Israele-Hezbollah, quale resa dei conti
A poche settimane dal primo anniversario della guerra a Gaza, Israele potrebbe aver inaugurato un passaggio fondamentale nel grande contesto di crisi e tensioni parallele in Medio Oriente. Miccia, forse decisiva, per questo nuovo scenario di conflittualità è stata la due giorni di attacchi (17-18 settembre) in Libano e Siria, presumibilmente, condotti da Israele attraverso la manomissione di dispositivi elettronici come cercapersone, walkie-talkie e radio fuori produzione. Secondo un primo bilancio, le esplosioni hanno causato 37 morti e quasi 3.000 feriti tra i membri di Hezbollah. L’operazione ha indotto un duro colpo alla filiera e alla intera struttura della milizia libanese, provocando innanzitutto una crisi di legittimità dentro l’organizzazione e sollevando interrogativi su quale tipo di risposta il gruppo sarà in grado di fornire. Al contempo, questa azione – tra le più sofisticate della storia contemporanea – ha ristabilito quella percezione di minacciosità che solitamente incute l’intelligence israeliana (specie dopo i fatti accaduti il 7 ottobre 2023), ma ha alimentato anche grandi interrogativi sui rischi per l’intero Medio Oriente alla luce di un possibile conflitto aperto tra Tel Aviv e il Partito di Dio.
Il doppio attacco ha ottenuto un alto valore simbolico e politico e rischia di assumere le dimensioni di un qualcosa di più di una semplice provocazione, se tali possono essere considerate anche quelle iniziative degli scorsi mesi come l’uccisione a Beirut di Fouad Shukr (31 luglio), alto leader di Hezbollah e tra i più stretti collaboratori di Hassan Nasrallah, leader del gruppo. Non è un caso che da più parti, anche dall’interno della milizia libanese, l’atto sia stato vissuto come una umiliazione profonda e intollerabile. Non solo sono stati violati tutti i protocolli di sicurezza, ma in un certo qual modo sono state minate capacità, forza e credibilità dell’organizzazione sciita filo-iraniana. Una condizione che sarebbe ancor più aggravata se da parte del Partito di Dio non vi sarà una risposta immediata, dura e in grado di ripristinare la sua reputazione dentro e fuori i confini del Paese dei Cedri. Infatti, molto dipenderà dall’atteggiamento di Hezbollah, bloccato tra la necessità di rispondere e il desiderio di evitare una guerra totale con Israele.
Se, quindi, vi sarà una risposta è chiaro che questa potrebbe divenire un casus belli in grado di aprire un fronte militare ampio, nel quale si assisterebbe, verosimilmente, ad una contro-reazione israeliana attraverso un’invasione di terra nel sud del Paese dei Cedri, con l’idea di determinare lì una fascia smilitarizzata e disabitata ben oltre il limite del fiume Litani. Non è detto, però, che tale operazione possa rimanere circoscritta a quel settore e non si estenda anche alla valle della Bekaa e alla Siria occidentale – una ipotesi reale vista la scia di attacchi lasciati dai cercapersone nelle scorse ore e da altre azioni avvenute nelle settimane precedenti. In tale modo, il Partito di Dio si troverebbe invischiato in un conflitto dall’esito altamente imprevedibile, con effetti a cascata difficilmente quantificabili sul piano libanese (con i fantasmi della guerra civile mai del tutto svaniti) e propriamente mediorientali. In quest’ultima dimensione, a risentirne potrebbero essere anche i rapporti con l’Iran, il quale esitante come poche altre volte in passato punterebbe ad impedire una discesa in campo del partner libanese, ma, soprattutto, mirerebbe a non farsi coinvolgere in quella che a Teheran viene considerata una provocazione israeliana per costringere la Repubblica Islamica (così come Washington) a prendere parte alla grande guerra mediorientale di Tel Aviv. Viceversa, in assenza di una risposta, Hezbollah verrebbe considerato umiliato – soprattutto agli occhi dei libanesi –, rimanendo vittima, paradossalmente, della sua stessa strategia di non escalare contro Israele. Sin dall’8 ottobre 2023, la milizia sciita ha puntato a gestire il contesto di Gaza attraverso un appoggio militare esterno ad Hamas. L’effetto sperato era un lento ed estenuante logoramento che però ha finito per indebolire soprattutto la posizione del gruppo libanese convinto di riuscire a piegare Tel Aviv attraverso una strategia di guerriglia armata a intensità mutevole. Quindi, ora è fondamentale capire anche che tipo di reazione vi sarà e cosa essa sarà in grado di scaturire visto lo stato dell’arte in costante evoluzione. Quel che è certo, invece, è una evidente e straordinaria complessità dello scenario politico e di sicurezza del Libano, il quale potrebbe andare incontro ad un progressivo deterioramento.
