Le Banlieue, l’incubatrice del jihadismo europeo
Gli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia nel corso del 2015 hanno sottolineato alcune evidenti tendenze evolutive del fenomeno jihadista europeo. Tra queste, le più importanti sono il consolidamento del fenomeno eversivo islamico-radicale autoctono e la definitiva consacrazione della Banlieue (periferia urbana) quale luogo fisico per l’incubazione e la crescita del terrorismo di ispirazione fondamentalista e di matrice marcatamente nazionale.
Innanzitutto, occorre precisare che la Banlieue non va riferita strictu sensu a quell’area urbana di Parigi compresa tra il centro allargato, nucleo della vita economico-politica e della popolazione benestante, bene educata e cosmopolita, e la corona periurbana, con il suo arcipelago di municipalità frammentate ed eterogenee. Al contrario, l’espressione si riferisce più ampiamente alla periferia intesa come dimensione politico-sociale e geografica comune a diverse megalopoli europee. Tuttavia, appare innegabile che a Parigi e Bruxelles, in alcune Banlieue, la radicalizzazione in senso jihadista abbia raggiunto un’entità e dei numeri preoccupanti. In questo senso, il caso franco-belga può servire sia da modello orientativo per l’analisi di altri scenari urbani europei sia da monito per i governi e le istituzioni nell’elaborazione di una strategia di contrasto e prevenzione.
La Banlieue parigina è un agglomerato urbano altamente variegato, composto da migliaia di cité (conglomerati abitativi) e suddivisibile in due grandi macro-gruppi: il primo, corrispondente alla periferia benestante, include i quartieri de La Défense e zone quali Verrières-le-Buisson, Bourg-la-Reine, Antony, Fontenay-aux-Roses, Sceaux; il secondo, riferibile alla periferia degradata e fatiscente (Banlieuee défavorisée), caratterizzato da alti tassi di criminalità e che include aree ritenute generalmente pericolose quali Bagneux, Malakoff, Massy, Les Ulis, Clichy-sous-Bois, Courneuve. Nel primo gruppo, la maggioranza della popolazione è agiata e si autodefinisce con l’appellativo di Français de souche (Francesi dalle radici, spesso con riferimento alla discendenza e all’etnia caucasica). Nel secondo gruppo, la popolazione è prevalentemente straniera o di ascendenza coloniale (Algeria, Marocco, Africa Francese). Si tratta spesso di immigrati o di figli di immigrati. Queste zone sono caratterizzate da alto tasso di disoccupazione e grave penuria qualitativa e quantitativa di servizi ed assistenza sociale. Oltre alle municipalità della Banlieue, una simile situazione economico-sociale è presente in alcuni comuni della corona periurbana della capitale. Al pari di Parigi, anche Lione e Marsiglia soffrono della problematica del disagio delle periferie.
Per quanto riguarda il Belgio, la decomposizione della struttura socio-economica nazionale si avverte non soltanto in alcuni quartieri di Bruxelles, ma soprattutto nei piccoli comuni esterni della regione di Bruxelles-Capitale e in quelli dell’entroterra rurale del Paese.
Il tratto caratterizzante della Banlieue francese e belga è la distanza non solo geografica ma sociale, politica e culturale rispetto al centro della città e ai valori e agli stili di vita che la contraddistinguono. Infatti, osservando le periferie in questione, si ha la netta percezione di trovarsi in una realtà alternativa rispetto al resto del Paese, assai inferiore per qualità e benessere nonché sottoposta ad autorità de facto diverse rispetto a quelle statali. Non è un caso che, storicamente, la Banlieue sia stata uno dei più ardenti focolai del malessere sociale della popolazione francese e la fucina di creazione e proliferazione di modelli culturali in aperto contrasto con quelli dominanti. Basti ricordare che, all’indomani della stagione delle proteste del 1968 e del 1977, che furono due fenomeni ascrivibili a forze “centrali” dal punto di vista politico e geografico (studenti, intellettuali e operai), è stata la periferia a continuare la critica frontale alle istituzioni, radicalizzando le istanze provenienti da partiti e società civile di orientamento socialista e comunista. Basti pensare che molte delle attuali Banlieue degradate un tempo erano chiamate Banlieue rouge (periferie rosse) per il loro marcato orientamento anarchico e comunista, spesso in rotta con l’ortodossia dei partiti parlamentari e dei sindacati.
