L’evoluzione della politica estera di Israele in Medio Oriente
All’inizio di febbraio 2022, Israele ha partecipato alla International Maritime Exercise, un’esercitazione navale guidata dagli Stati Uniti assieme alle forze di più di sessanta Paesi, tra cui quelle dell’Arabia Saudita e dell’Oman. Questo fatto ha attirato l’attenzione dei media e dei principali esperti per via della sua eccezionalità: mai prima d’ora – fatta eccezione per le esercitazioni navali del novembre 2021 nel Mar Rosso, insieme ad Emirati Arabi Uniti, Bahrain e USA –, le forze israeliane avevano partecipato assieme alla loro controparte omanita e saudita ad un’esercitazione congiunta, anche per via dell’assenza di relazioni diplomatiche tra questi Paesi.
Allo stesso tempo, le esercitazioni hanno confermato una trasformazione in termini di relazioni inter-statali in atto nella regione già da diversi anni, ovvero la percezione di Israele come un attore “costruttivo” all’interno dell’arena mediorientale. Una tendenza, questa, emersa durante il mandato dell’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu e successivamente rafforzata dalla politica estera del Governo guidato da Naftali Bennett. A tal riguardo, si può individuare negli Accordi di Abramo – firmati nell’estate del 2020 con EAU e Bahrain – uno dei simboli di questo nuovo processo di integrazione regionale. Ad essi sono seguiti gli accordi di normalizzazione con Sudan (23 ottobre 2020) e Marocco (22 dicembre 2020) e, più in generale, alcuni tentativi di distensione con i principali Paesi della regione.
Non è un caso, infatti, che il summit israelo-arabo di Sde Boker, nel Negev (27-28 marzo), dove sono riuniti tutti gli Stati contraenti gli Accordi di Abramo – ad eccezione del Sudan – più USA ed Egitto, risponde non solo all’esigenza regionale di dare vita a un’architettura di sicurezza condivisa contro le minacce emergenti nell’area MENA, ma mostra ancora una volta una consolidata aspirazione ad una leadership politica da parte di Israele all’interno dell’eterogeno contesto mediorientale allargato.
Da una prospettiva di lungo periodo, possiamo parlare di una vera e propria evoluzione della diplomazia israeliana, in quanto con tale approccio Tel Aviv ha puntato a presentarsi al mondo, mediorientale e internazionale, come un attore e una potenza regionale. Una narrazione e una percezione di se stessi in parte nuove che, tuttavia, trovano una loro rispondenza nella storia di Israele e nella cosiddetta “dottrina periferica”. Questa strategia di politica estera era stata teorizzata sin dal 1948 da David Ben Gurion e da Eliahu Sassoon (rispettivamente il primo Premier della storia di Israele e un noto diplomatico, con incarichi anche ad Ankara). La dottrina era stata concepita come una strategia basata sul rafforzamento dei rapporti bilaterali di Israele con i principali Paesi non arabi della regione, tra cui la Turchia, l’Iran, l’Etiopia e alcune minoranze etniche come i cristiani del Sudan e i curdi iracheni. Questo paradigma aveva una funzione “compensatrice” rispetto ad un ambiente regionale ostile e caratterizzato da un lato, dall’ideologia panarabista e, dall’altro lato, da un forte sentimento anti-israeliano. L’aggettivo “periferica” si riferiva alla collocazione geografica di questi attori, situati ai confini del mondo arabo-musulmano e posti in una contrapposizione ideale ai vicini Paesi arabi. All’interno della logica della Guerra Fredda, questa dottrina rispondeva primariamente alle esigenze di sicurezza nazionale di Israele e alla difesa dei suoi confini territoriali, nonché a rafforzare la sicurezza e i legami economici del Paese, riducendo al contempo il suo isolamento regionale.
