Le crisi in Libano: lo stallo politico acuisce il disastro economico e rafforza le dinamiche settarie
Medio Oriente e Nord Africa

Le crisi in Libano: lo stallo politico acuisce il disastro economico e rafforza le dinamiche settarie

Di Beatrice Gori
16.07.2021

Gli ultimi due anni hanno rappresentato per il Libano un momento estremamente duro, a causa di una confluenza di crisi diverse. Da quando il 7 marzo 2020 il governo nazionale ha annunciato il default finanziario della Banca Centrale Libanese (BCL) la situazione economica del Paese è rapidamente precipitata, acuendo i problemi già esistenti. Difatti, già dal 2017 l’ancoraggio della lira libanese al dollaro aveva perso l’80% del suo valore sul mercato nero ed erano state introdotte restrizioni sui movimenti di capitali. Inoltre, la concomitante crisi del sistema bancario libanese ha avuto conseguenze devastanti sui risparmi dei cittadini e nonostante i ripetuti interventi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) – con cui il Paese ha un debito di dieci miliardi di dollari – oggi il Libano si trova a fronteggiare l’esaurimento delle proprie riserve, con il rischio di dover intaccare quelle obbligatorie che ogni Stato detiene per evitare il default.

Proprio l’esaurimento delle riserve rappresenta oggi uno degli elementi più incandescenti della crisi attualmente in corso in Libano. Il Paese si è visto revocare i sussidi a 200 beni essenziali il cui prezzo è ora alle stelle e in pochi possono ormai permetterseli. Inoltre, le forniture scarseggiano e i cittadini libanesi non riescono a reperire farmaci di prima necessità. Il Ministro per l’Energia, Raymond Ghajar, ha recentemente affermato che neanche i sussidi sul carburante sono più sostenibili e verranno presto sospesi. Data l’elevata dipendenza da carburante del Paese, quest’ultima notizia potrebbe far precipitare rapidamente la situazione: la maggior parte della fornitura elettrica libanese proviene da generatori a diesel e l’inefficiente rete di trasporti pubblici rende l’uso dell’automobile necessario per gli spostamenti, i quali risulterebbero dunque altamente compromessi con un ulteriore aumento dei prezzi del carburante.

In aggiunta alla crisi finanziaria, il Paese levantino ha dovuto fare i conti con la pandemia da Covid-19. Con un ritmo di 2.000 nuovi casi al giorno, il sistema sanitario – quasi interamente privatizzato – non è riuscito a sopperire all’emergenza pandemica, soprattutto a causa dell’assenza di politiche di governance lungimiranti ed efficaci. Difatti, i numerosi prestiti che i governi libanesi hanno ricevuto nel corso degli ultimi decenni a spese dei cittadini hanno solo nutrito il sistema politico corrotto, senza andare a investire in settori fragili come quello sanitario, la cui precarietà è stata evidente soprattutto nella gestione fallimentare delle misure di contenimento della pandemia e del piano vaccinale. Al contempo, i sempre più frequenti blackouts – che nell’estate scorsa hanno raggiunto le 22 ore consecutive – hanno compromesso ulteriormente la capacità ospedaliera. In aggiunta, il Libano ha subìto un esodo senza precedenti di personale sanitario non più disposto a lavorare con stipendi diminuiti e senza infrastrutture e apparecchiatura adeguate, un fenomeno che sta compromettendo l’ottima reputazione di cui la sanità libanese godeva rispetto ad altri Paesi arabi.

Un altro elemento destabilizzante è legato all’impatto della pandemia nei campi profughi. Il Libano ospita una delle più grandi comunità di rifugiati per capita al mondo (quasi 1 milione e mezzo di rifugiati su una popolazione di nemmeno 7 milioni di abitanti) e sono stati soprattutto i profughi ad aver particolarmente risentito della crisi sanitaria, come testimoniano i dati raccolti dalle Nazioni Unite (secondo cui la percentuale di morti per Covid-19 in Libano è maggiore di tre volte tra i rifugiati, con 200 vittime su 5.800 persone infettate). Inoltre, nonostante i rifugiati rappresentino un terzo della popolazione libanese, la percentuale di coloro che ha ricevuto un vaccino è ancora tremendamente bassa.