Tuttavia, a partire dalla fine degli anni 70, oltre alla critica attraverso filtri culturali e identitari occidentali, nelle Banlieue ha cominciato a diffondersi un movimento di protesta e di malcontento sociale di spiccata matrice arabo-islamica. In questo modo, emarginazione socio-politica, difficoltà economiche e questione identitaria hanno cominciato a fondersi. La popolazione franco-maghrebina ha iniziato a cercare il proprio riscatto attraverso la rivalutazione delle proprie radici culturali e religiose in uno Stato il cui modello di integrazione e di cittadinanza si è sempre basato sul più fermo laicismo e sull’assimilazione delle diversità.
Ovviamente, un simile processo ha avuto sin dal principio correnti moderate e correnti massimaliste. Queste ultime sono state alimentate dal richiamo esercitato dall’invasione sovietica dell’Afghanistan e dalla Rivoluzione Iraniana, due eventi che hanno acceso un forte dibattito interno alle comunità musulmane autoctone e che hanno facilitato la diffusione in Europa della letteratura islamista radicale nata in Egitto negli anni ‘50. In particolare, il jihad anti-sovietico è stato il primo “mito fondativo” sul quale alcuni giovani musulmani francesi e belgi, sia di origine autoctona che di discendenza maghrebina, avrebbero costruito la propria radicalizzazione. Presto, al fianco del jihad anti-sovietico si sarebbe affiancata una lettura in senso islamista della Guerra d’Indipendenza Algerina, non più vista come la lotta di un popolo arabo per l’autodeterminazione bensì come la guerra santa di un popolo musulmano per la cacciata dei miscredenti da un territorio sacro dell’Islam.
Non a caso, la prima evidente manifestazione del disagio della comunità araba e musulmana delle Banlieue è del 1981-1985, quando i Beur (espressione con cui venivano generalmente indicati i francesi di origine maghrebina) hanno cominciato a mettere a ferro e fuoco le periferie di Parigi. Allo stesso modo, questo disagio è esploso nuovamente nel 2005, quando l’Eliseo ha addirittura deciso di imporre lo stato d’emergenza a 50 anni di distanza dall’ultima volta. Già nel 2005 è stato possibile osservare non solo l’accresciuta violenza e organizzazione delle frange estremiste dei manifestanti, ma anche la loro marcata ideologizzazione e progressivo rifiuto dei valori francesi e occidentali. Nel 2005, l’insurrezione delle Banlieue è stata una protesta sociale nella quale la componente islamica ha giocato un ruolo secondario in termini di numeri, ma non in quanto ad importanza. Infatti, nei ventiquattro anni trascorsi tra il 1981 e il 2005, non solo il richiamo all’islamismo e alla connessione tra questione sociale e questione identitario-religiosa si è fatto più forte, ma il proselitismo jihadista ha guadagnato notevoli posizioni, consolidando un network stabile e in grado di gestire finanziamento, propaganda e reclutamento di foreign fighters. La radicalizzazione dei giovani musulmani francesi è stata agevolata dalla diffusione di altri “miti” propagandistici e di altre invocazioni al jihad, quali la guerra civile algerina, il ruolo dei mujaheddin nel conflitto jugoslavo, l’attacco alle Torri Gemelle, la guerra in Afghanistan nel 2001 e quella in Iraq del 2003.
In questo contesto sociale, prima al-Qaeda e poi lo Stato Islamico hanno saputo manipolare il malcontento sociale, i problemi legati alla disoccupazione, la ricerca della propria identità da parte delle comunità franco-maghrebine. La radicalizzazione è avvenuta in maniera variegata, attraverso il contatto diretto, sia in strada che nelle carceri, o mediante i canali telematici e internet. In questo caso, la responsabilità non è da attribuire alle moschee o ai centri culturali ufficiali, bensì alla reti di imam e predicatori estremisti che popola il sottobosco sociale della periferia francese ed europea, dalla Svezia fino alla Germania, dalla Bosnia al Kosovo. Inoltre, anche l’Islam moderato non è riuscito a fare una significativa breccia nei luoghi più degradati della periferia, in quanto le sue associazioni di riferimento sono state spesso etichettate come estranee alle reali esigenze della popolazione e in combutta con il potere centrale. In alcuni casi, anche attraverso la dirompenza di una forma musicale tipicamente occidentale come il rap, le frange e i sostenitori dell’Islam radicale hanno accusato i moderati di apostasia. Dunque, in un sincretismo che ha contagiato una esigua minoranza dei musulmani delle Banlieue, dottrina takfir e protesta sociale sono diventate due facce della stessa medaglia. Un ulteriore dato preoccupante risiede nel fatto che la stragrande maggioranza dei foreign fighters francesi (circa 700 ad oggi) e dei principali attivisti radicali o con sospetti legami con organizzazioni eversive non fossero musulmani praticanti prima della loro radicalizzazione. Questo a riprova di come la propaganda jihadista non cerchi proseliti principalmente in base a criteri religiosi o tra i meri praticanti, bensì sulla base dell’alienazione sociale.