Tale approccio si è rivelato molto efficace nel garantire la sopravvivenza di Israele ed è rimasta sostanzialmente invariata almeno fino alla Rivoluzione Iraniana del 1979. Con la caduta dello Shah, infatti, la neonata Repubblica Islamica ha iniziato ad adottare una politica estera anti-occidentale ed anti-israeliana che ha dato avvio ad una riconfigurazione delle principali alleanze della regione. Contestualmente, proprio verso la fine degli anni Settanta, è iniziato il processo di riavvicinamento arabo-israeliano – di cui oggi vediamo le conseguenze più evidenti – formalizzato con gli Accordi di Camp David del 1978 e con il Trattato di Pace israelo-egiziano del 1979. In continuità con questa tendenza, la fine del progetto politico panarabista e il nuovo contesto regionale emerso dopo la fine della Guerra Fredda hanno indotto Israele ad accantonare l’assunto di base della dottrina periferica cercando invece di rafforzare un certo tipo di engagement con i Paesi arabi.
Ciononostante, sin dai primi anni Duemila, la strategia periferica è stata recuperata dalle leadership israeliane – seppur con una rinnovata interpretazione – per via dell’emergere di nuove minacce asimmetriche riconducibili, nella fattispecie, all’asse composto da Iran, Siria, Hamas, Hezbollah e a numerose altre milizie paramilitari ostili. In particolare, le ambizioni di politica estera della Repubblica Islamica hanno contribuito ad una polarizzazione sistemica delle relazioni inter-statali del Medio Oriente, favorendo quindi un avvicinamento tra Israele e le monarchie del Golfo accomunate dalle stesse preoccupazioni di sicurezza nazionale. Una tendenza, questa, che è stata esacerbata sia dal tentativo di sviluppare un programma nucleare da parte di Teheran, sia dal tentativo della comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, di fermare questo processo tramite il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, accolto con molta preoccupazione dalle principali potenze regionali (tra cui le Monarchie arabe del Golfo e Israele) poiché ritenuto sostanzialmente inadeguato ad arginare la minaccia iraniana. Questa riconfigurazione strategica in Medio Oriente ha portato, quindi, ad una riscoperta della “dottrina periferica”, sebbene in una sua forma “inversa”, nella quale si è assistito ad un ribaltamento dei Paesi ritenuti alleati ed ostili e in parte dell’assunto strategico. In altre parole, pur condividendo lo spirito securitario della dottrina del 1948, quella attuale punta a definire una nuova comprensione dello scenario regionale. Partendo proprio da specifici disaccordi politici (ad esempio le posizioni distanti sulla questione israelo-palestinese), queste situazioni possono essere usate come elementi da tenere in secondo piano al fine di ampliare l’agenda di cooperazione su determinati interessi economici e di sicurezza (come il contrasto al dossier nucleare iraniano) che possono portare a vantaggi concreti e reciproci.
Questa evoluzione della politica estera trova riscontro anche nel rapporto triangolare sviluppato da Israele con i Paesi arabi (in particolare Arabia Saudita ed EAU), da un lato, e gli Stati Uniti, dall’altro, all’interno di un contesto regionale influenzato dal parziale disengagement di Washington a favore del suo ribilanciamento verso l’area dell’indo-pacifico. Tale rimescolamento delle carte ha quindi portato tutti gli attori intra- ed extra-regionali a riconsiderare impegni, interessi e sfide di medio e lungo periodo in un’ottica politica e securitaria più ampia. Anche in virtù del mutato “clima” regionale, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, sotto l’impulso stesso degli USA, hanno migliorato la cooperazione bilaterale con Israele raggiungendo livelli inediti per la regione tramite i già citati Accordi di Abramo del 2020, i quali hanno introdotto almeno due elementi di novità significativi. Da un lato, queste intese hanno portato alla creazione di un framework di cooperazione multi-livello in grado di andare oltre la sola sicurezza nazionale. La rinnovata partnership economica tra Israele ed EAU, per esempio, potrebbe sbloccare l’enorme potenziale connesso agli investimenti e al commercio bilaterale, il quale, secondo alcune stime della Camera di Commercio israeliana, raggiungerà il valore complessivo di 5 miliardi di dollari entro il 2024. Dall’altro lato, questi accordi hanno introdotto al fianco della cooperazione inter-governativa una serie di strumenti in grado di rafforzare i legami tra le rispettive società civili, come testimoniato, per esempio, dalla recente apertura delle linee aeree tra Tel Aviv e Abu Dhabi.
