Il vertice di Paphos e le nuove prospettive nel Mediterraneo Orientale
Il Mediterraneo Orientale si presenta sempre più come un teatro in evoluzione, aperto a nuovi livelli di confronto geopolitico e competizione strategica che, soprattutto, lasciano spazio all’ingresso di diversi attori. Se negli scorsi anni erano principalmente le potenze rivierasche (Egitto, Israele e Turchia) a fronteggiarsi per il controllo e l’influenza diretta nel bacino del Levante, nell’ultimo decennio il contesto ha attirato anche l’attenzione di nuovi attori extra-regionali (monarchie del Golfo, Russia, Cina), storicamente più distanti dalle dinamiche marittime dell’area. L’ultimo incontro svoltosi a Paphos (Cipro), lo scorso 16 aprile 2021, tra i Ministri degli Esteri di Grecia, Cipro, Israele e Emirati Arabi Uniti (EAU) ha testimoniato chiaramente questo cambio di passo. I quattro Paesi si sono riuniti per la prima volta in un vertice quadrilaterale, con l’intento di approfondire la loro cooperazione in chiave bi- e multi-laterale, fino ad ora rimasta soprattutto limitata ad un piano economico e/o commerciale. Se infatti la posizione geografica di Grecia e Cipro giustifica da sempre l’interesse verso le dinamiche mediterranee, Israele ha cominciato a giocare un ruolo chiave nell’area solo a partire dal 2009, dopo che le scoperte di giacimenti gasiferi nel Mediterraneo Orientale hanno reso la zona di mare compresa tra Cipro, Egitto ed Israele un polo geostrategico dalle enormi opportunità. Ancora più sorprendente appare il coinvolgimento diretto di Abu Dhabi nel summit di Cipro. Difatti, la monarchia araba ha cominciato a guardare con interesse maggiore al Mediterraneo soltanto dopo il 2013 (come riflesso geopolitico delle dinamiche di area successive alla Primavere Arabe e alla destituzione di Mohammed Morsi in Egitto), limitandosi per lo più a stringere accordi commerciali – e qualche volta di difesa – con i Paesi litorali. In questo scenario, è necessario dunque capire quali sono i driver che spingono diversi attori regionali a voler avere influenza diretta nel Mar del Levante, per vedere se i loro obiettivi vanno oltre il mero approvvigionamento energetico. Soprattutto, bisogna contestualizzare quali sono le esperienze che ognuno di questi attori apporta in relazione alle ambizioni di politica estera da raggiungere, così da cercare di delineare delle plausibili prospettive per il futuro dell’area.
Il summit di Paphos mette sicuramente in luce la volontà di Atene, Nicosia e Tel Aviv, direttamente implicati nel controllo delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) del Mar del Levante, nel rafforzare il loro coordinamento e cooperazione per far fronte all’assertività turca, che rivendica un peso geopolitico maggiore nelle acque mediterranee e nell’esplorazione dei giacimenti gasiferi. Fino ad ora, i dialoghi in chiave anti-turca sono stati principalmente tenuti dai tre Paesi soprammenzionati incluso l’Egitto, coinvolto anch’esso nella delineazione dei confini marittimi, per includere anche altre realtà del bacino (tra cui l’Italia e la Francia) con l’intento di costituire un quadro di cooperazione per uno sfruttamento e una commercializzazione più efficiente del gas del Levante. È in tale ottica che va inquadrata nel 2019 la stessa creazione del Forum dei Paesi produttori di gas del Mediterraneo Orientale (EMGF), vera e propria organizzazione internazionale che esclude intenzionalmente la Turchia con la volontà di istituire un nuovo mercato regionale del gas, da concretizzarsi attraverso la realizzazione di infrastrutture sottomarine che dovrebbero collegare il Mediterraneo Orientale con l’Europa continentale.
