L’accordo che riconcilia Hamas con al-Fatah e la primavera araba
Il 4 maggio 2011 al Cairo, nella sede del Quartier generale dell’intelligence egiziana, le fazioni palestinesi Fatah e Hamas hanno firmato il patto di riconciliazione che, mettendo fine alla loro frattura, apre la strada alla nascita di un governo palestinese unitario di transizione. Il leader di Fatah Abu Mazen, Presidente dell’ANP, il leader di Hamas Khaled Meshal, nonché i segretari generali di undici diversi gruppi palestinesi sono riusciti a raggiungere un 'intesa, dopo quattro anni di scontri e divergenze. Hamas vuole la lotta armata per “la liberazione della Palestina”, respinge la spartizione dei territori palestinesi con Israele, ribadisce il diritto dei palestinesi al possesso integrale della loro terra. Hamas ritiene che l’unica battaglia è quella contro Israele ed esige uno Stato palestinese indipendente che abbia sovranità su Gaza e Cisgiordania.
Israele, che fin dalla nascita nel 1948 si è trovato accerchiato da nemici, ha una forma mentis di “fortezza assediata” nutrita peraltro dalla memoria storica delle aggressioni subite. Affidamento su di un robusto dispositivo militare dunque, e sulla risposta “sproporzionata”come cardini insostituibili della dissuasione. Basti pensare all’importanza del ruolo dell’esercito che rappresenta al contempo il fondamento della nazione e il crogiolo della società civile. La reazione all’intesa palestinese comprensiva di Hamas, un avversario, si colloca inevitabilmente in questo contesto.
L’accordo tra Hamas e Fatah ha provocato una concreta preoccupazione certamente a causa della postura di Hamas verso Tel Aviv, ma anche perché la divisione in fazioni non ha mai giovato a nessuna causa, e la frattura favoriva la già manifesta posizione di forza del governo di Netanyahu. Il governo israeliano ha dunque deciso di sospendere, immediatamente,ottantanove milioni di dollari destinati all’ANP nel timore che quei fondi finiscano per sostenere Hamas, che considera un’organizzazione terroristica.
Il 24 maggio 2011, Netanyahu davanti al Congresso americano dichiarava che Israele è pronto a compiere “compromessi dolorosi”, tra cui la cessione di territori, per giungere alla pace coi palestinesi e non ritornerà ai confini del 1967, poiché insicuri e indifendibili”. Manca secondo Tel Aviv, nel testo dell’accordo, il riconoscimento dello Stato Israeliano quale patria del Popolo ebraico. Hamas inoltre, in quella occasione, avrebbe dovuto rinunciare alla violenza e riconoscere il diritto di Israele a esistere.
Uno Stato Palestinese “democratico”, auspicato da Hamas, “nel quale coesistano musulmani, cristiani ed ebrei” non può convincere Israele, che ritiene impossibile una “democrazia islamica”, anche per i contenuti del Corano contro i miscredenti . Inoltre Israele ricorda al mondo che “Chi sostiene il diritto di Israe¬le a esiste¬re come Stato del popolo ebraico viene condannando apertamente dal terrorismo islamico che, dopo aver legittimato il massacro degli israeliani e degli ebrei, si è scatenato contro i cristiani e infine contro tutti i mussulmani che non si sottomettono al suo arbitrio”.
Sia il nostro ministro Franco Frattini che il segretario di Stato Usa Hilary Clinton hanno affermato che la condizione essenziale per il sostegno occidentale al governo palestinese è che Hamas adotti una linea di condotta ispirata al ripudio della violenza e al riconoscimento di Israele oltreché al mantenimento dei vecchi accordi con l’Autorità nazionale palestinese. Successive notizie sembrano contrastare con tutte le buone intenzioni di pace. Infatti ai primi di giugno si sono svolte manifestazioni con i dimostranti che hanno tentato di forzare il confine siriano con Israele sulle alture del Golan. I militari israeliani hanno aperto il fuoco provocando una ventina vittime. A sua volta Israele accusava la Siria di voler provocare disordini per distogliere l’attenzione mondiale dai gravi fatti di sangue provocati dal regime di Bashar Assad. Israele segue con inquietudine la destabilizzazione progressiva generata nell’area dalle sommosse nei Paesi arabi e teme contraccolpi per la propria sicurezza. Il quadro di una regione dove hanno sempre funzionato meccanismi di self-help è aggravato, adesso, dal disordine interno ai vari Paesi e Tel Aviv, come l’occidente, ha assistito con preoccupazione alla caduta dei regimi autocratici nei Paesi limitrofi.