I rapporti israelo-sauditi, invece, rimangono, almeno per ora, più complessi. La comune minaccia iraniana ha infatti spinto i due Paesi a rafforzare i dialoghi informali ma una normalizzazione sul modello emiratino è ancora ben distante dall’essere raggiunta. Almeno due episodi recenti hanno confermato questo tentativo di dialogo. In primo luogo, a settembre 2020, alcune fonti statunitensi hanno segnalato la volontà saudita di acquistare sistemi d’arma avanzati prodotti da Israele, nello specifico l’infrastruttura di difesa Iron Dome. Questa scelta va interpretata in virtù della decisione statunitense – percepita con preoccupazione dal Regno saudita – di rimuovere le batterie missilistiche Patriot e un terminale difensivo THAAD presenti nella base aerea di Prince Sultan, vicino a Riyadh. In secondo luogo, il 22 novembre 2020 sarebbe avvenuto un incontro – formalmente negato dai rappresentanti di entrambi i Paesi – tra l’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Principe ereditario Mohammed bin Salman sul sito di costruzione della città saudita NEOM, durante il quale i due leader si sarebbero confrontati sui principali dossier regionali.
Dalla prospettiva israeliana, la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita è uno degli obiettivi principali da raggiungere nella regione, in virtù del ruolo che questo Paese riveste all’interno del mondo arabo e musulmano. Se Israele riuscisse infatti a stabilire dei rapporti diplomatici ufficiali con uno degli attori leader a livello morale e politico della regione potrebbe facilmente auspicare anche ad un miglioramento delle relazioni con tutti i Paesi a maggioranza musulmana, arabi e non, che finora hanno mantenuto un atteggiamento più “attendista” nei confronti di questa trasformazione regionale ancora in corso – non a caso nei mesi scorsi si è parlato a lungo di tentativi in questa direzione nei confronti dell’Oman, della Mauritania, dell’Uzbekistan e dell’Indonesia. Viceversa, nell’ottica saudita, una normalizzazione dei rapporti con Israele risponderebbe a chiare esigenze politiche e di sicurezza. Infatti, alla luce del già menzionato disengagement statunitense, il Regno si troverebbe a costruire rapporti durevoli in grado sia di contribuire a migliorare la sua immagine pubblica dopo l’affaire Khashoggi, sia nel condividere un’agenda politica e di sicurezza mediorientale nella quale il dossier iraniano nelle sue sfaccettature più ampie e le sfide multidimensionali legate alla diversificazione economico-energetica possono rivestire in maniera inequivocabile un ruolo prioritario, trovando in Tel Aviv un possibile partner interessato.
Seppur non coinvolta direttamente, Riyadh ha avuto però un ruolo nella formulazione degli Accordi di Abramo. Attraverso l’inclusione del Bahrain, infatti, la Monarchia saudita ha puntato a influenzare indirettamente le dinamiche di questo progetto politico, cercando, al tempo stesso, di definire delle tappe più o meno lunghe che la portassero in un prossimo futuro alla firma di simili accordi di normalizzazione con Israele. Tuttavia, questo passo dovrà essere gestito con cautela considerati i riflessi che la questione potrebbe avere sul piano interno in termini politici e di opinione pubblica. La società saudita, infatti, rimane ancora caratterizzata da un forte sentimento anti-israeliano, a causa soprattutto del durevole sostegno del Regno alla popolazione palestinese. Per questo motivo, gli al-Saud non sembrano interessati a compiere in tempi brevi un passo diplomatico così importante, anche se è chiaro che questo obiettivo potrebbe essere presto o tardi raggiunto in virtù della volontà di Riyadh di porsi alla guida di questo processo di riforma del sistema mediorientale, anche al fine di contenere le iniziative iraniane nella regione.
