La Corea del Nord dopo il vertice di Hanoi
Il 9 maggio la Corea del Nord si è resa nuovamente protagonista dello scenario internazionale, effettuando il lancio di due missili a corto raggio. I due vettori sono stati lanciati dalla base militari di Sino-ri situata a nord-ovest di Pyongyang verso est, percorrendo rispettivamente 260 e 170 miglia circa prima di finire in mare. Pochi giorni dopo, gli Stati Uniti ha visto il sequestro di una nave mercantile nordcoreana coinvolta nel traffico illecito di carbone poiché ritenuta in violazione delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite.
È il secondo lancio che si verifica nell’arco di soli 5 giorni dopo il test balistico effettuato lo scorso 4 maggio. L’ultimo caso analogo risaliva ad agosto 2017.
I più recenti test missilistici arrivano in seguito allo stallo tra Stati Uniti e Corea del Nord dopo il fallito tentativo di dialogo tra i capi di stato Donald Trump e Kim Jong-un in occasione del summit tenutosi tra il 27 e 28 febbraio al Metropole Hotel di Hanoi, in Vietnam.
Nonostante le grandi aspettative, l’incontro si è concluso prima del previsto con un nulla di fatto. I due leader, infatti, hanno lasciato il Vietnam senza sottoscrivere un nuovo documento, fallendo nel tentativo di compiere dei passi verso un’intesa definitiva e rinviando per l’ennesima volta impegni più concreti per la denuclearizzazione. L’incontro di Hanoi si inserisce nella cornice del nuovo approccio bilaterale e diretto dell’amministrazione Trump e rappresenta il secondo vertice tra Stati Uniti e Corea del Nord dopo la prima stretta di mano tra i leader nel corso del Summit di Singapore e la firma del documento congiunto il 12 giugno 2018, acclamato con successo da Pyongyang e Washington come un evento di portata storica.
Da un lato, siamo di fronte ad un evento importante e spesso sottovalutato, ovvero il riconoscimento di Pyongyang come potenza nucleare ed interlocutore a pieno titolo da parte degli Stati Uniti; in altre parole, questo dimostra che la Nord Corea è riuscita a raggiungere uno degli obiettivi che si era imposta ancora 25 anni prima, con lo scoppio della prima crisi nucleare del 1993. Dall’altro, la vaghezza dei termini espressi nel documento finale del Summit di Singapore ha dimostrato come le parti sembrano essere ancora lontane dal negoziare un accordo definitivo. Infatti, l’ambiguità del concetto di denuclearizzazione espresso a Singapore è un’eredità che ha condizionato anche il vertice di Hanoi e probabilmente ha influito sul suo fallimento. In passato, durante i Six-Party Talks, ovvero l’ultimo negoziato multilaterale ad hoc che ha visto gli Stati Uniti in concerto con i cinque attori regionali (Corea del Nord, Cina, Corea del Sud, Giappone e Russia), si faceva riferimento ad una denuclearizzazione completa, irreversibile e verificabile; oggi, invece, sembra che le parti debbano ancora chiarirne i contenuti.
La questione principale che ha portato ad una momentanea interruzione delle trattative riguarda sia gli impianti nucleari in Corea del Nord che le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Pyongyang ha offerto di smantellare le strutture di Yongbyon, il più grande sito nucleare del Paese, ma non ha specificato esattamente l’entità del complesso nucleare. In cambio, ha chiesto la rimozione delle sanzioni che sono state imposte il 2 marzo 2016 con la Risoluzione n. 2270 del Consiglio di Sicurezza in seguito ai test nucleari, ad eccezione di quelle dirette ai programmi di armi di distruzione di massa. Il ministro degli esteri nordcoreano, Ri Yong-ho, le ha descritte come 5 delle 11 misure imposte dalle Nazioni Unite mentre per il team americano si tratta della parte più significativa e sostanziale. Prima del vertice di Hanoi la delegazione americana, guidata da Stephen Biegun, rappresentante speciale per la Corea del Nord, e Kim Hyok Chol, capo della controparte nordcoreana, si trovavano in una situazione di stallo in merito a quale parte della struttura di Yongbyon fosse da smantellare e quale parte delle sanzioni da rimuovere, lasciando così la decisione finale a Trump e Kim Jong-un.