Le istanze di progresso democrazia e miglioramento delle condizioni economiche alla base delle proteste, non si sono però coniugate con il fondamentalismo islamico. In molti casi la protesta è partita dai giovani disoccupati e dai ceti medi che hanno saputo cooptare le classi più disagiate nell’ondata di rimostranze. In altri termini il fondamentalismo islamico, fucina del terrorismo internazionale è il grande assente in questo quadro di instabilità regionale.
Il fondamentalismo non abiura ai principi della guerra religiosa per combattere e distruggere l’infedele. Il timore è sempre stato che lo sfruttamento delle popolazioni, la miseria, l’eccessiva differenza sociale provocando rabbia, odio, vendetta attirassero le fasce più disagiate della popolazione nella spirale del terrorismo. Malgrado queste comprensibili preoccupazioni, la seconda indipendenza dei popoli arabi, dopo il colonialismo, non ha visto altre bandiere se non quelle nazionali. Con la caduta di Mubarak, gli israeliani hanno inizialmente avuto la sensazione che per la prima volta dalla fine degli anni '70 si potevano trovare nuovamente circondati da nemici malgrado i militari al potere in Egitto abbiano confermato la validità del trattato con Tel Aviv del 1979.
Il recente assalto dei dimostranti all’ambasciata israeliana al Cairo però indica che la strada per la stabilizzazione interna in Egitto è ancora un processo soltanto agli inizi.Le proteste in Giordania, altro Stato ad aver firmato la pace con Israele con cui condivide un lungo confine, non dovrebbero travolgere la dinastia hashemita, ma accrescono l’instabilità in un Paese in cui la “questione palestinese “ è importante tema di politica interna. In Siria, Paese a maggioranza sunnita, il regime di Assad con la sua inclinazione pro- iraniana è ancora in gioco e non si vedono nell’immediato soluzioni ad un conflitto in cui la parte che prevarrà è tutta da definire.
Da ultimo i rapporti con la Turchia si sono seriamente incrinati superando il livello di guardia, ai primi di settembre, con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano ad Ankara in seguito al un rapporto ONU critico dell’azione israeliana in relazione all’incidente della Freedom Flottillia lo scorso 31 maggio. In questo quadro fluido l’accordo tra Fatah ed Hamas per la formazione del governo palestinese è probabilmente solo un segnale di ulteriore inquietudine per Israele. I rapporti bilaterali tra palestinesi e israeliani sono da tempo in crisi ma si tratta ( per tutti ) di una crisi di peso minore nel quadro di un’ ampia area geografica in grande fermento.
Adesso il riempimento del vuoto politico palestinese che aveva inibito il dialogo essenziale per la ripresa dell’eterno processo di pace ( dato che determinava per Tel Aviv la mancanza come controparte di un soggetto politico dal potere effettivo ) è stato effettuato mettendo nel gioco un attore che è per gli israeliani semplicemente un nemico. A breve si dovrebbe discutere l’eventuale ammissione “optimo iure” della Palestina alle Nazioni Unite, dove al momento gode soltanto di uno status di osservatore. Le probabilità di un risultato concreto in tal senso non sono elevatissime. A ben vedere poco rileva ai fini della ripresa di un dialogo per cui Israele non nutre, almeno al momento, particolare interesse. A ciò si aggiunga che, malgrado le dichiarazioni di buoni intenti per la creazione di due Stati, la questione palestinese a dieci anni dall’11 settembre non occupa esattamente il primo posto delle preoccupazioni di sicurezza dell’agenda internazionale.