Da una prospettiva più ampia, i segnali di una distensione arabo-israeliana – frutto principalmente del nuovo clima politico emerso durante gli ultimi 24 mesi – sono giunti, almeno per ora, in maniera diffusa, geograficamente parlando, e limitata, settorialmente parlando. Israele, infatti, ha intensificato la propria pressione diplomatica con una serie di attori con cui non ha stabilito rapporti ufficiali, come il Libano, oppure con Paesi con cui intrattiene relazioni bilaterali complesse, soprattutto negli ultimi anni, come la Giordania. Nel primo caso, quello libanese, Israele sembrerebbe aver raggiunto un accordo – per ora negato dalle autorità di Beirut – per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive nelle porzioni di mare contigue tra i due Paesi; un dossier, questo, che ha contribuito a paralizzare per anni la ricerca e lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas nelle zone contese. Nel secondo caso, quello giordano, è stato raggiunto un accordo per far sì che Amman incrementi l’export di beni alla West Bank e, contestualmente, costruisca sul suo territorio un impianto ad energia solare da 600 megawatt che verrà successivamente esportata in Israele in cambio della fornitura di circa 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata.
La ridefinizione della politica estera israeliana ha, inoltre, contribuito nel trasformare il ruolo e l’approccio del Paese anche nel versante levantino, specie nei rapporti con la Turchia nel quadrante del Mediterraneo Orientale. Negli ultimi anni, le relazioni con Ankara si sono incrinate per via di almeno due dossier chiave. In primo luogo, il Presidente Recep Tayyip Erdoğan si è più volte eretto a difensore della causa palestinese, come dimostrato dal celebre incidente della Freedom Flotilla del 2010 e dalla crisi diplomatica che ne è conseguita. In secondo luogo, Ankara ha perseguito una politica estera unilaterale nel Mediterraneo Orientale contestando le zone economiche esclusive di Cipro e Grecia e cercando di opporsi ai principali progetti infrastrutturali dell’area come l’EastMed Pipeline. Recentemente, però, a causa della nuova assertività strategica di Israele, delle difficoltà dell’economia turca e, soprattutto, della mutevolezza dello scenario trans-regionale (legato anche alla crisi ucraina), sono arrivati alcuni segnali di distensione che potrebbero permettere ai due Paesi di migliorare in maniera significativa le loro relazioni sulla scia di quanto fatto dalla stessa Turchia con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita nel corso del 2021. In questo senso, la visita di Stato del Presidente Isaac Herzog ad Ankara (9 marzo 2022), la prima di un leader israeliano in Turchia dal 2008, è un atto che dimostra una ricerca di dialogo bilaterale dopo 9 mesi dal primo contatto telefonico tra i due capi di Stato avvenuto a luglio del 2021.
Se il rilancio dei rapporti con la Turchia dimostra ancora una volta la ricerca di un nuovo posizionamento all’interno della regione, i recenti sforzi multilaterali tenuti da Israele nel Mediterraneo Orientale testimoniamo, invece, l’evoluzione dell’approccio bilaterale imperante all’interno della prima versione della dottrina periferica. Nel 2019, per esempio, il Paese ha aderito all’East Mediterranean Gas Forum, un’organizzazione internazionale con sede al Cairo il cui obiettivo è quello di coordinare le politiche energetiche degli Stati dell’area, in particolare nel settore del gas. L’adesione a questo forum da parte di Giordania, Egitto e Territori Palestinesi, possiede un chiaro messaggio politico di reciproca accettazione e limitata cooperazione in alcuni ambiti ritenuti prioritari da tutti gli attori coinvolti. In tal senso, anche la costruzione di infrastrutture energetiche sottomarine condivise potrebbe fungere da volano per una maggior integrazione tra Israele e i Paesi dell’area coinvolti nel progetto.
