L’ineluttabile Museveni trionfa nelle urne ed in tribunale
È solamente il mese di febbraio, eppure l’anno in corso ha già visto due eventi di primaria importanza (o “congiunture critiche” nel vocabolario proprio dell’istituzionalismo storico) per la stabilità dell’Africa centro-orientale in generale e dell’Uganda in particolare.
Ancor più interessante è il fatto che questi eventi abbiano in comune più di quanto non sia stato finora riportato nella cronaca giornalistica delle ultime settimane. Entrambi hanno il medesimo protagonista, il Presidente ugandese Yoweri Museveni, e la stessa motivazione di fondo, rafforzarne la legittimità politica nel tentativo, ormai neppure più celato, di rimanere in carica vita n__a__tural durante
In ordine di tempo, le elezioni presidenziali di metà gennaio hanno visto il Presidente in carica conseguire un netto successo elettorale. Museveni si sarebbe aggiudicato circa il 59% dei voti validi contro il 35% dello sfidante Bobi Wine. Il condizionale è d’obbligo tuttavia, viste le accuse di brogli ed intimidazioni mosse dallo sconfitto e da molte altre parti.
Accuse a parte, quel che si sa per certo è che la polizia, leale al Presidente, ha circondato ed isolato la casa dello sfidante a titolo precauzionale già dal giorno successivo alle elezioni, quando i risultati dello scrutinio non erano ancora stati ufficialmente comunicati. Inoltre, il governo ugandese non ha permesso ad alcun gruppo di monitoraggio elettorale straniero od internazionale di entrare nel Paese in tempo utile, impedendo così che osservatori imparziali potessero verificare il regolare svolgimento delle elezioni.
Era comunque cosa nota che Museveni non avesse alcuna intenzione di perdere le elezioni, né tantomeno di consegnare il Paese alle forze d’opposizione e ritirarsi a vita privata. Salito al potere nel gennaio 1986 al termine di una guerra civile durata cinque anni, il Museveni autocrate appena rieletto per un sesto mandato è ben lontano dal capo ribelle che, appena insediatosi al governo, prometteva democrazia e rispetto dei diritti fondamentali ai suoi connazionali. Vessati dalle dittature sanguinarie di Idi Amin Dada e Milton Obote e dalle atrocità della guerra, gli ugandesi vollero credergli, ma la loro fiducia fu mal riposta: alla relativa stabilità politica, che dura tutt’oggi, non è mai seguita una democrazia degna di questo nome.
Anche svariati governi esteri ed organizzazioni non governative vollero credere alle suadenti promesse di Museveni, elevandolo a modello da seguire per un’intera generazione di leader africani e finanziando ogni sorta di progetto atto a garantire la stabilità politica del Paese guidato da un capo ritenuto così promettente e vicino ai valori propugnati dall’Occidente.
Ed è proprio l’abilità del Presidente ugandese, affinata in trentacinque anni di governo, di manipolare ed sfruttare a proprio vantaggio i valori e le istituzioni della Comunità Internazionale a trazione occidentale che costituisce il nesso tra la sua permanenza al potere ed il secondo evento quivi discusso: la condanna per crimini di guerra e crimini contro l’umanità di Dominic Ongwen, l’ex bambino soldato diventato in seguito comandante dell’esercito di resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army in inglese, o LRA).
Detta condanna, emessa in primo grado dalla Corte Penale Internazionale (o CPI), in data 4 febbraio 2021, è stata giustamente salutata con entusiasmo dalla Comunità Internazionale e presentata come una vittoria della giustizia internazionale. È altresì opportuno menzionare che il procedimento a carico di Ongwen, sia per il numero che per la portata dei reati ascrittigli e successivamente accertati, possa considerarsi il più importante della breve storia della CPI. Lungi dall’essere errata, tale caratterizzazione è tuttavia incompleta ed un poco naïf.
