Summit UE-GCC: una partnership che punta a superare l’incertezza
Medio Oriente e Nord Africa

Summit UE-GCC: una partnership che punta a superare l’incertezza

Di Andrea Fusco
20.11.2024

Il 16 ottobre a Bruxelles si è tenuto il primo storico summit tra i vertici dell’Unione Europea (UE), seguiti da 21 dei 28 leader degli Stati membri, e i rappresentanti del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Annunciato come il culmine del riavvicinamento avvenuto negli ultimi anni tra le due organizzazioni, partendo dalla Dichiarazione congiunta dell’Unione Europea rivolta a un “Partenariato strategico con il Golfo” del maggio 2022, figurano 3 importanti macro-temi al centro dei colloqui terminati tra le parti: ricerca di pace e sicurezza (con particolare focus rivolto al conflitto russo-ucraino e la guerra a Gaza), cooperazione economico-commerciale e lotta al cambiamento climatico attraverso una più stretta collaborazione sul piano energetico. L’attuale panorama internazionale in corso di riconfigurazione, specie dopo l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, ha contribuito in modo sostanziale a quest’accelerazione nella speranza di sviluppare progetti congiunti di cooperazione tra due soggetti apparentemente distanti. Infatti, l’impressione che si stia assistendo a un periodo di transizione verso un sistema multipolare sembra diffondersi tanto a Bruxelles quanto nelle cancellerie arabe del Golfo Persico. Un periodo storico contrassegnato da queste ipotesi di partenza ha quindi posto condizioni tali da inaugurare una nuova e approfondita fase di dialogo in più settori, alimentata dalla necessità di salvaguardare i propri interessi.

Sul fronte energetico, il conflitto russo-ucraino in corso da febbraio 2022 è stato un evento spartiacque che ha spinto Bruxelles a riconsiderare i suoi approcci verso il Golfo Persico, nel tentativo di ridurre al minimo la dipendenza europea dalle importazioni russe. Nel 2021, circa il 40% delle forniture di gas naturale e il 27% del petrolio dell’Eurozona erano legate al commercio con Mosca, dati che al momento sono scesi al 18% per quanto concerne il gas e al 3% riguardo all’approvvigionamento petrolifero. Ad aver contribuito a questa riduzione sono stati diversi fattori, partendo dall’utilizzo di gas naturale liquefatto (GNL) e il ricambio dei fornitori di greggio, entrambe queste necessità sopperite, insieme ad altri attori come l’Algeria, dai Paesi del GCC. A titolo esemplificativo, lo scorso anno 15 milioni di tonnellate di GNL sono state importate dal Qatar (circa il 20% della produzione complessiva del Paese), mentre le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita, che beneficiando di questa riconfigurazione nelle catene di approvvigionamento ha raggiunto il primato di massimo esportatore mondiale, hanno raggiunto i 600.000 barili al giorno. Nonostante la lettura di questi dati debba tener conto di diverse variabili in gioco (volumi di importazione, infrastrutture e contratti per lo più), tali iniziative rientrano tutte nell’ombrello del piano REPower EU, elaborato dalla Commissione Europea per dare una direzione strategicamente orientata al dossier energetico, legando interessi politici (come il distacco dal competitor russo) a necessità sul piano dell’approvvigionamento e del commercio con attori esterni. Fermo restando gli accordi siglati per quanto concerne i combustibili fossili, dettati dall’urgenza di una rapida diversificazione nelle importazioni europee, anche i progetti d’investimento in materia di transizione green hanno portato alla convergenza di vedute UE e GCC. Protagonisti nel mercato energetico per decenni grazie alle ampie riserve di petrolio nel sottosuolo della regione, gli attori arabi hanno percepito la necessità di adattarsi velocemente agli standard di decarbonizzazione e riduzione nello sfruttamento di combustibili fossili per fronteggiare la lotta al cambiamento climatico; se da un lato è difficile stimare il reale interesse nella tutela ambientale, fondata principalmente su valori idealistici, meno complesso è il calcolo utilitaristico per quanto concerne i benefici economici derivati dal commercio con Bruxelles e le stringenti norme che legano investimenti a lungo termine ai parametri di sostenibilità. Parallelamente allo sfruttamento delle rinnovabili (eolico e solare), continua a crescere l’interesse per l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio e l’implementazione dei progetti alimentati a idrogeno. Si segnalano in questo caso le imponenti iniziative portate avanti da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; da parte di Riyadh, la corsia preferenziale stipulata tramite la negoziazione di un Memorandum d’Intesa con l’Unione Europea ad aprile, durante il Forum di Davos, si concentra sulle potenzialità dell’ambizioso progetto Neom, che punta a costruire un impianto capace di produrre fino a 600 tonnellate di idrogeno verde al giorno, seguita alla recente costituzione dell’Energy Solution Company, sussidiaria finanziata dal Fondo di Investimento Pubblico saudita per 10 miliardi di dollari nella produzione esclusiva di idrogeno verde. Per quanto riguarda Abu Dhabi, l’ultima rilevante novità è il primato raggiunto nel processo di decarbonizzazione nel settore siderurgico attraverso l’utilizzo d’idrogeno verde, portato avanti dalla collaborazione tra Emsteel e Masdar. Nonostante gli importanti costi iniziali da sostenere per inserirsi prezzi competitivi a livello commerciale, la cifra che si attesta tra i 40 e i 50 miliardi di dollari per implementare l’ambiziosa “Strategia Idrogeno 2050” testimonia il reale interesse di attirare investimenti esteri (in cui rientrano, in questo caso, attori europei come la Germania e Spagna) in ragione delle previsioni che stimano a 129 miliardi di dollari il valore di mercato del cosiddetto acciaio verde (contro gli attuali 3,75 miliardi). Infine, l’interesse europeo è legato anche alle ambizioni del sultanato dell’Oman, che punta a produrre fino a 1,5 milioni di tonnellate d’idrogeno verde entro il 2030, per arrivare a 8,5 milioni nel 2050, con l’obiettivo di diventare tra i principali esportatori mondiali del prodotto.