L’esplosione del porto di Beirut il 4 agosto 2020 ha infine tragicamente segnato il punto di non ritorno verso il collasso del sistema economico e politico libanese. Oltre alle perdite umane – vi sono state infatti 200 vittime, più di 6.000 feriti e decine di migliaia di sfollati – l’esplosione ha apportato un danno economico stimato di 4 miliardi di dollari, visto che il porto di Beirut costituiva il principale punto di arrivo delle importazioni dall’estero. Un evento che rappresenta anche un turning point politico, in quanto evidenzia il fallimento del governo libanese nel vigilare sui depositi esplosivi in pieno centro città nonché, a nove mesi dall’accaduto, nell’individuare i responsabili. Infatti, proprio dagli eventi dello scorso agosto, è scaturita una crisi politica tutt’ora in corso. Dopo le dimissioni del neonato governo di Hasan Diab, l’incarico per formare un nuovo governo è ricaduto sul diplomatico Mustapha Adib, in un tentativo di dare alla piazza un volto nuovo. Tuttavia, l’incapacità di Adib di dar vita a un esecutivo ha portato il Presidente Michel Aoun ad affidare tale compito a Saad Hariri, uno dei rappresentanti del vecchio establishment politico contro cui i libanesi hanno largamente protestato durante la thawra del 2019, costringendolo alle dimissioni all’epoca dei fatti. Il ritorno in scena di Hariri però non ha scardinato lo stallo esistente accentuando ulteriormente la frattura tra società ed élite e acuito la disillusione del popolo libanese, che chiedeva a gran voce un rinnovamento politico-istituzionale generalizzato. È per questo che da quasi un anno i giochi di potere settari impediscono la formazione di un governo, aumentando il caos in cui versa il Paese. A subire lo scotto maggiore nell’attuale stato di confusione nazionale è stato lo stesso Hariri che ha rimesso il mandato al Presidente Aoun (15 luglio 2021) a causa di differenti percezioni personali e prospettive politiche sulla crisi che sconquassa il Paese. Questo passaggio può segnare un punto di non ritorno e contestualmente aprire un altro squarcio in un quadro complesso fatto di immobilismo (e per certi versi di ostruzionismo) che butta nuova benzina su un contesto incendiario.

In questo vuoto di potere politico-istituzionale anche la pandemia ha contribuito in modo determinante nel preservare quelle occasioni di paralisi e riaffermare con forza il sistema settario che la piazza chiedeva di smantellare. Lo Stato centrale imploso e incapace di fornire beni e servizi sta infatti costringendo i cittadini a ricorrere alle radicate strutture clientelari delle comunità religiose. Oltre al controllo degli ospedali, le comunità e i partiti religiosi si spartiscono adesso anche la fornitura di vaccini, rendendo il Libano uno dei pochissimi Paesi al mondo che ha delegato parte dell’approvvigionamento vaccinale a imprenditori privati.

Nella situazione di crisi e di latitanza attuale anche Hezbollah ha sfruttato e potenziato il suo ruolo nell’intricato sistema di welfare settario. Il Partito di Dio ha esteso la sua sfera di influenza fino alla periferia meridionale di Beirut, servendosi di clan locali che già godono di consenso nella zona. Forte dei finanziamenti iraniani, il partito di Nasrallah ha ampliato la rete di servizi che già offriva nel sud del Libano creando una catena di supermercati ai quali si accede solo con la tessera del partito e dove vengono venduti beni provenienti da Siria, Iraq e Iran a prezzi ridotti rispetto a quelli libanesi. Infatti, Hezbollah ha da tempo affiancato alla natura di milizia armata quella istituzionale di partito politico (che attualmente fa parte della coalizione di governo e occupa 12 seggi in Parlamento) e l’estensione delle dinamiche assistenzialistiche al di fuori delle comunità originarie di appartenenza è proprio funzionale a un rafforzamento futuro del consenso politico all’interno della cornice della lotta settaria per il potere.