Per quanto riguarda gli EAU, sicuramente il loro coinvolgimento nel summit di Cipro costituisce una novità, fungendo al contempo da chiave di volta per le prospettive regionali. L’ingresso diretto del Paese in qualità di osservatore nell’EMGF (dicembre 2020) e, più in generale, nelle dinamiche mediterranee è sicuramente consequenziale alla normalizzazione dei rapporti con Israele, avvenuta grazie agli Accordi di Abramo dello scorso settembre 2020. Se in precedenza Abu Dhabi poteva già contare sull’appoggio di Grecia e Cipro per ostacolare Ankara, rivale ideologico e strategico degli EAU nonché competitor su vari fronti a livello trans-regionale (dalla Libia al Mar Rosso), la distensione dei rapporti con Tel Aviv può adesso permettere alla Federazione emiratina di rafforzare ulteriormente le proprie posizioni anti-turche. Nello specifico, da quando nel 2017 il governo di Ankara ha deciso di posizionare una sua base militare in Qatar, Abu Dhabi ha percepito tale azione come un’intromissione negli affari interni del Golfo arabo e, pertanto, sente il bisogno di rinforzare il proprio sistema di difesa, inquadrando in Israele un possibile partner strategico con cui cooperare in chiave securitaria dal Mediterraneo al Mar Rosso. Difatti, nonostante la quasi-riconciliazione tra le monarchie del Golfo e il Qatar avvenuta durante il summit saudita di al-Ula (gennaio 2021) sia stata accolta con cauto ottimismo dalla Turchia e abbia portato a un disgelo indiretto tra Ankara e gli EAU, questi continuano a guardare con scetticismo al duo Ankara-Doha e al rivale turco soprattutto nello scenario libico, dove Abu Dhabi punta a contenere le istanze turche per fortificare le sue strategie nel Mediterraneo allargato. Inoltre, negli scorsi anni gli Emirati avevano già stretto accordi militari con la Grecia per fronteggiare la Turchia, ma il contingente di difesa emiratino risulta ancora carente e poco innovativo, lacuna risentita anche dalla controparte greca. Di conseguenza, nel quadro di cooperazione cha va delineandosi, entrambi i Paesi possono ora servirsi di Israele, pioniere nel settore tecnologico di sistemi di Difesa al livello mediorientale, per ammodernare e rinforzare il proprio comparto militare. Senza dimenticare che la normalizzazione con Tel Aviv permette agli EAU di collaborare con Israele anche contro Teheran, altro nemico comune da contenere.
Oltre ai temi di competizione geopolitica, la sinergia tra i due Paesi rientra nel quadro più ampio di sicurezza energetica, perno del nuovo asse strategico che si sta tracciando dopo Paphos. Ne è un esempio in tal senso l’accordo preliminare da circa 1.1 miliardi di dollari tra la compagnia energetica emiratina Mubadala Petroleum e l’israeliana Delek Drilling per una partecipazione non operata del 22% nel giacimento offshore Tamar. Tale azione, se finalizzata, comporterà il coinvolgimento diretto di un asset statale di proprietà della monarchia emiratina nell’estrazione gasifera nelle acque mediterranee, ponendo ulteriori ostacoli al competitor turco. Al contempo, il nuovo fronte di cooperazione con Tel Aviv offre anche opportunità economiche ad Abu Dhabi che vanno oltre la questione del gas, come testimonia il proseguimento delle trattative israeliane con il colosso industriale di Dubai DP World per la privatizzazione dello strategico porto di Haifa. A ciò si aggiunge che una maggiore cooperazione con Grecia e Cipro permetterebbe alla Federazione emiratina di rafforzare le proprie relazioni con l’Unione Europea, soprattutto con i Paesi che condividono le preoccupazioni sulla Turchia (come la Francia, che intravede in Ankara un pericoloso contendente regionale), e nei Balcani, dove Abu Dhabi potrebbe sfruttare le relazioni passate con Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro e Kosovo e rinforzare la propria influenza sui territori in questione in funzione di competizione con la Turchia.
Passando ai Paesi rivieraschi, sono molteplici i vantaggi che il nuovo interlocutore emiratino può apportare nel già esistente quadro di cooperazione anti-turca. Come già evidenziato, del nuovo assetto beneficerà molto Israele, che vedrà rafforzarsi il proprio peso geopolitico nell’area e potrà godere del supporto emiratino anche in chiave anti-iraniana, soprattutto nei confronti del proxy libanese Hezbollah, che continua ad esercitare pressioni nei confronti di Israele lungo i confini marittimi contesi e in quelli terrestri vicino al teatro siriano. In aggiunta, Tel Aviv potrà puntare sulla monarchia del Golfo per rilanciare alcuni settori economici interni, a partire dal turismo, nonché sfruttare il proprio know-how tecnologico per consolidare intese che oltrepassino il settore della Difesa. Inoltre, il rafforzamento dei contingenti militari dei Paesi partner (come testimonia il recente accordo di sviluppo capacitivo militare preso con Atene, da ben 1.65 miliardi di euro) permetterebbe a Israele di costituire un comparto di Difesa a rinforzo di quello nazionale sull’altra sponda del Mediterraneo e di sfruttare la logistica oltremare per condurre esercitazioni militari, ovviando al poco spazio offerto dai propri confini nazionali. Per quanto riguarda Grecia e Cipro, l’interesse di più attori nel consolidare accordi di cooperazione sicuramente permetterà alle isole di rinvigorire la propria postura tanto nel quadrante mediterraneo quanto in quello europeo, nonché di godere dei vantaggi, già menzionati, in termini di ammodernamento e potenziamento dei propri sistemi di difesa e sicurezza.