Ongwen, dichiarato colpevole di sessantuno capi d’accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel territorio dell’Uganda settentrionale nel periodo compreso fra il 1 luglio 2002 ed il 31 dicembre 2005, era latitante dal luglio 2005, quando nei suoi confronti la Procura della CPI spiccò un mandato d’arresto. Ad essere precisi, Ongwen era uno dei cinque destinatari del suddetto mandato d’arresto. Oltre a lui, la procura ricercava, ed ancora ricerca, altri quattro membri del comando del LRA, inclusi il comandante in capo Joseph Kony ed il suo secondo Vincent Otti.
La latitanza di Ongwen terminò quasi dieci anni più tardi, quando nel gennaio 2015 si arrese alle Forze Speciali americane che ne avevano seguito le tracce fino nella Repubblica Centrafricana, uno Stato che neppure confina con l’Uganda. Trasferito al centro di detenzione della CPI pochi giorni dopo la sua cattura, il procedimento penale a suo carico è cominciato nel dicembre 2016 ed ha visto il suo epilogo, almeno per quanto concerne il primo grado di giudizio, pochi giorni fa.
Due domande sorgono spontanee a questo punto. Innanzitutto, è lecito chiedersi perché reparti delle Forze Armate americane cercassero attivamnete Kony e gli altri leader del LRA in Repubblica Centrafricana. In secondo luogo, è doveroso ricordare come e perché la CPI si sia interessata a quanto stesse accadendo in Uganda ancora nell’autunno del 2003, cioè a pochi mesi dall’elezione di Luis Moreno Ocampo a Procuratore Capo della Corte. Il filo conduttore, come suggerito in precedenza, è l’abilità di Museveni di inserire gli eventi nazionali in un quadro più ampio, caratterizzato da molteplici attori ed interessi a cui potersi allineare.
La cooperazione nel settore della sicurezza tra Stati Uniti d’America e Uganda risale addirittura ai primi Anni '90, quando alcune istituzioni governative statunitensi (ed in particolare USAID, cioè l’agenzia americana preposta allo sviluppo internazionale) offrirono al governo ugandese assistenza umanitaria e militare per arginare le sortite del LRA nel nord del Paese. Museveni ebbe poi una felice intuizione all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, quando manifestò prontamente il suo sostegno all’amministrazione Bush e si impegnò a partecipare militarmente alla cosiddetta guerra al terrorismo. Da allora, le truppe ugandesi hanno operato principalmente in Sud Sudan, in supporto delle forze governative del Presidente Salva Kiir (nonostante nel Paese non sussista un elevato rischio legalo al terrorismo jihadista), e Somalia, nell’azione di contrasto e contenimento di al-Shabab.
In cambio di tale impegno, il Dipartimento di Stato americano iscrisse il LRA nella propria lista dei gruppi terroristici, elevando quest’ultimo a minaccia globale e facendolo così conoscere al di fuori della regione dei Grandi Laghi. Successivamente, gli Stati Uniti cominciarono a fornire aiuti militari alle Forze Armate ugandesi affinché queste potessero ingaggiare e sconfiggere il LRA. Tale cooperazione bilaterale diede i primi frutti nel 2006, anno in cui Kony ed i suoi compagni d’armi furono cacciati per sempre dal suolo ugandese, pur continuando ad operare tra Repubblica Democratica del Congo (RDC), Sud Sudan e Repubblica Centrafricana.
Con l’istituzione del Comando per l’Africa (o AFRICOM) nel 2007, gli Stati Uniti sono intervenuti ancor più attivamente nello sforzo bellico contro il LRA, fornendo intelligence e consiglieri militari all’offensiva congiunta delle Forze Armate ugandesi e congolesi del 2008, nome in codice “operazione rombo di tuono” (Operation Lightning Thunder). Lungi dal determinare la sconfitta del LRA, alla suddetta offensiva seguirono innumerevoli e cruenti attacchi contro la popolazione civile tra RDC e Sud Sudan. Le centinaia di morti (circa 865) fornirono ai sostenitori di AFRICOM un valido motivo per chiedere ed ottenere il raddoppio del contingente americano, il cui dispiegamento si protrae tutt’oggi.