Dunque, esiste una linea precisa e visibile che unisce le proteste del 1981, quelle del 2005 e gli attentati di Parigi del 2015. Cambiano la metodologie, gli attori, la manifestazione del dissenso e del disagio, ma la radice e l’origine sono comuni. Tuttavia, esiste una profonda e determinante differenza rispetto al passato. Nella rivolta del 2005 la rete jihadista era molto più debole e la gioventù alienata delle Banlieue, pur criticando il sistema socio-economico francese, confidava di poter riformarlo e sentiva un legame culturale e di appartenenza più forte. Dunque, in quell’occasione, il malessere sociale si era sfogato prevalentemente in maniera laica, anche perché l’entità della protesta era talmente ampia da non permettere alle estreme minoranze islamiste di avere un ruolo centrale. Dopo il 2005, l’insieme della stretta repressiva delle istituzioni, della mancanza di un adeguato piano di recupero delle periferie e dell’offensiva propagandistica e, probabilmente, assistenziale dello Stato Islamico hanno contribuito ad allargare il numero di proseliti jihadisti. Infatti, non è da escludere che il network di al-Baghdadi sia stato molto più efficace della rete qaedista sia nell’offrire un attraente e penetrante modello ideologico sia nel sostenere le famiglie dei miliziani con donazioni in denaro, attraverso fiancheggiatori e strutture nascoste.
Per questa ragione, riferendosi alla radicalizzazione francese (ed europea in generale) si deve parlare di jihadismo europeo tout court e non di un fenomeno esclusivamente importato e perpetrato da stranieri sul territorio continentale. Per essere chiari, il network terroristico globale esiste e permette spostamenti, finanziamento e addestramento, ma i miliziani sono squisitamente cittadini europei. L’arruolamento nelle milizie dello Stato Islamico o in quelle di al-Qaeda e l’esperienza nei fronti jihadisti in Medio Oriente e Nord Africa rappresentano l’occasione sia per ricevere adeguato addestramento sia per effettuare quel viaggio “iniziatico” necessario per portare a culmine il processo di radicalizzazione e completare la formazione jihadista. Questo non solo per avere soldati da impiegare sul campo o fabbricatori di esplosivi ma, soprattutto, per avere martiri disposti a morire. In questo senso, la manifestazione e l’impiego di attentatori suicidi negli attacchi del 13 novembre a Parigi rappresentano in maniera evidente il salto di qualità ideologico e logistico raggiunto dal network autoctono attraverso la maglia franco-belga.
Infatti, la pianificazione e l’organizzazione degli attacchi, oltre alla rete di copertura utilizzata per sfuggire alla polizia francese, hanno evidenziato come la Banlieuee ospiti una struttura e una filiera complessa per la fabbricazione di giubbotti esplosivi, lo stoccaggio delle armi e del munizionamento, il comando e controllo delle operazioni. Simili attività sono possibili esclusivamente se la vigilanza dello Stato è flebile e se sussiste il controllo del territorio. In questo senso, non si può trascurare, con le dovute cautele del caso, il collegamento tra statalizzazione/territorializzazione dei movimenti jihadisti e radicamento delle reti jihadiste e fondamentaliste islamiche nelle periferie parigine e bruxellesi. Al pari di Mosul, Raqqa e della provincia irachena di Anbar, alcune citè della Banlieue sono il territorio controllato dalle reti jihadiste. Il meccanismo di sedimentazione del potere territoriale usato dalle reti jihadiste francesi e belghe è paragonabile, per alcuni aspetti, a quello utilizzato dalle organizzazioni criminali in Italia, Germania e Stati Uniti. In questo modo, alcuni agglomerati abitativi degradati di Parigi e Bruxelles risultano del tutto simili al quartiere Scampia di Napoli controllato dalla camorra, o alla Little Italy degli anni 20 e 30 in balia della Mano Nera o, ancora, alla China Town appannaggio della Triade.