Dal punto di vista commerciale, è tornato sul tavolo negoziale il dossier inerente alla stipula di accordi di libero scambio tra le due organizzazioni, in stallo dal 2008 e riportato fra i traguardi auspicabili nel breve-medio termine per agevolare l’interscambio di merci evitando barriere doganali economicamente inefficienti per aumentare i volumi di scambio inter-regionali. Allo stesso tempo, l’UE occupa circa l’11% del commercio complessivo del GCC, attestandosi come secondo partner preceduto solo dalla Cina con il 16%, un dato che richiama a una riflessione più ampia del panorama in cui s’inserisce quest’importante summit. Nonostante sia indubbio il successo dell’evento, tenendo conto anche di fattori simbolici come la presenza di leader come il Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il Presidente francese Emmanuel Macron, la stessa incertezza sistemica che ha orientato la convergenza d’interessi tra queste due importanti realtà sovranazionali porta con sé alcune questioni irrisolte, che potrebbero rallentare il ritmo dei lavori. Non risultano infatti dichiarazioni congiunte e coerenti per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti in Ucraina e a Gaza, dal momento che sul fronte arabo la linea diplomatica intrapresa nei confronti della Russia è rimasta piuttosto sorda al richiamo occidentale per quanto concerne le sanzioni economiche e l’isolamento politico di Mosca; d’altra parte, la pesante condanna di Ursula Von der Leyen rispetto alle azioni russe non è sembrata commisurata all’accenno sull’operato dell’Esercito israeliano a Gaza e in Libano. È utile ricordare che il comune interesse in materia di sicurezza e prosperità economica tra GCC e UE si regge sul fattore della succitata incertezza riguardo agli esiti di decisive competizioni a livello regionale (Iran-Israele) e sistemiche (Stati Uniti-Cina/Russia), e i punti di vista tra questi attori, anche a livello di singoli Paesi all’interno delle coazioni, possono differire. Sul fronte del Golfo, è ormai consolidato uno spirito di apertura multilaterale per evitare di alienarsi capacità di manovra attraverso la cooperazione tanto con gli elementi del fronte occidentale (come in questo caso), quanto con la già citata Cina e, a cascata, l’eterogenea coalizione dei BRICS+. La visione di Bruxelles, da un punto di vista formale, è dichiaratamente più schierata dietro l’ombrello militare dell’Alleanza Atlantica e politico di stampo statunitense, e nonostante questo rinnovato pragmatismo orientato al dialogo con soggetti come il GCC, ponendo in secondo piano storici capisaldi come l’interesse nella tutela dei diritti umani, deve affrontare due questioni, una di carattere interno e l’altra legata allo storico alleato d’oltreoceano. Riguardo al primo punto, la problematica di lungo corso acuitasi nell’ultimo periodo riguarda la frattura identitaria espressa dal successo di determinate forze politiche che compongono il mosaico europeo, dove l’avanzamento di fenomeni diffusi come il populismo, crisi migratoria e progressivi trionfi elettorali di coalizioni antisistema nel panorama politico dei vari Stati membri (eloquente è l’esempio di Alternative für Deutschland in Germania) rischia di minare alla radice la credibilità e affidabilità in ambito internazionale di un gigante politico-normativo come quello europeo. Sul fronte esterno, la recente conferma del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca apre una finestra d’incognite per quanto concerne la solidità del blocco euro-atlantico in termini di cooperazione sul piano economico-commerciale e, soprattutto, della sicurezza. La retorica del tycoon in merito al conflitto russo-ucraino sembra suggerire un futuro disimpegno americano per quanto riguarda il supporto a Kiev (mentre l’amministrazione uscente, presumibilmente in vista di tale possibilità, ha da poco concesso il via libera per la consegna dei missili a lungo raggio all’esercito ucraino), scaricando su Bruxelles e Stati membri l’onere difensivo del fianco orientale del Vecchio Continente, complicando di conseguenza i rapporti con lo storico alleato; allo stesso tempo, ad attendere le prime mosse di Washington è il blocco del GCC, che verosimilmente negozierà con l’establishment statunitense garanzie per quanto riguarda il contenimento del rivale iraniano nella regione attraverso un più stretto coordinamento in termini di fornitura d’armamenti e accordi legati a dossier strategici come le nuove tecnologie, la condivisione sul piano dell’intelligence e il delicato processo di normalizzazione nelle relazioni con Israele (in particolare con la controparte saudita) sulla scia del passato progetto rinominato come Accordi di Abramo.

Il summit GCC-UE s’inserisce, quindi, in quadro più esteso di riconfigurazione di equilibri regionali e globali, dove il fattore dell’incertezza riguardo agli esiti in questo periodo di transizione traina una progressiva ricerca orientata alla saldatura di alleanze tra gli attori che per motivi di sicurezza ed economici rischiano di subire i costi indiretti delle crisi in corso. Nonostante esistano punti di contatto e, verosimilmente, sul versante energetico/commerciale saranno compiuti passi in avanti nelle relazioni tra le due organizzazioni, la stessa volatilità che ha portato all’avvicinamento potrebbe interrompere bruscamente i lavori in corso, tenendo conto degli elementi di attrito presenti all’interno dell’Unione Europea, dell’incognita legata alle nuove politiche dell’Amministrazione Trump e dell’opportunismo consapevole esercitato dagli attori del GCC, in attesa di riconoscere le coordinate di maggiore convenienza da seguire nel futuro prossimo.

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