Mali, l’epicentro del jihadismo nel Sahel
Africa

Mali, l’epicentro del jihadismo nel Sahel

Di Marco Di Liddo
31.08.2017

Nonostante gli sforzi del governo e della Comunità Internazionale, il Mali continua ad essere il fronte più attivo e dinamico del jihadismo saheliano e africano occidentale, confermando il suo ruolo di laboratorio politico e operativo per le strutture terroristiche, per i movimenti di insorgenza etnica e per i gruppi criminali padroni dei traffici illeciti regionali e internazionali. Se al momento dello scoppio della guerra civile maliana (2012) i rapporti tra queste tre categorie di organizzazioni cominciavano a essere sempre più densi ed interdipendenti, oggi risulta impossibile distinguere trafficanti, guerriglieri e terroristi. Ormai, quello che è stato definito gangster-jihadismo è un modello affermato, fluido, flessibile, funzionante e resiliente, in grado di resistere efficacemente alle operazioni di contro-terrorismo e contro-insorgenza delle Forze Armate Maliane (FAM), della Missione Multidimensionale Integrata delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione in Mali (Mission multidimensionnelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation au Mali, MINUSMA) e dell’operazione francese Barkhane. Inoltre, la velocità  nell’adattarsi al cambiamento del teatro operativo e la crescita della capacità offensive (attacchi suicidi, guerriglia) hanno reso poco efficace   il contributo addestrativo offerto alle FAM dalla Missione di Capacity Building dell’UE in Mali (EU Capacity Building Mission in Mali, EUCAP Sahel Mali), dalla Missione di Addestramento dell’UE in Mali (European Union Training Mission Mali, EUTM Mali) e dalle Forze Armate statunitensi (Marines e Delta Force) impegnate nell’Operazione Enduring Freedom – Trans Sahara (OEF-TS). La forza del fronte jihadista saheliano, che in Mali ha le sue principali basi addestrative e di coordinamento politico-economico ma che, a tutti gli effetti, prescinde e trascende le sue dinamiche strettamente nazionali, deriva dalla sua costante capacità di porsi come interlocutore privilegiato delle minoranze subordinate presenti in tutta la regione (Peul/Fulani, Tuareg, Songhai, Arabi Konta) e nelle garanzie offerte in termini di governance territoriale, welfare e lavoro. Inoltre, un’ulteriore elemento di forza è costituito dalla costante tendenza ad innovare i modelli organizzativi, grazie all’inclusione all’interno del network terroristico e di insorgenza di milizie e movimenti etnici sempre nuovi, all’espansione del raggio delle operazioni dal Fezzan fino alla regione del Lago Ciad e al miglioramento del dialogo e della cooperazione con altre realtà locali e regionali, a cominciare da Boko Haram. Un simile modus operandi, molto differente dalla rigidità che ha tradizionalmente caratterizzato il panorama della organizzazioni jihadiste fino alla prima decade degli Anni 2000, costituisce il segnale più evidente della commistione e la contaminazione tra militanza ideologica salafita, insorgenza etnica e criminalità. Infatti, nelle poco ospitali terre saheliane e sahariane, la necessità sia di interloquire con un eterogeneo mosaico di organizzazioni etniche sia di controllare le rotte del contrabbando ha obbligato i movimenti jihadisti ad adottare le pragmatiche e proficue logiche operative dei gruppi criminali. L’esempio più evidente di questa tendenza è rappresentato dalla nascita, nel marzo scorso, di Gruppo di Supporto all’Islam e ai Musulmani (Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin’,GSIM o Nusrat), un autentico cartello jihadista formato da Ansar al-Din, organizzazione tuareg del clan Kel Adrar di Kidal, al-Mourabitun (le Sentinelle), movimento guidato da Mokhtar Belmokhtar, “Mr. Marlboro”, la Brigata Sahariana di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), comandata da Yahya Abu Hammam (nom de guerre di Jamel Akacha, capo anche del dipartimento rapimenti del gruppo) e il Fronte di Liberazione del Macina (FLM), milizia di etnia Peul/Fulani controllata da Amadou Kouffa. Oltre a queste 4 organizzazioni “organiche”, il network di GSIM è completato da alcuni gruppi satellite come Ansarul al-Islam, milizia jihadista di etnia Peul/Fulani attiva in Burkina Faso, Ansar al-Sharia Libia e Ansar al-Sharia Tunisia e, infine, dalle milizie tuareg del Ghat, attive nel Fezzan. Esattamente come nel caso dei cartelli della droga sudamericani, anche Nusrat è nata con l’intento di coordinare le attività dei diversi gruppi terroristici e di insorgenza, di ottimizzare l’opera di reclutamento e di proselitismo jihadista nel Sahel e in tutta l’Africa occidentale e, infine, di razionalizzare la gestione