Il futuro incerto della nuova Siria: impatti, prospettive ed evoluzioni
Medio Oriente e Nord Africa

Il futuro incerto della nuova Siria: impatti, prospettive ed evoluzioni

Di Andrea Fusco e Giuseppe Dentice
17.12.2024

54 anni in 12 giorni. L’improvvisa capitolazione di Bashar al-Assad in Siria e la conquista del potere da parte dei gruppi ribelli coordinati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) hanno decretato la fine di un regime familiare duraturo, che in 13 anni di guerra civile ha causato all’incirca 500.000 vittime e provocato sei milioni di rifugiati siriani in giro per la regione (con le comunità più numerose tra Turchia, Libano e Giordania). Uno sviluppo tanto importante quanto repentino, che, tuttavia, non decreterà la fine del conflitto nel suo complesso e che, invece, vede tanti interrogativi ancora aperti. Di fatto, se nessuno sarà in grado di gestire le criticità (immediate e strutturali) si rischierà di trovarsi in Siria dinanzi a nuove e pregresse linee di faglia in grado di destabilizzare l’intero Medio Oriente.

Nell’incertezza che oggi regna nel Paese, un personaggio è emerso con chiarezza su tutti: Ahmad al-Sharaa, nome de guerre di Abu Muhammad al-Jolani, leader di HTS, formazione islamista dall’oscuro passato qaedista, che ha avuto anche connessioni con quel che fu lo Stato Islamico (ISIS). Da quando ha assunto pienamente il potere, al-Jolani ha portato avanti una strategia di riabilitazione e rassicurazione mediatica, che passa da piccoli e grandi gesti: come il restyling da civile e non più guerrigliero, per non parlare delle dichiarazioni inclusive in favore delle minoranze (specie quelle cristiane e druse). Tutti elementi che puntano a motivare la comunità internazionale (e l’Occidente in particolar modo) a considerare il nuovo governo siriano come il soggetto più indicato per guidare la Siria futura. Un endorsement non privo di contraddizioni: HTS, infatti, è ancora presente nella cosiddetta lista nera del terrorismo e designata come un’organizzazione che persegue tali finalità dalle Nazioni Unite e da quasi tutti i governi occidentali.

In questo engagement furbo con il mondo, al-Jolani ha nominato Mohammed al-Bashir – suo braccio destro ed ex sindaco di Idlib – nuovo Primo Ministro del governo ad interim (il quale in teoria dovrebbe rimanere in carica fino a marzo 2025), ha promesso di ripristinare la sicurezza e la stabilità in tutte le città siriane, di riportare indietro i milioni di rifugiati sparsi tra Europa e Medio Oriente e, infine, di riattivare i servizi essenziali. Bashir e HTS hanno, inoltre, promesso di risanare il Paese in bancarotta attraverso l’abbandono di un’economia controllata di Stato in favore di un approccio di libero mercato per attirare gli investitori esteri. Obiettivo della nuova leadership damascena è dimostrare che il governo si richiama ad un islam tollerante, inclusivo e non violento, che non ha più nulla a che spartire con le radici qaediste ed è in grado di promuovere una transizione democratica nel Paese.

Ecco, perché, al di là dello specifico status politico-giuridico intorno ad HTS e delle sue volontà apparentemente occultate, sarà importante per il nuovo esecutivo siriano esprimere un processo realmente inclusivo, democratico e non settario, che spinga il Paese a formulare una proposta che la differenzi, anche in chiave islamica, da altre esperienze non propriamente fortunate nella regione. Di fatto, HTS dovrà essere attenta a non replicare gli schemi noti di Hamas a Gaza e/o di Hezbollah in Libano, in modo da allontanare nella nuova Siria l’immaginario nefasto degli esperimenti clientelari fortemente dipendenti dai supporter esterni (la Turchia in questo caso), capaci di ridefinire l’identità dell’organizzazione e delle nascenti istituzioni statali.

Infatti, il governo di transizione mira a mostrarsi come un’esperienza “positiva” anche fuori dai confini siriani, strizzando l’occhio a tutte quelle altre realtà fragili e alle prese con regimi autoritari percepiti come corrotti e illegittimi nel Maghreb (si pensi a Libia o Algeria) e nel Levante (i richiami più immediati vertono verso l’Egitto e i vicini iracheni e libanesi). In questa prospettiva, il nuovo establishment islamista punterà a costruirsi una credibilità nuova attraverso lo smantellamento delle eredità autoritarie della Guerra Fredda in Medio Oriente, al fine di ricercare e inaugurare, attraverso caratteristiche proprie, una stagione differente di governo che sarà una diretta prosecuzione della sfortunata parentesi delle Primavere Arabe. Al-Jolani e Bashir, quindi, si troveranno a gestire un contesto strutturalmente fragile e incerto, nel quale si sovrappongono una serie di fattori locali, nazionali, regionali e internazionali, in grado, potenzialmente, di riconfigurare gli interi equilibri del Nord Africa e del Medio Oriente.

