L’escalation continua della crisi ucraina
Il 21 febbraio, il Presidente russo Vladimir Putin ha ratificato la proposta della Duma di riconoscere l’indipendenza e, dunque, la sovranità delle due Repubbliche Popolari di Donetsk (RPD) e Lugansk (RPL), le entità separatiste filorusse presenti all’estremo oriente dell’Ucraina, nella regione del Donbas. Immediatamente dopo, il leader del Cremlino ha disposto l’invio, nelle due repubbliche, di un nutrito contingente militare con funzioni formali di mantenimento della pace. Dunque, i timori ucraini, europei e statunitensi circa l’imminenza di una invasione russa su larga scala si sono concretizzati soltanto parzialmente, visto che Mosca, attraverso il riconoscimento delle repubbliche e l’avvio delle missioni di peacekeeping, ha ufficializzato e resi pubblici una presenza militare ed un supporto politico-economico che, di fatto, sussistevano dal 2014.
Tuttavia, rispetto alle dinamiche da conflitto congelato che avevano caratterizzato il fronte del Donbas sino ad oggi, il riconoscimento internazionale, seguito da un accordo di amicizia e mutua assistenza tra Russia, RPD e RPL, e l’avvio della missione cambiano sostanzialmente lo scenario regionale. In primis, qualsiasi attacco ucraino contro le repubbliche separatiste potrebbe coinvolgere truppe russe o spingere le autorità ribelli del Donbas a chiedere l’intervento di Mosca, riesumando un casus belli già osservato in Abkhazia ed Ossezia del Sud nel 2008. In secondo luogo, la presenza militare russa in territorio ucraino è drammaticamente aumentata rispetto alla media di 5000-8000 unità sotto copertura stanziate tra il 2014 ed il 2021. In aggiunta a questo, non bisogna dimenticare che circa 160000 uomini russi sono dislocati tra Bielorussia e confine ucraino orientale, senza contare i 10.000 in Crimea e le forze navali del Mar Nero. Sinora, la risposta euro-atlantica è stata di ferma condanna all’azione russa e, sotto il profilo NATO, si è concretizzata in misure di riassicurazione dei Paesi membri. Al momento, Stati Uniti e Paesi europei hanno optato per un primo pacchetto di sanzioni contro individui e società russe che, tuttavia, non aggiungono molto né aggravano significativamente il regime sanzionatorio in vigore dal 2014. L’azione più significativa è stata quella della Germania che, sospendendo l’approvazione del gasdotto Nord Stream 2, ha inteso inviare un forte messaggio politico e colpire il cuore degli interessi russi in Europa, ossia il mercato energetico. In ogni caso, il flusso di gas dalla Russia è stabile, anche se le ripercussioni sui mercati dell’escalation della crisi ucraina potrebbero far lievitare il prezzo e causare pesanti rincari in bolletta per i consumatori. Nei prossimi giorni è attesa la formalizzazione di nuove sanzioni UE. La questione dei rapporti commerciali e delle forniture di grano, materie prime e gas è particolarmente sensibile anche perché connessa alle attuali congiunture macroeconomiche globali, all’incertezza della ripresa post-pandemica e alla crisi connessa alla carenza di semi-conduttori. La Russia ha bisogno di vendere al mercato europeo per sostenere le proprie finanze statali e per aumentare le riserve di valuta pregiata, mentre l’Europa deve assolutamente evitare rincari dell’energia e si trova ad agire in uno scenario di dipendenza dal gas russo che supera il 40%.
Sino a questo momento, quindi, è prevalsa una linea attendista e temporeggiatrice che continua a mantenere aperta la linea della diplomazia e delle trattative. La Russia ha limitato lo spettro ed il raggio delle proprie attività militari e l’asse euro-atlantico ha risposto fermamente ma in maniera meno dura di quanto ci si potesse aspettare.
In ogni caso, l’ingresso russo nelle due repubbliche popolari potrebbe non essere l’ultimo passo di Mosca in Ucraina. Il Cremlino, negli ultimi anni, ci ha abituato ad una pianificazione strategica graduale e con obbiettivi progressivi basati su rapidi calcoli di opportunità. Qualora la Russia giudicasse la risposta euro-atlantica non temibile e in assenza di negoziati concreti sul dossier dell’allargamento della NATO e della neutralità dell’Ucraina, non è da escludere che le truppe russe innalzino il livello delle loro attività. Il primo obbiettivo potrebbe essere l’intera regione del Donbas. Infatti, le due repubbliche separatiste controllano attualmente 1/3 del territorio della regione ma, per Costituzione, rivendicano gli interi oblast di Donetsk e Lugansk. Quindi, laddove la Russia interpretasse la strategia di UE e Stati Uniti come debole, potrebbe alzare il tiro del proprio coinvolgimento, puntando a conquistare l’intero Donbas. In tal senso, non bisogna sottostimare il rapporto tra percezione del rischio e calcolo politico alla Casa Bianca quanto a Mosca. Nelle ultime ore, infatti, tra le due sponde dell’Atlantico ed a Kiev si teme che le unità russe possano avanzare fino alla capitale ucraina, una eventualità molto complicata per gli immensi costi politici, economici ed umani che la Russia dovrebbe affrontare, ma non escludibile a priori. In virtù di questa paura, sussiste il rischio che la conquista di tutto il Donbas possa essere interpretata dai governi occidentali come uno scenario accettabile se paragonato alla presunta presa di Kiev. In tal modo, la Russia potrebbe sentirsi autorizzata e legittimata ad aumentare la porzione di territorio sotto il controllo delle repubbliche separatiste.
In ultima istanza, con la crisi ucraina sembra ripetersi lo scenario delle famose “linee rosse” segnate dal Presidente Obama durante la crisi siriana e costantemente ignorate da Mosca. Anche nel caso ucraino, esiste il rischio che, in assenza di azioni forti di deterrenza e dissuasione verso l’aggressività russa, le nuove “linee rosse” tracciate dalla diplomazia risultino poco più di sterili moniti.