Pur allontanati dal territorio ugandese, Kony e compagni rimanevano una minaccia latente per la stabilità politica dell’Uganda. Per Museveni ed i suoi ministri, le nuove priorità consistevano nel mantenere alta l’attenzione della comunità internazionale sul LRA e di troncare il supporto di cui il gruppo storicamente godeva al di fuori dei confini nazionali, ed in particolare in Sudan. Del resto, come si è soliti ripetere nel dibattito politico ed accademico sul terrorismo, chi è un terrorista per qualcuno è un guerriero per la libertà per qualcun altro. Serviva dunque fare qualcosa in più e, nello specifico, era necessario trovare il modo di presentare i leader del LRA come veri e propri criminali di guerra.
L’entrata in vigore dello Statuto di Roma della CPI (2002) fornì una nuova occasione per delegittimare il LRA e Museveni seppe coglierla al volo. Nell’autunno 2003, su iniziativa dell’allora Ministro della Giustizia, il governo ugandese fece qualcosa che neppure i redattori dello Statuto di Roma ritenevano plausibile, auto-denunciandosi alla CPI e così cedendo a quest’ultima la giurisdizione penale sui cosiddetti crimini internazionali (lista che allora comprendeva crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio). Tale decisione fu suggellata nel gennaio 2004 presso un hotel di Londra, quando il Presidente Museveni e del Procuratore Capo della CPI Moreno Ocampo tennero una conferenza stampa congiunta per annunciare la prima situazione di cui la Corte avrebbe dovuto interessarsi. In un colpo solo, Museveni riuscì a presentarsi come paladino della giustizia internazionale ed a criminalizzare il LRA agli occhi del mondo. L’attenzione che ne seguì nel dibattito politico, legale ed accademico superò ogni aspettativa e la situazione dell’Uganda dinanzi alla CPI divenne l’oggetto di innumerevoli mozioni parlamentari, risoluzioni di organizzazioni internazionali, campagne di sensibilizzazione promosse da organizzazioni non-governative e pubblicazioni accademiche in varie discipline.
In teoria, la Procura della CPI avrebbe dovuto indagare sui delitti commessi da ambo le parti impegnate nel conflitto, inclusi quindi i presunti crimini di guerra perpetrati dalle Forze Armate ugandesi. A tal riguardo, il primo passo falso di Moreno Ocampo fu quello tranquillizzare Museveni circa le proprie intenzioni, dichiarando pubblicamente di voler dare la priorità ai crimini commessi dal LRA, maggiori per numero ed efferatezza, così minando l’imparzialità dell’azione penale. Alla data odierna, non si ha notizia di alcuna notizia di reato iscritta da Moreno Ocampo o Fatou Bensouda, a lui succeduta nel giugno 2012, a carico di membri delle Forze Armate o del governo ugandese.
La pratica, come spesso accade, è ben diversa. Lungi dal fidarsi delle rassicurazioni di Moreno Ocampo, il governo e le Forze Armate ugandesi hanno accuratamente selezionato sia le prove trasmesse a L’Aja sia i mezzi di prova esperibili dalla Procura della CPI sul territorio nazionale. Alla piena cooperazione giudiziale resa dalle autorità ugandesi nel procedimento a carico di Ongwen, un nemico dello Stato, non è mai seguita la volontà di accertare la responsabilità penale dei generali impegnati sul campo o dei loro superiori civili a Kampala.
Diciott’anni dopo la suddetta auto-denuncia alla CPI, e nonostante la latitanza di Kony continui, la scommessa di Museveni può dirsi sostanzialmente vinta. Lo Stato rimane saldamente sotto il suo controllo; l’esercito è tra i meglio equipaggiati ed addestrati del continente africano; l’unica vera minaccia al suo regime è fortemente indebolita e lontana dal territorio ugandese e molti attori internazionali, pur inizialmente armati di buone intenzioni, sono divenuti complici dell’ennesimo autocrate che amava parlare di democrazia e diritti umani salvo poi negare entrambi ai propri connazionali.