A preoccupare maggiormente gli osservatori è il profondo grado di incertezza che aleggia sul Paese, a cominciare dal fattore curdo. HTS e i gruppi affiliati controllano circa il 60% del territorio siriano, mentre la zona nord e nord-orientale sono presidiate dalle milizie – a maggioranza curdo-siriana e cristiano-assire – delle Forze Democratiche Siriane (SDF). Nei giorni scorsi, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), milizia alleata di HTS e decisamente più filo-turca del partner, ha attaccato le forze del SDF lungo la direttrice Aleppo-Manbij, arrivando ad occupare importanti sezioni del cosiddetto Rojava. Il 12 dicembre, però, le violenze si sono temporaneamente placate, sebbene tale sviluppo non assicuri la fine delle tensioni. Obiettivo di SNA – e in maniera indiretta di Ankara sua sostenitrice – è la creazione di un continuum terrestre tra Afrin e al-Bab lungo i più di 900 chilometri che dividono Turchia e Siria, al fine di creare una fascia di sicurezza in grado di sigillare ermeticamente la penisola anatolica dalle incursioni e/o più semplicemente dalla minacciosa presenza curdo-siriana dal confine condiviso. Una soluzione assolutamente sponsorizzata dalla Turchia, il maggior beneficiario dell’attuale riconfigurazione statuale siriana: il Presidente Recep Tayyip Erdoğan e il Ministro degli Esteri Hakan Fidan hanno salutato con favore la caduta di Assad, dal momento che gli oltre 5 milioni di rifugiati siriani in territorio turco saranno, presumibilmente, spinti per far ritorno a casa; allo stesso tempo, per Ankara questo periodo di transizione potrebbe essere propizio, attraverso la pressione su SNA, per rompere la minaccia armata portata nel Paese anatolico dal combinato curdo-turco e curdo-siriano, rispettivamente, da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e dell’Unità di Protezione Popolare (YPG). Proprio l’eterogeno mondo delle forze curde, raggruppate in varie sigle la cui la principale è oggi lo SDF, ha compreso e assimilato la posizione di pericolosa, ma rilevante, minoranza in cui trova ad agire. Anche per cercare di tacitare il nervosismo serpeggiante tra le proprie fila e cercare una sorta di contatto con la nuova autorità damascena, il 12 dicembre, l’amministrazione autonoma del Rojava ha innalzato le bandiere della resistenza siriana apposte dai ribelli nella capitale (il medesimo vessillo con cui fino a poche ore prima il SNA combatteva le stesse SDF). Dietro questa iniziativa si cela un cosiddetto “ramoscello di ulivo”, ossia un tentativo di stabilire un canale di dialogo con HTS nel tentativo di isolare SNA e acuire la scarsa fiducia esistente tra le due parti. In questo possibile spazio di azione, SDF vuole ritagliarsi una sua capacità di manovra che si tradurrebbe in una sorta di compromesso con il governo transitorio a guida HTS. Un tentativo che comunque ha trovato un appiglio a Damasco: infatti, al-Jolani, il 14 dicembre (due giorni dopo la cessazione temporanea degli scontri tra SNA e SDF), ha dichiarato ai microfoni di al-Arabiya che la componente curdo-siriana è parte integrante del Paese, garantendo davanti alle telecamere la tutela e il ritorno delle famiglie curde ad Afrin, attualmente sotto occupazione delle forze del SNA. Se dovesse andare in porto questa azione tra SDF e HTS, la Siria si troverebbe divisa in due: la costa e la dorsale nord-sud sotto il controllo dei ribelli islamisti, mentre il resto del Paese sarebbe detenuta dai curdi-siriani. Tale condizione potrebbe contribuire ad appianare le tensioni esistenti, ma non ne garantirebbe la necessaria stabilità: in questo spazio, infatti, potrebbero inserirsi per motivi diversi, ad esempio, Turchia e ISIS per acuire la violenza e/o la frammentazione, dirottando secondo i propri intendimenti la transizione siriana.

Non meno problematico sarà il ruolo giocato dagli attori esterni, ma fortemente in grado di condizionare gli sviluppi nel Paese. La Russia è interessata a mantenere le sue basi costiere, ma negli ultimi giorni sono stati documentati rilevanti spostamenti di contingenti, sistemi d’arma e partenze da Tartus e Hmeimim, forse, verso le coste libiche, suggerendo l’ipotesi che si configurerà una presenza più simbolica che operativa in Siria. La garanzia nella libertà di manovra precedentemente offerta da Assad ha fondamenta molto più precarie, dovute all’influenza turca su HTS e SNA, unita al risentimento della popolazione stessa nei confronti di una delle potenze principali che ha supportato per anni il regime e represso i siriani senza troppi riguardi. Il Cremlino, attraverso le parole del Vice Presidente del Consiglio di Sicurezza Dmitry Medvedev, ha riconosciuto la sconfitta di Assad evidenziandone gli “errori di calcolo della sua amministrazione”. Al contempo, pur garantendo un tranquillo esilio moscovita all’ex Presidente, la Federazione è in trattative con HTS per trovare in extremis un accordo che soddisfi tutte le parti e non diminuisca la proiezione russa tra Mediterraneo e Caucaso.