In relazione alle pressioni di Hezbollah, bisogna considerare la situazione delle Forze Armate nazionali. Negli ultimi mesi l’esercito libanese ha infatti denunciato fame e sofferenza a causa dei tagli di fondi da parte del governo. A tal proposito, la Francia ha organizzato una conferenza in sostegno alle Forze Armate Libanesi (LAF) in cui le potenze partecipanti – tra cui Emirati Arabi Uniti, Cina, Stati Uniti – sono state esortate a fornire i beni di cui l’esercito necessita. Il tema è di particolare rilevanza in quanto l’esercito rappresenta una delle poche istituzioni ancora solide e un malcontento tra i militari potrebbe ulteriormente minare la tenuta dell’ordine pubblico e far guadagnare terreno a forze paramilitari come le milizie di Hezbollah. Tuttavia, gli sforzi internazionali a sostegno dell’esercito sono limitati al mantenimento dello status quo. Infatti, Israele, l’alleato USA e alcuni Stati del Golfo non hanno alcun interesse nel potenziare l’esercito libanese, in quanto questo potrebbe poi rappresentare un ulteriore competitor nello scenario regionale. È importante sottolineare infatti che le Forze Armate Libanesi non sono un corpo sovrano indipendente ma in alcuni territori occupano una posizione subalterna con le forze parastatali. Spesso c’è stata una cooperazione tacita tra le LAF e le milizie di Hezbollah nel sud del Libano e nella Valle della Beqa’a, territori in cui da tempo la difesa dei confini non spetta più all’esercito nazionale ma a corpi militari irregolari.

Tuttavia, nemmeno Hezbollah è immune dagli effetti delle crisi libanesi e vede difficoltà soprattutto nell’elaborazione di una strategia di lungo periodo. Sebbene sia ormai forza attiva e integrata nelle dinamiche di potere, appare difficile che l’attore ibrido riesca a fare il salto di qualità e a trasformarsi in un’autorità in grado di traghettare il paese verso la stabilità. Hezbollah si oppone fermamente agli aiuti internazionali ma al contempo non ha risorse interne per proporre una soluzione alternativa.

Se l’esercito gode ancora di una generalizzata legittimità da parte dell’opinione pubblica, non si può dire lo stesso delle forze di polizia. Queste ultime sono infatti considerate come espressione del potere sunnita e al servizio del mantenimento al potere di Saad Hariri e delle fazioni a lui vicine. La volontà di preservare il potere delle élites politiche originarie è visibile, infatti, nel generalizzato inasprimento della risposta della polizia verso il dissenso cittadino. Sin dall’ottobre del 2019, nonostante lo scoppio della pandemia, le proteste non si sono mai davvero sopite e, a fronte del peggioramento delle condizioni di vita degli ultimi mesi, i cittadini sono tornati con forza in piazza. Gli scontri tra forze di polizia e manifestanti si sono fatti più frequenti e violenti e Human Rights Watch ha denunciato sparizioni e maltrattamenti di attivisti anti-governativi. Inoltre, Amnesty International ha segnalato torture e arresti indiscriminati ai danni di profughi siriani nei campi dove risiedono precariamente. Il Libano sembra dunque ricorrere alle Forze Armate e alla violenza per difendere il potere, allontanandosi irrimediabilmente dall’eccezionalità di cui godeva a fronte di vicini regimi autocratici come Egitto e Arabia Saudita.

Osservando la prospettiva regionale e internazionale, la crisi libanese ha reso il Paese vulnerabile a nuove forme di ingerenza esterna. Le mire strategiche internazionali si sono concentrate in particolar modo attorno alla ricostruzione del porto di Beirut, un investimento che la Banca Mondiale stima attorno ai 2 miliardi di dollari. Il piano ha attirato numerose società straniere ed è diventato terreno di scontro tra alcune potenze europee e internazionali. L’ultimo progetto presentato proviene da Berlino e si scontra inevitabilmente con l’attore europeo predominante nel Paese dei Cedri, cioè la Francia. L’Esagono storicamente detiene un ruolo centrale in Libano e nell’ultimo anno si è fatto garante della transizione politica libanese – sebbene senza risultati – e ha recentemente adottato sanzioni contro politici corrotti libanesi, nel tentativo di far uscire il Paese dall’impasse politico.