Per comprendere l’entità del fenomeno jihadista nelle periferie di Parigi e Bruxelles, oltre agli attacchi nella capitale francese, è opportuno analizzare la filiera terroristica belga. Questa si concentra sia in cittadine a maggiore vocazione rurale, come Verviers, luogo che ospitava la cellula smantellata nel gennaio 2015, sia in specifiche aree della capitale. In particolare, uno dei quartieri più prolifici per la militanza radicale è Molenbeek-Saint-Jean, nella regione occidentale della città, e più precisamente nell’area attorno a Chaussée de Gand.
La proficuità della filiera jihadista franco-belga è perfettamente testimoniata dai numeri, dalla provenienza e dalle connessioni dei miliziani implicati in alcuni tra i più gravi atti di terrorismo degli ultimi anni. Con riferimento agli attacchi di Parigi del 13 novembre, Ismaël Omar Mostefaï era originario di Courcouronnes, nella Banlieue sud orientale di Parigi, Samy Amimour era di Drancy, periferia nord, Bilal Hadfi era di Neder-over-Hembeek, piccolo centro del Belgio. Infine, i fratelli Brahim e Salah Abdeslam e Abdelhamid Abaaoud, l’ideatore degli attacchi, erano tutti e tre originari di Molenbeek-Saint-Jean.
Allo stesso modo, se si analizzano alcuni precedenti attentati europei, si può osservare che Molenbeek ha dato i natali o funto da base operativa per jihadisti del calibro di Abdessatar Dahmane, uno degli assassini di Ahmad Shah Massoud (il Leone del Panjshir), comandante dell’Alleanza del Nord durante la guerra civile afghana, per Youssef e Mimoun Belhadj e Hassan el-Haski, cervelli degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, per Nemmouche Mehdi, autore della strage del Museo Ebraico del Belgio. Inoltre, Amedy Coulibaly, tra gli attentatori di Parigi nel gennaio 2015, si è procurato armi ed equipaggiamento nello stesso quartiere.
Alla luce delle considerazioni fatte sinora, i governi europei e le istituzioni dell’Unione appaiono preoccupati per lo sviluppo futuro del fenomeno jihadista autoctono. Infatti, anche se Belgio e Francia rappresentano gli esempi più evidenti, le periferie delle grandi città tedesche, danesi, olandesi, inglesi, svedesi e italiane potrebbero presentare analoghe problematiche. Certo, la radicalizzazione franco-belga ha radici culturali e storiche diverse da quelle del resto dell’Europa, ma la combinazione del proselitismo dello Stato Islamico, dell’alienazione socio-economica di una parte della popolazione musulmana e dell’eco mediatica degli attacchi di Parigi potrebbe favorire la crescita del fenomeno di radicalizzazione e dello spirito di emulazione. Infatti, la morte degli attentatori di Parigi e il loro “martirio” potrebbero spingere nuclei più o meno strutturati e più o meno radicalizzati ad imitare le gesta del commando franco-belga.
Nell’implementazione di una strategia di contrasto al proselitismo jihadista, le istituzioni europee non dovrebbero mai dimenticare l’intima natura sociale della problematica in questione. Il fatto che giovani europei prima siano stati affascinati dalla figura di Bin Laden e dopo abbiano trovato addirittura un modello di riferimento nel Califfo al-Baghdadi, è sintomatico della crisi valoriale delle nostre società e, soprattutto della crisi dello stato sociale. Dunque, nella costruzione di un adeguato piano di prevenzione di atti terroristici come quelli che hanno insanguinato di recente il Vecchio Continente, oltre agli strumenti dell’intelligence e della sicurezza, i Paesi europei dovrebbero seriamente considerare l’efficacia di un vasto programma sociale per il ripensamento dell’attuale modello di integrazione e il recupero di quelle fasce della popolazione più vulnerabile.