In questa complessa fase di riconfigurazione regionale anche l’Iran figura tra le fila degli “sconfitti”: con la perdita del fondamentale tassello siriano, Teheran non sarà in grado di alimentare la catena di rifornimento ai suoi proxies regionali legati all’Asse di Resistenza. Dall’inizio della guerra a Gaza e dal successivo shift nel confronto con Tel Aviv, questo è il momento di maggiore difficoltà per la Repubblica Islamica e la sua strategia regionale intessuta negli anni. L’interdizione del principale collegamento territoriale tra Iran e le milizie sciite irachene (come Kataib Hezbollah) o con lo stesso Hezbollah in Libano, già in estrema difficoltà dopo mesi di guerra con Israele, rappresenta una sconfitta indiscutibile per l’Asse di Resistenza e, nei prossimi mesi, non è escluso che tale debolezza possa essere sfruttata da Tel Aviv, grazie al rinnovato supporto offerto dall’Amministrazione Trump in arrivo a gennaio. Nel quadro offerto fino ad ora, Israele si è reso protagonista di svariati bombardamenti indirizzati verso basi militari siriane per sventare l’ipotesi che armamenti e munizioni del regime circolassero senza controllo, completando al contempo un’avanzata sulle Alture del Golan fino ad occupare il Monte Hermon, in vista della creazione di una buffer zone geograficamente strategica per mettere in sicurezza e controllare la fascia territoriale tra Libano e Siria meridionali. In questa prospettiva, però, non devono sorprendere né essere caricate di eccessiva enfasi, le parole rilasciate nei giorni scorsi da al-Jolani su quanto sta avvenendo nel Golan. Le dichiarazioni dell’ex leader qaedista il 14 dicembre hanno infatti evidenziato “la scusa della presenza iraniana” usata da Israele per entrare in territorio siriano e la conseguente cessazione di argomenti a favore di Tel Aviv per perseguire la politica di occupazione oltre i propri confini, che “minaccia un’ingiustificata escalation nella regione”. In altre parole, il leader islamista è molto attento a non aprire nuovi fronti interni dato il contesto di fragilità esistente, ma, allo stesso tempo, guarda con attenzione alle evoluzioni di scenario poiché potrebbero risultare importanti nella partita di riposizionamenti regionali in Siria.

Pertanto, i tempi sono tutt’altro che maturi per tirare le somme rispetto al nuovo equilibrio che si stabilirà in Medio Oriente, date le anime così eterogenee della nuova amministrazione siriana e le variabili in grado di modificare in profondità lo scenario operativo. Al contempo, devono essere monitorati con molta attenzione i movimenti quadrangolari tra HTS, SDF, Turchia e Israele che possono contribuire ad amplificare le tensioni esistenti. La partita nel nord-est tra SNA (e Turchia) e le milizie curdo-siriane è ancora aperta, dal momento che lo stesso Ministro Fidan ha dichiarato “obiettivo strategico” l’eliminazione della minaccia di confine portata dalle SDF. Proprio quest’ultime, al fine di non rimanere isolate o schiacciate dalla forza turca, hanno tentato alcuni contatti con Tel Aviv e HTS per provare a spaccare il fronte filo-turco e contenerne le influenze nel Paese. Una pressione del genere non è escluso possa riaprire in breve tempo una rinnovata spirale di violenze. Ecco, perché, una delle incognite principali risiederà anche nel posizionamento che deciderà di adottare la prossima Amministrazione Trump: il tycoon ha avallato l’ipotesi in queste settimane del ritiro dei 900 soldati da Qamishli, ma è incerta la postura che assumerà qualora il partner curdo, fondamentale negli anni della lotta contro ISIS, subisse una massiccia rappresaglia da parte della Turchia e/o per conto di SNA, che decreterebbe, comunque, un’influenza crescente di Ankara nel cuore del Medio Oriente. Infine, la stabilizzazione siriana è una questione importante anche nell’ottica europea, alle prese con diverse tensioni elettorali all’interno dei singoli contesti nazionali e profonde instabilità legate alla crisi economico-industriale. Di fatto, tutte le cancellerie euro-atlantiche sperano di trovare a Damasco un’autorità credibile e in grado di farsi carico del rimpatrio dei rifugiati siriani, dal momento che la crisi migratoria è stata il singolo fattore più importante di instabilità nella politica interna europea.

Al netto, dunque, delle future evoluzioni sul terreno, l’orizzonte siriano in questo momento non suggerisce un processo di transizione pacifico e indipendente, ma si configura piuttosto come un nuovo terreno di scontro caratterizzato dall’intrecciarsi di più dinamiche multilivello. In altre parole, potrebbe aprirsi nel Paese e nella regione una stagione di profondo rinnovamento non scevro, però, da troppe e dense incognite.

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