato manifestatamente nelle rappresaglie incrociate dello scorso aprile tra Teheran e Tel Aviv –, specie in un anno elettorale scomodo come quello a cui va incontro l’attuale Amministrazione Biden. Una guerra decisamente più pericolosa di quella di Gaza, nella quale gli USA rischierebbero di trovarsi impantanati e maggiormente coinvolti contro un nemico come Hezbollah decisamente peggiore di Hamas, con una capacità militare offensiva superiore (in virtù di una disponibilità di 150.000 missilistica in grado di colpire Tel Aviv e altri luoghi critici israeliani, come la città portuale di Haifa) e un’esperienza consolidata dagli anni di guerra combattuti in difesa del regime di Bashar al-Assad in Siria.
Pertanto, uno scontro su vasta scala tra Israele e Hezbollah contribuirebbe a definire una conflagrazione regionale, ma avrebbe impatti notevoli anche sulla sicurezza internazionale, sui mercati energetici, sulla sicurezza marittima e sugli sforzi umanitari. Tale evoluzione allontanerebbe, quindi, qualsiasi opzione diplomatica non solo relativamente alla questione irrisolta della Blue Line libanese, ma decreterebbe un pantano ingestibile anche sul versante della Striscia di Gaza. Potrebbe, dunque, emergere una nuova fase di conflittualità dalle conseguenze multilivello decisamente sconosciute per l’intero Medio Oriente.