Dalla moderata reazione di Washington in seguito agli ultimi test balistici e dalle dichiarazioni del Presidente Trump successive al vertice di Hanoi sembra trasparire la volontà di instaurare un negoziato pragmatico e focalizzato sugli interessi bilaterali più che sulla personalità degli individui, per consentire alle macchine diplomatico-negoziali dei due Paesi di provare a portare a casa primi risultati concreti.
Nonostante i vertici di Singapore e Hanoi abbiano messo in luce la comune volonta di Stati Unti e Corea del Nord di aprirsi ad una trattativa, la fermezza di entrambi i Paesi nel sstenere le proprie posizioni sembra rappresentare un fattore di criticità per il raggiungimento di punti di convergenza. Infatti, da un lato, gli Stati Uniti chiedono a Pyongyang lo smantellamento preliminare e completo del proprio arsenale atomico, dall’altro, il governo nordcoreano chiede come condizione necessaria per procedere alla dismissione della propria capacità nucleare il termine delle sanzioni imposte dall’ONU, che il danno causato continua ad avere delle gravi ripercussioni economiche. In questo contesto, i nuovi test missilistici condotti da Pyongyang, potrebbero essere il tentativo di lanciare un segnale alla controparte statunitense, per provare a recuperare un negoziato che, ad oggi, sembra procedere con grande lentezza. Già i passato, infatti, il governo nordcoreano ha utilizzato la sperimentazione balistica come pungolo alla Comunità Internazionale e come dimostrazione dei progressi effettuati per creare una capacità di deterrenza nazionale. Non appare casuale che nel periodo di non-engagement compreso tra il 2006 e il 2017 (ovvero dal simbolico fallimento dei Six-Party Talks alla ripresa dei dialoghi con l’amministrazione Trump) la Corea del Nord abbia condotto rispettivamente più di 80 test missilistici e 6 test nucleari.
Il perseguimento degli interessi da parte di Washington e Pyongyang mantiene viva l’ipotesi di una soluzione negoziale condivisa. Solamente un accordo congiunto lascerebbe uno spiraglio di luce per il sollevamento delle sanzioni e la denuclearizzazione della Corea. Per ora, le sanzioni imposte nel marzo 2016 resteranno in vigore ma la Corea del Nord continuerà ad esercitare pressioni per ottenere la loro completa cancellazione.
Tuttavia, il negoziato potrebbe adottare delle connotazioni differenti e dipenderà dalla capacità dei team negoziali di trovare una soluzione nella determinazione dei dettagli dei potenziali prossimi impegni comuni. Nonostante lo stallo in corso, la scommessa fatta dal Presidente Trump nell’aprire ad un dialogo con Kim Jong-un lascia presupporre che la Casa Bianca possa cercare di ottenere dei risultati concreti, seppur parziali, nei prossimi mesi, così da poter avere un successo da capitalizzare in vista delle elezioni del 2020.
Non è da escludere, tuttavia, che un’eccessiva lentezza nelle trattative o l’inconciliabilità delle richieste preliminari sul tavolo possano portare ad un fallimento dei negoziati. Ciò potrebbe complicare decisamente la gestione dei rapporti tra Stati Uniti e Corea del Nord e portare ad una polarizzazione delle posizioni all’interno della regione. Come avvenuto nel 2016, anno in cui le tensioni legate al minaccia nucleare di Pyongyang hanno raggiunto l’apice, gli equilibri regionali vedevano da una parte Stati Uniti e Giappone, risoluti ad utilizzare una soluzione muscolare alla questione, dall’altra Corea del Sud e Cina, promotori di un approccio diplomatico e funzionale ad evitare un’escalation militare dagli incerti risultati. Se allora la diplomazia e i contatti tra le parti avevano consentito una distensione dei toni, ad oggi, i mutati equilibri non tanto nell’area ma tra Cina e Stati Uniti potrebbero irrigidire sensibilmente gli spazi di manovra a disposizione per cercare di non far saltare lo storico canale di dialogo aperto con Pyongyang.