Gaza, Libano e le prospettive di un nuovo caos mediorientale
Medio Oriente e Nord Africa

Gaza, Libano e le prospettive di un nuovo caos mediorientale

Di Giuseppe Dentice
04.07.2024

Le tensioni e le violenze crescenti lungo il confine tra Israele e Libano suggeriscono uno scivolamento costante verso un baratro sempre più pericoloso. Le rappresaglie e le azioni diversive da ambo i lati, le uccisioni eccellenti di comandanti di Hezbollah – l’ultima è quella di Abu Ali Nasser, dell’unità Aziz durante un attacco aereo israeliano contro un veicolo a Tiro, nel sud del Libano –, gli sfollamenti forzati delle popolazioni nelle soglie di vicinanza alla Blue Line, nonché le morti tra civili e militari su entrambi i fronti. Contestualmente, sul fronte diplomatico, l’Amministrazione Biden ha incaricato il suo Inviato Speciale, Amos Hochstein, di mediare gli sforzi per ridurre l’escalation del conflitto e portare stabilità al confine tra Libano e Israele. Sulla medesima lunghezza d’onda, anche le proposte e le iniziative arabe, con Egitto e Emirati Arabi Uniti molto attivi, sembrano mirate a scongiurare il peggiore scenario regionale tra quelli possibili.

In un contesto di tale portata sembra, quindi, difficile immaginare una de-escalation o una soluzione duratura alla crisi senza considerare le diverse varianti in gioco, a cominciare dall’interesse degli attori coinvolti, ognuno dei quali portato a perseguire la strada del conflitto con motivazioni differenti. Un’operazione militare in Libano è diventata un’opzione concreta e perseguibile da Israele per motivazioni di sicurezza (la necessità di ristabilire la deterrenza regionale e garantirsi una buffer zone sicura entro il territorio libanese nel quale la minaccia di Hezbollah sia più contenuta), a cui vanno necessariamente aggiunte considerazioni politiche (dell’esecutivo Netanyahu per lo più, interessato a mantenere lo stato di guerra il più a lungo possibile, quanto meno fino al post-elezioni negli USA, specie se dovesse vincere Donald Trump) e reputazionali ampie (il lancio di razzi di Hezbollah e una minaccia iraniana contro Israele può distogliere le critiche internazionali nei confronti di Tel Aviv per le operazioni in corso a Gaza e aiutare il Paese a ricostruire una sorta di alleanza occidentale-araba in funzione anti-Teheran). Non meno interessato a tale scenario è il Partito di Dio. Pur avendo più volte espresso contrarietà ad una guerra contro Israele, la milizia sciita libanese ha interesse a tenere elevato il livello di scontro, seppur entro un range accettabile/controllabile. Infatti, nella prospettiva dell’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah aumentare il numero degli attacchi oltre la Blue Line consente a Hezbollah di congelare il ritorno dei civili israeliani a tempo indeterminato e di danneggiare anche l’economia del Paese, essendo quelle aree tra le più fertili e importanti dal punto di vista agricolo. Al contempo, un attacco delle Israeli Defence Forces (IDF) verso il sud del Libano cambierebbe totalmente lo scenario e la dinamica delle tensioni oggi in corso nell’intero Medio Oriente, con Hezbollah intenzionata a mutare le sue posizioni “attendiste” in favore di un’esigenza di compiere il primo passo per anticipare e disorientare Israele.