Al contempo, l’attuale corso di politica estera israeliana ha favorito nuovi sviluppi anche nelle relazioni con Il Cairo. Infatti, gli incontri recenti a Sharm el-Sheikh (settembre 2021 e marzo 2022) sembrerebbero suggerire che tra Israele ed Egitto si siano le poste le basi per aprire un nuovo capitolo nel rapporto bilaterale, non sempre equilibrato in passato. Non è caso che i temi della sicurezza e dell’energia siano stati posti al centro dell’agenda comune, puntando a rafforzarli e ad ampliare i possibili campi di cooperazione (ad esempio il piano diplomatico e militare). Una svolta completa può giungere però solo da un contenimento di Hamas a Gaza. Infatti, queste mosse mostrano una stretta interdipendenza tra le politiche dei due Paesi, i quali puntano a sfruttare il nodo di Gaza per investire nelle rispettive ambizioni “mediterranee”, le quali comprendono le preoccupazioni di sicurezza (minacce terroristiche da e verso Egitto e Israele) e il settore economico-energetico (pipeline e progetti gasiferi offshore). Tuttavia, è bene ricordare che questo “reset” relazionale si inserisce in un contesto più ampio, ovvero quello definito dagli Accordi di Abramo, grazie ai quali Israele ha mirato a rielaborare l’apertura mostrata verso il mondo arabo impostando un’agenda politica deideologizzata e impostata su rapporti, necessità e interessi più pragmatici. Di converso, l’Egitto spera di massimizzare i propri interessi nel nuovo corso arabo-israeliano sia nel migliorare i suoi rapporti con l’Amministrazione Biden, sia nel recuperare il suo storico ruolo di attore cruciale nelle dinamiche di area, a cominciare dalla posizione di mediatore nel contesto israelo-palestinese, come lo prova anche l’ultima crisi di Gaza del maggio 2021.
Complessivamente, dunque, il quadro che emerge dall’analisi della nuova politica estera israeliana è chiaro ed estremamente razionale. L’ascesa dell’Iran come potenza regionale ha spinto Israele ad una maggiore ricerca di integrazione e/o cooperazione (diretta e non) con tutti quei Paesi che un tempo erano considerati la principale minaccia alla sua sicurezza nazionale, ma con cui oggi condivide alcune preoccupazioni e approcci comuni ai problemi. L’allargamento di questa partnership a dimensioni non strettamente belliche, come avvenuto con gli Accordi di Abramo, segna un’ulteriore evoluzione della strategia israeliana verso nuovi partner ed obiettivi. Infine, l’integrazione di Israele in alcuni meccanismi e forum multilaterali evidenzia come il Paese sia pronto a proporsi come un attore affidabile nella tutela e nella promozione dei cosiddetti common goods che stanno alla base della sicurezza alimentare, energetica e militare del Medio Oriente.
Alcuni fattori significativi, come il conflitto israelo-palestinese, continuano però ad essere un ostacolo ad una piena accettazione di Israele come attore affidabile da parte di numerosi Paesi o, quantomeno, dai settori più conservatori del mondo arabo, alimentando divisioni sia inter-statali e sia sociali. Il caso saudita, in tal senso, risulta essere quello più emblematico per via della sua posizione di prestigio e di storico difensore della causa palestinese in Medio Oriente. In tale prospettiva, la direzione presa dal Regno nei confronti di Israele sarà determinante per definire la percezione e il ruolo del Paese nella regione nel prossimo futuro. Almeno per ora, però, l’esistenza di un precario equilibrio basato, da un lato, sulla formale condanna della condizione di vita dei palestinesi e, dall’altro lato, dalla cooperazione araba con Israele in numerosi settori chiave (economia, energia, militare e hi-tech, su tutti), potrebbe affermarsi come una costante geopolitica della regione nel breve/medio periodo. In attesa di un più profondo riavvicinamento tra popoli che, per ora, si può solo intravedere in lontananza.