Inoltre, la crisi libanese ha facilitato l’ingresso ad attori inediti. Con il disengagement regionale intrapreso dagli Stati Uniti – uno degli storici alleati libanesi – la Cina ha cominciato a investire nel Paese, finanziando fin dalla crisi del 2019 alcuni progetti infrastrutturali come il Beirut Music Centre e, in seguito alla pandemia, anche logistici come forniture mediche. L’impegno cinese in Libano è fortemente appoggiato anche da Hezbollah in un’ottica di svincolamento dal partner statunitense, che costituisce un ostacolo al partito di Nasrallah sin dal 2001, quando con la Global War on Terror il Dipartimento di Stato americano ha classificato l’attore ibrido libanese come organizzazione terroristica. In aggiunta, tra i nuovi attori in ascesa nel Paese compare anche la Russia. Il recente incontro tra Hariri e Putin (15 aprile 2021) ha riguardato la fornitura del vaccino Sputnik, oltre alla delimitazione di investimenti infrastrutturali e di tipo energetico così da allargare la propria presenza nella regione. Un aspetto che preoccupa Israele, sia per le relazioni che Mosca ha con Iran e Hezbollah sia perché questa interviene sulla disputa per i confini marittimi nel Mediterraneo Orientale, dove la contesa si concentra sulla delimitazione attorno ai giacimenti gasieri a largo delle coste libanesi e israeliane. La messa in discussione dei confini marittimi è un disperato tentativo da parte del Libano di far fronte alla crisi economica attraverso lo sfruttamento di nuovi giacimenti energetici. Tuttavia, lo sfruttamento di eventuali risorse dipende interamente dall’intervento di donors internazionali come Mosca, mettendo in luce il peso considerevole che il Cremlino potrebbe detenere nella disputa.

Infine, il ruolo che Hezbollah sta esercitando nel contesto di instabilità libanese non fa che aumentare la centralità del Paese dei Cedri nelle mire strategiche iraniane. Nonostante non sia il governo libanese a intessere rapporti con la Repubblica Islamica, il network di finanziamenti iraniani è penetrato indisturbato non solo nella comunità sciita, ma anche nell’economia dell’intero Libano. Allo stesso tempo, la crescente attività di forze iraniane sul territorio ha trasformato il Paese dei Cedri in una pedina nella rivalità tra Arabia Saudita e Iran, soprattutto in merito a diversi traffici illeciti che investono il Paese. Difatti, parallelamente ai beni essenziali che Hezbollah riceve dall’Iran, esiste un altrettanto sviluppato traffico di stupefacenti e armi che parte dal sud del Libano per arrivare in Siria e poi ai paesi del Golfo. L’ingente portata di questi traffici ha condotto l’Arabia Saudita alla decisione di intervenire, lo scorso 25 aprile, congelando le esportazioni libanesi di frutta e verdura verso il Paese degli al-Saud. Un embargo che aggrava la situazione economica degli agricoltori libanesi e aggiunge tensione tra Libano e Arabia Saudita, i cui rapporti si sono progressivamente incrinati da quando l’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman ha preso posizione verso l’attitudine lasciva del Presidente libanese Michel Aoun nei confronti di Hezbollah, dopo decenni di florida cooperazione. La crisi diplomatica attuale – il cui ultimo sviluppo vede l’accusa TV del Ministro degli Esteri libanese Charbel Wehbe agli stati del Golfo per aver agevolato la diffusione dello Stato Islamico – crea nuovi dissidi all’interno del governo libanese a causa degli stretti rapporti tra la famiglia Hariri e gli al-Saud.

In conclusione, la confluenza di crisi in Libano ha generato effetti disastrosi sul piano interno e alimentato molteplici piani di instabilità anche a livello regionale. Di giorno in giorno, il perpetuarsi dello stallo politico peggiora terribilmente le condizioni di vita dei cittadini libanesi e molti di essi stanno tentando di lasciare il Paese. La rabbia sociale è molto elevata e potrebbe esplodere ancora una volta contro la classe politica– a tratti parsa impassibile – incapace davanti alla deriva del Paese. Nonostante gli appelli diffusi alla responsabilità, il Libano, così come ha affermato nei giorni scorsi l’ex Premier Hassan Diab, “è sull’orlo del disastro totale”, un baratro dal quale si fatica a scorgere una concreta via di uscita. In questa situazione di elevata vulnerabilità, le dinamiche settarie proliferano e si teme che attori prominenti come Hezbollah – benché indebolita – possano prendere il sopravvento, giocando un ruolo ancor più preminente sul piano politico e di sicurezza anche in antagonismo alle Forze Armate libanesi. Un elemento importante ancor più se inquadrato in chiave regionale, in quanto il Paese potrebbe diventare terreno di scontro tra i rivali regionali saudita e iraniano nonché incorrere nella postura difensivo-offensiva di Israele. Tuttavia, in questo contesto di caos emerge con forza una certezza: qualsiasi soluzione alla crisi libanese non può venire dall’esterno, ma solo dalla necessaria capacità di compromesso tra i diversi attori interni.

Articoli simili