In uno scenario radicalmente trasformato, l’ampliamento del conflitto mediorientale potrebbe trovare coinvolgimenti diversi anche a Teheran, Washington e nelle diverse cancellerie arabe della regione. La Repubblica Islamica vuole evitare con tutte le sue forze una guerra aperta contro Tel Aviv e anche per questo motivo lavora su un doppio binario, militare e diplomatico. Nel primo caso, ha interesse a mantenere alto il livello di frizione con Israele, ma deve fare attenzione alle degenerazioni o ai rischi incontrollati di errori tattici che possano tramutarsi in calcoli strategici superficiali. Non a caso, sin dalle rappresaglie incrociate di aprile, Teheran ha dichiarato a livello ufficiale di non voler andare incontro ad ulteriori escalation con Tel Aviv, ma contestualmente lavora attraverso la pressione dei suoi proxy regionali e il mantenimento di una propaganda anti-occidentale e anti-israeliana ad accentuare il senso di insicurezza israeliana. In questo quadro, la Casa Bianca osserva con irrequietezza, conscia del fatto che, a differenza di quanto avvenuto con Hamas, un attacco diretto alla sovranità e stabilità di Israele da parte di Hezbollah o nel peggiore dei casi da Teheran, non lascerebbe sicuramente solo il partner mediorientale per eccellenza di Washington. Un tema caldo e non evadibile neanche in campagna elettorale, specie se una guerra dovesse concretizzarsi nella fase elettoralmente più impegnativa, tra l’estate e il voto di novembre. Una condizione che non lascerebbe immuni neanche le leadership concorrenti, con una possibile Presidenza Trump interessata a restaurare una nuova massima pressione nei confronti dell’Iran, ma non è chiaro fino a che punto e in che termini si definirebbe impegnata anche militarmente in uno scontro aperto contro la Repubblica Islamica in supporto di Tel Aviv. Un contesto convulso dal quale non si potrebbero tirare indietro neanche i partner arabi degli Stati Uniti, i quali, tuttavia, preferirebbero una certa neutralità strategica al coinvolgimento diretto in un conflitto dalle numerose incognite e instabilità a tutti i livelli. Una condizione complessiva che potrebbe vedere i diversi attori arabi decidere di scendere in campo con modalità, termini e ambiguità differenti a causa dei possibili contraccolpi che una guerra in Libano e un supporto – anche se indiretto – ad Israele potrebbe ingenerare sui rispettivi contesti domestici e le opinioni pubbliche fortemente filo-palestinesi. Difatti, sembrerebbero emergere tutta una serie di elementi che suggerirebbero non tanto “il come” prevenire una possibile escalation, quanto determinare “un quando” dovrà avvenire l’operazione israeliana sul Libano. Uno scenario che tutti vogliono scongiurare, ma nessuno in questo momento sembrerebbe essere in grado di prevenire.

Passaggio fondamentale di questo shift strategico, però, rimane Gaza, che vive tutt’ora una situazione di insicurezza e instabilità immutata. Mentre le IDF annunciano nuovi sfollamenti in tutta l’area meridionale della Striscia, i combattimenti anche se meno intensi rimangono egualmente cruenti. Oltre a Gaza City, l’arco principale dei combattimenti rimane la fascia tra Deir al-Balah, Khan Younis e Rafah. Difatti, permane una condizione anche (se non soprattutto) umanitaria di profondo disagio e inquietudine. Tutte situazioni che non fanno presagire ad oggi una fase de-escalatoria all’orizzonte, specie dinanzi all’assertività israeliana e alla mancanza di chiarezza di intenti di quest’ultimi sul post-guerra. In questa prospettiva, è evidente per Israele che una stabilizzazione del fronte sud sia fondamentale per poter poi reindirizzare forze e risorse verso il Libano, ossia il contesto strategicamente ritenuto più rilevante da un punto di vista operativo e strategico, in quanto teatro indiretto dello scontro regionale con l’Iran. Altresì, è inverosimile ipotizzare a Gaza uno stop contenuto, parziale o di lungo periodo ai combattimenti. È impensabile sia per lo stato di tensioni e belligeranze varie esistenti nell’intero arco mediorientale, sia nel contesto specifico della Striscia, dove anche Hamas ha oggi molto più interesse a mantenere vivo e costante il livello di confronto con le IDF. L’obiettivo del gruppo islamista è di tenere Israele incastrato militarmente nell’enclave palestinese, sperando in una crescita delle tensioni e del coinvolgimento di Hezbollah nel confronto armato contro Tel Aviv. In questo stato dei fatti, Israele sarebbe costretto a sostenere un doppio fronte militare, che senza un aiuto militare, economico, e politico degli Stati Uniti sarebbe quasi impossibile da sostenere nel lungo periodo per le IDF.

