La stretta della FED e le conseguenze per l’area MENA
Il 4 maggio, la Federal Reserve (FED) statunitense ha deciso uno storico rialzo dei tassi di interessi, che sono stati portati nel range di oscillazione tra lo 0,75% e l’1%, contro lo 0,25%-0,50% precedente. Si tratta del primo rialzo di mezzo punto percentuale dopo quello effettuato da Alan Greenspan nel maggio del 2000, ed è altresì la prima volta dal 2006 che la FED alza i tassi due volte consecutivamente. Le ragioni di questa decisione storica sono da ricercare, come sottolineato dal Governatore Jerome Powell, nella volontà della Banca Centrale statunitense di riportare sotto controllo l’inflazione vicino all’obiettivo del 2%. Infatti, l’inflazione negli USA ha raggiunto a marzo l’8,5%, un livello che non si registrava dal 1981, con un aumento dell’1,2% rispetto al mese di febbraio. Sebbene ad aprile sia scesa al 8,3%, rimane comunque ad un livello preoccupante e superiore alle previsioni degli analisti. La Federal Reserve ha anche annunciato l’avvio dal primo giugno della progressiva riduzione del suo bilancio, mediante parziale non rinnovo degli stock di titoli accumulati negli anni scorsi.
Il rialzo di 50 punti basi dei tassi di interesse della Federal Reserve rischia di avere ripercussioni a livello globale, andando ad impattare soprattutto su quei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) particolarmente esposti alle dinamiche economiche statunitensi a causa dell’elevato debito denominato in dollari. Un incremento del tasso di interesse statunitense non è di per sé foriero di conseguenze negative per i Paesi emergenti di quest’area del mondo, bensì dipende dalle ragioni sottostanti tale aumento. Infatti, se l’aumento deriva da prospettive di crescita positive negli Stati Uniti, questo ha medesimi effetti anche sui Paesi dell’area MENA, perché l’aumento delle esportazioni trainate dalla crescita del PIL statunitense e la maggior fiducia negli investitori compensano i costi dei maggiori tassi di interesse. Al contrario, se i tassi interesse sono portati a rialzo a causa della preoccupazione per la spinta inflazionistica, come avvento in questo caso, la politica della FED sarebbe deleteria per i Paesi dell’area MENA.
Un primo impatto significativo dell’aumento dei tassi di interessi deriva dal rafforzamento del dollaro rispetto alle monete locali. Questo meccanismo, che in teoria potrebbe favorire i Paesi esportatori netti, rischia invece di impattare negativamente quegli Stati, come l’Egitto o il Libano, che importano dagli Stati Uniti più di quanto esportino, determinando così un peggioramento della bilancia commerciale. Nel 2020, infatti, l’export egiziano versi gli Stati Uniti è stato pari a 2,3 miliardi di dollari, contro i 4,82 miliardi di importazioni. Inoltre, un dollaro più forte significa un aumento del costo del servizio del debito denominato in dollari. Il debito esterno egiziano, ad esempio, è aumentato significativamente nel corso degli ultimi anni: a marzo 2021 ha raggiunto quota 134,8 miliardi di dollari, con un aumento di 11 miliardi rispetto a giugno 2020 e di circa 100 miliardi rispetto al 2010, quando si aggirava introno a 33,7 miliardi. Un altro fattore di criticità deriva dal fatto che i Paesi dell’area MENA, per compensare gli investitori dei rischi derivanti dal quadro di incertezza, dovranno garantire un tasso di interesse maggiore sui titoli di nuova emissione, generando così una pressione ulteriore sul debito.
Questo quadro di fragilità è esacerbato da due ulteriori elementi, uno strutturale ed uno congiunturale. In primo luogo, la debolezza strutturale di questi Paesi, a livello sia macroeconomico sia politico, rappresenta un ostacolo per una gestione “sana” del debito e per l’andamento economico in generale. Ad esempio, la grave crisi politica ed istituzionale in cui versa il Libano o l’assetto della Tunisia che sembra essere sempre più precario sono tra le cause principali dell’elevato tasso di interesse richiesto dagli investitori internazionali. In secondo luogo, il conflitto tra Russia ed Ucraina ha drammaticamente messo a repentaglio la disponibilità delle commodities alimentari, determinando un aumento significativo dei prezzi dei beni primari, con un rischio sempre maggiore che il mancato approvvigionamento dei beni alimentari fondamentali si traduca in scontri, proteste ed instabilità politica, come accaduto con le Primavere arabe. Il caso dell’Egitto è emblematico: in base ai dati dell’UNCTAD, questo Paese importa circa l’80% del grano dalla Russia e dall’Ucraina e dallo scoppio della guerra ha registrato una fuga di 15 miliardi di dollari dal mercato locale all’estero. Inoltre, è opportuno sottolineare come molti prodotti nei Paesi arabi siano sovvenzionati, con la conseguenza che un aumento dei prezzi aggraverebbe ulteriormente la già debole stabilità delle casse statali.
In questo contesto, quindi, l’aumento dei tassi di interessi deciso dalla FED rischia di generare una spirale di effetti negativi per i Paesi dell’area MENA, andandosi ad innestare su un quadro istituzionale e politico debole e frammentato, e reso ulteriormente più fragile dagli effetti derivanti dalla guerra Russo-Ucraina. In questo contesto si inseriscono quindi le trattative con il Fondo Monetario Internazionale portate avanti, ad esempio, dall’Egitto e dal Libano, che mirano a portare una boccata d’ossigeno e scongiurare così l’impatto sociale della congiuntura economica. Tuttavia, l’iniezione di liquidità non risolverebbe le debolezze strutturali di questi due Paesi, che dovrebbero attuare le riforme fondamentali, per ripristinare la fiducia, migliorare la governance e la trasparenza ed incoraggiare gli investimenti. Il passo verso il collasso generalizzato del sistema Paese è più breve di quanto si possa pensare, e proprio per questo è necessario che la classe politica delle realtà più esposte dell’area MENA si facciano carico in maniera seria e lungimirante delle aspettative della popolazione.