Da parte sua, Israele, non ha rivendicato alcuna azione ma ha definito Hezbollah un obiettivo legittimo di guerra, da perseguire e sradicare in nome della sua sicurezza nazionale. Infatti, nelle medesime ore del doppio attacco, il comando generale israeliano ha ordinato alla 98ma divisione dell’Esercito di spostarsi da Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, verso i territori del nord del Paese e ha autorizzato l’aviazione a lanciare un centinaio di strike contro asset dei miliziani di Hezbollah. Paradossalmente, dopo aver inferto dei contraccolpi strategici così duri e minato le certezze del gruppo (e dei suoi partner regionali), Tel Aviv potrebbe non avere la necessità di ricercare apertamente una guerra.
Tuttavia, a spingere verso questa direzione potrebbero esserci considerazioni di varia natura. Da un lato, esiste una necessità pratica del governo Netanyahu di rimanere il più a lungo in carica, possibilmente oltre le prossime elezioni negli Stati Uniti (5 novembre) e l’insediamento del nuovo Presidente (7 gennaio 2025). In assenza, quindi, di spazi e opportunità di azione, conseguenti anche all’ipotesi di una Amministrazione USA contraria a imbattersi in un’ennesima guerra dal sapore ignoto e a scatola chiusa in Medio Oriente, Tel Aviv potrebbe aver valutato come ipotesi vantaggiosa una guerra contro Hezbollah. Dall’altro, la spinta verso un’alta conflittualità in Libano si lega indissolubilmente con i tanti problemi domestici del Premier e del suo esecutivo radicale. Benjamin Netanyahu ha bisogno di riportare una vittoria e di vendere politicamente tale contesto come un qualcosa di inevitabile e accettabile alla propria opinione pubblica, specie dopo il disastro narrativo, strategico e umanitario di Gaza. Più di Hamas, Hezbollah è considerata una minaccia concreta ed esistenziale per Israele e pertanto dichiarare guerra al gruppo potrebbe ricompattare la maggioranza e la stessa popolazione, estremamente critica nei confronti dell’esecutivo Netanyahu.
Ciononostante, occupare parti del Libano meridionale e creare una sorta di safe zone significa, soprattutto, mantenere una forza di occupazione israeliana nel territorio a tempo indeterminato. Una situazione che risulterebbe tuttavia ben più complessa e pericolosa rispetto alla Striscia di Gaza. Inoltre, la creazione di una fascia di sicurezza demilitarizzata e disabitata nel sud del Libano non impedirebbe in ogni modo un’eventuale nuova campagna di razzi da parte di Hezbollah nel prossimo futuro, mettendo Israele stessa alla berlina, poiché tra le motivazioni alla base di una possibile azione militare vi sarebbe la necessità di garantire il ritorno alle abitazioni dei 60.000 sfollati israeliani nel nord del suo territorio. Al contempo, però, è anche possibile che la nuova aggressività di Tel Aviv non sia altro che una brutale dimostrazione di superiorità per costringere l’avversario, nella fattispecie Hezbollah, a riconoscere l’umiliazione subita e, quindi, accettare le sue condizioni in una ripresa dei negoziati sulla Blue Line. Una logica che sarebbe grosso modo in linea con quanto avvenuto in luglio a Teheran con l’uccisione di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas e suo capo-negoziatore nelle trattative tra il Cairo e Doha nella guerra in corso a Gaza.
Allo stato attuale, nessuna ipotesi elide l’altra in quanto vi sono una molteplicità di variabili e interessi – più che trasversali – in gioco che rendono impossibile definire punti fermi, lasciando di fatto ogni scenario aperto e plausibile. Ad ogni modo, è innegabile che quel che ha perseguito Tel Aviv in queste ore rappresenta sicuramente un momento di svolta nel contesto regionale, se non addirittura una “nuova era” come spiegato enfaticamente dallo stesso Ministro della Difesa Yoav Gallant. In ballo non vi è più solo l’ormai dichiarato conflitto mediorientale con Teheran e i suoi partner regionali (Hezbollah, Houthi e le varie milizie filo-iraniane in Siria e Iraq), ma emerge dalle retrovie una evidente idea e percezione di se stesso come attore dominante e ineludibile del presente e del futuro della regione. In questa prospettiva, a cambiare potrebbero essere soprattutto i rapporti di forza rimasti da tanto tempo immutati (almeno dal 1979 in poi), con il chiaro intento di definire un vantaggio netto e indiscutibile per Israele e il suo ruolo in Medio Oriente.