dei traffici e il controllo delle rotte del contrabbando. Inoltre, tra le ragioni della nascita del cartello, non bisogna sottostimare la necessità del fronte jihadista di estrazione qaedista di contrastare sul nascere l’eventuale crescita di network ed organizzazioni legati allo Stato Islamico (IS o Daesh), prima fra tutte il wilayat (provincia) del Grande Sahara, strutturatasi attorno all’ex Emiro del Movimento per l’Unità e il Jihad in Africa Occidentale (MUJAO) Adnan Abu Walid al-Sahrawi. Uno degli aspetti più rilevanti riguardanti la creazione di Nusrat attiene alla sua leadership. Infatti, la guida del cartello è stata assunta da Iyad Ag Ghaly, uno dei più influenti leader tuareg maliani, ex-leader di Ansar al-Din ed ex luogotenente di Osama bin Laden nel Sahel. Il fatto che il comando dell’organizzazione sia stato affidato ad un Tuareg è sintomo del tramonto dell’arabo-centrismo e della preminenza dell’elemento maghrebino nel jihadismo sahelo-sahariano nonché della sempre più marcata proiezione dei movimenti terroristici e di insorgenza verso quelle regioni dell’Africa occidentale dove la precarietà delle condizioni politico-economiche e sociali dei diversi Stati offre enormi possibilità di sviluppo. Inoltre, la presenza di molte minoranze, alcune delle quali sono diffuse anche fuori dal Mali, garantisce a GSIM l’accesso ad una ampia rete di facilitatori all’interno dei tanti movimenti politici per l’autodeterminazione e la difesa dei diritti delle etnie subalterne in tutta la regione. In questo senso, il caso più eclatante è proprio costituito dal Mali, dove l’organizzazione beneficia del supporto di partiti come l’Alto Consiglio Per l’Unità dell’Azawad (Haut conseil pour l’unité de l’Azawad, HCUA), espressione politica del clan tuareg di Kidal e formazione guidata dall’Amenokal (leader tribale) Mohamed Ag Intalla. Sin dalla sua creazione, il GSIM ha dimostrato un notevole attivismo, testimoniato dall’alto numero di azioni ostili (12 attacchi tra marzo e giugno 2017, quasi tutti rivolti contro le FAM e il personale di MINUSMA, per un totale di 51 morti e 35 feriti). Particolarmente rilevante risulta il fatto che gli attacchi in questione abbiano riguardato tutto il territorio maliano (e non solo il nord come in passato), l’area occidentale ciadiana e il nord del Burkina Faso, a ulteriore riprova della dimensione sempre più regionale del gruppo. Tra tutte queste azioni, le più spettacolari sono state due. Il primo è l’attacco di Gao del 7 maggio scorso, quando i miliziani di Nusrat hanno sabotato la rete elettrica e le comunicazioni della città per poi assaltare una caserma locale, uccidere 20 soldati maliani e saccheggiare armi, pick-up e munizioni. Inizialmente, l’assalto di Gao avrebbe previsto anche un attentato suicida nella piazza principale della città, fallito a causa del malfunzionamento del meccanismo di innesco della cintura esplosiva dell’attentatore suicida. Il secondo è stato l’attacco al resort turistico “Le Campement Kangaba” a Dougourakoro, pochi chilometri ad est di Bamako, nel quale sono stati uccisi 4 civili e un militare portoghese. Quest’ultimo episodio, ormai tipico nella strategia degli attacchi jihadisti in Africa, ha rappresentato una sorta di accredito internazionale per il gruppo sia per la natura dell’obbiettivo (luogo frequentato da cittadini stranieri nella capitale maliana) sia per l’eco mediatica e il ritorno propagandistica che ha conseguentemente ottenuto. Dunque, le attività di GSIM costituiscono un concreto ostacolo alla stabilizzazione del Mali, Paese che non è ancora riuscito a trovare un adeguato equilibrio politico dopo la guerra civile e ancora scosso dalle rivalità tra Tuareg e Mandè, e alla sicurezza di tutto il Sahel. Per cercare di contrastare la minaccia terroristica nella regione, i Paesi del gruppo G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad) hanno proposto la creazione di una Task Force compresa tra i 5.000 ed i 10.000 uomini e finanziata dall’UE (50 milioni di euro provenienti dal Trust Fund for Africa). Tuttavia, una simile iniziativa, modellata sull’esempio della Multilateral Joint Task Force (MJTF) che nella regione del Lago Ciad combatte Boko Haram, rischia di entrare in conflitto con le missioni già in atto o di rappresentare, secondo alcune fonti, un’appendice regionale di Barkhane. Infatti, a spingere per la creazione di tali unità multinazionale è stato proprio il neo-Presidente Macron, deciso a rafforzare le leve dell’influenza francese nelle ex colonie, ad espanderle nella vicina Libia e, qualora possibile, contrarre il numero di effettivi e i costi di Berkhane.

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