Ecco perché in questo momento è giusto ribadire un concetto semplice quanto non trascurabile: una qualsiasi tregua a Gaza potrebbe non contribuire a generare una generalizzata de-escalation regionale. Anzi potrebbe avvenire l’esatto contrario. Una qualsivoglia formula compromissoria tra Israele e Hamas non è detto che garantisca una sorta di equilibrio tra questi e gli altri attori coinvolti. Uno scenario che potrebbe presto o tardi manifestarsi con più chiarezza con lo shift delle tensioni da Gaza verso il Libano e che, in caso di conflitto, potrebbe vedere la leadership militare israeliana spingere verso le autorità politiche di Tel Aviv per accettare una tregua a Gaza per ridirezionare attenzioni e sforzi verso nord contro Hezbollah. Una tregua sarebbe il modo più sicuro per favorire una liberazione degli ostaggi ancora in vita, ma comporterebbe anche il mantenimento di Hamas al potere e, quindi, una sorta di riconoscimento del fallimento israeliano nel perseguire attraverso la guerra a Gaza quegli obiettivi strategici quale la distruzione di Hamas e la liberazione dell’enclave palestinese dalla governance del movimento islamista al potere nell’area sin dal 2007. In questo preciso momento della guerra, quindi, sia Israele sia Hamas sembrerebbero maturare interessi tattici simili, ossia il mantenimento di un livello medio-alto di conflittualità, sebbene la situazione sul terreno assuma evoluzioni repentine e difficilmente controllabili, le quali potrebbero andare inevitabilmente ad incidere sulle dinamiche libanesi.

Infatti, una guerra nel Paese dei Cedri sarebbe decisamente più pericolosa di quella di Gaza, sia per le capacità dell’attore cardine coinvolto, sia per le troppe incognite a cui Israele dovrebbe andare incontro. Hezbollah, infatti, è più pericoloso di Hamas: ha una capacità militare offensiva superiore, in virtù di una disponibilità di 150.000-200.000 tra missili, razzi e droni in grado di saturare le batterie a nord di Iron Dome e degli altri sistemi di difesa israeliani, così come colpire luoghi critici civili come la città portuale di Haifa ma anche la stessa Tel Aviv. Inoltre, il gruppo guidato da Hassan Nasrallah ha maturato una fondamentale esperienza di guerra in virtù degli anni combattuti al fianco delle milizie iraniane e filo-sciite in Siria in difesa del regime di Bashar al-Assad. Inoltre, un’operazione militare in Libano porterebbe all’attenzione di Israele e presumibilmente degli Stati Uniti tutta una serie di quesiti, a cominciare dalla tipologia di intervento. Infatti, qualora l’operazione militare dovesse scattare, non è detto che la stessa non possa tramutarsi presto in un’invasione terrestre su larga scala, che potrebbe contribuire a ingenerare nuova instabilità per il Libano (con gli spettri di una guerra civile sempre paventata forse non solo in maniera propagandistica da Nasrallah), ma anche per Israele e l’intera regione allargata. Uno scenario di questo tipo aprirebbe prospettive decisamente fosche e a più livelli. Ad esempio, potrebbe essere messa in discussione la presenza delle forze ONU, con la missione di interposizione nel sud del Libano UNIFIL, la quale prevede una folta presenza di militari italiani a supporto. In una condizione simile, è evidente che il contingente andrebbe incontro a diverse minacce che minerebbero non solo la missione in se (mettendo quindi in discussione anche le regole di ingaggio), ma anche la loro presenza sul territorio. Una condizione ulteriormente aggravata da quelle che potrebbero essere le evoluzioni sul terreno, in quanto potrebbe andare in scena sul suolo libanese un conflitto aperto con l’Iran, in grado di coinvolgere sotto varie forme anche i suoi proxy regionali sparsi tra Siria, Iraq e Yemen. In particolare, i gruppi operativi in Iraq e Siria, anche sulla base dell’esperienza degli Houthi con la crisi nel Mar Rosso, potrebbero optare di marchiare la loro azione di propaganda come un asse transnazionale di “solidarietà” verso Hezbollah e Teheran contro Israele. In altre parole, ci troveremmo dinanzi ad una guerra che potrebbe presentare esiti non scontati e decisamente non favorevoli ai diversi attori in campo, contribuendo a far pagare un conto eccessivamente salato in quel che rimane alla stabilità e alla sicurezza dell’intero Medio Oriente.

Se, nel breve periodo, quindi, si suppone che le condizioni politiche e di sicurezza continueranno a degradarsi a Gaza (così come nel nord della Cisgiordania, dove da tempo si assiste ad una pericolosa escalation provocata anche dalle scelte del governo Netanyahu di espandere le aree abitative delle colonie ebraiche), nel medio termine, invece, le sfide maggiori potrebbero venire dal Libano e dai rischi di una guerra (per procura) tra Israele, Hezbollah e Iran giocata sul suolo libanese. A mutare non sarebbe solo lo spazio geografico-politico-militare del confronto, ma cambierebbe anche e soprattutto la ratio della strategia israeliana nella regione in funzione dichiaratamente anti-iraniana.

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