In questo clima di cooperazione in chiave strategica, l’assenza dell’Egitto al summit di Paphos non passa di certo inosservata. Difatti, l’Egitto costituisce un partner fondamentale per Israele, Grecia e Cipro nella disputa sulle ZEE, possedendo il 41-43% delle riserve di gas localizzate all’incrocio tra le sue acque territoriali con quelle israeliane e cipriote. Questa benevolenza energetica ha permesso a Il Cairo di riscoprire la propria centralità geostrategica, rendendolo un attore cardine all’interno del EMGF, ruolo che rende lecito interrogarsi sui plausibili motivi che ne hanno determinato l’esclusione dal meeting di Cipro.
In primis, l’assenza egiziana nel quadrangolare potrebbe essere dovuta all’ingresso stesso degli EAU, alleato de Il Cairo ma con cui i rapporti sono molto pragmatici e basati su convergenze tattiche più limitate e su contesti vicini (Libia, Sudan e Mar Rosso). Questo approccio ha portato in passato i due Paesi a raffreddare la relazione strategica, anche in virtù del nuovo ruolo che gli EAU intendono offrire ad Israele a seguito della normalizzazione dei rapporti. Nonostante fino ad ora Il Cairo abbia collaborato con Tel Aviv nella disputa delle ZEE, entrambi i Paesi ambiscono in realtà a diventare l’hub regionale di riferimento per la produzione, commercio e distribuzione del gas naturale liquefatto, scavalcando la Turchia in questo. Viste le divergenze e l’attitudine assertiva del competitor turco, fino ad ora il Cairo ha preferito considerare Tel Aviv come un alleato competitivo piuttosto che rivale, ma la volontà emiratina di puntare molto su Israele per ottenere plurimi vantaggi oltre a quello energetico (difesa, tecnologia, investimenti) mette in guardia l’Egitto, che potrebbe temere di passare in secondo piano nelle iniziative di cooperazione energetica sub-regionale, nonché di veder compromessa definitivamente la sua aspirazione a diventare polo di riferimento dell’EMGF. Tali rischi sembrano spingere il Cairo ad ampliare lo sguardo, per cercare nuove possibilità di collaborazione a livello regionale. Ne è prova la recente volontà di distensione dei rapporti con la Turchia stessa, non lontana dal trasformarsi in una normalizzazione vera e propria, quanto meno limitatamente al contesto mediterraneo. A tal proposito, un altro motivo che potrebbe spingere Il Cairo ad avvicinarsi ad Ankara è legato al recente rinnovo del Memorandum di Intesa (MoU) siglato nel 2019 da Turchia e Libia per la delimitazione delle ZEE, che consente al governo turco di condurre l’esplorazione di gas anche al di fuori delle proprie acque territoriali. Sebbene l’intesa continui ad essere vissuta in maniera molto sentita soprattutto da Turchia e Grecia, negli ultimi mesi l’Egitto sembra aver implicitamente assentito all’accordo del 2019, non violando i confini marittimi demarcati dal memorandum. Inoltre, viste le difficoltà nella concretizzazione del progetto EastMed, Il Cairo potrebbe essere ora intenzionato a sfruttare la convergenza tattica con la Turchia piuttosto che la partnership con i Paesi dell’EMGF, posizione che comprometterebbe seriamente la produzione di gas per i Paesi membri. Infatti, al momento i maggiori impianti di liquefazione gasifera sono in Egitto, che potrebbe sfruttare questo vantaggio come leverage per conservare influenza e peso strategico nelle acque mediterranee.
Infine, la posizione mediana dell’Egitto permette di spostare il focus sulla controparte turca, che rischia di risentire ampiamente del nuovo network di intese che si sta sviluppando intorno al Mar del Levante. Senza dubbio, Ankara si ritrova sempre più isolata nella contesa marittima e il plausibile rinvigorimento dell’apparato militare emiratino con l’aiuto di Israele potrebbe creare degli svantaggi anche in altre dispute aperte con la monarchia del Golfo, come nel Mar Rosso. Tuttavia, il rinnovo del MoU con la Libia, nonché il riavvicinamento con l’Egitto, lasciano ancora ampio margine di manovra alla Turchia, soprattutto perché quanto pattuito fino ad ora dagli attori coinvolti a Paphos rientra in un quadro di cooperazione per lo più bilaterale, dove i singoli Stati si sono accordati per raggiungere singoli obiettivi, spesso legati ad ambizioni di politica estera nazionale. Inoltre, anche la recente riapertura del dossier Cipro Nord gioca a favore della strategia Blue Homeland turca. Infatti, sul finire di marzo sono ripresi i negoziati dell’ONU per la riconciliazione dell’isola di Cipro, divisa da quasi cinquant’anni tra uno Stato greco-cipriota a sud e uno turco-cipriota a nord e per prima volta in decenni il governo turco-cipriota ha avanzato la proposta di accettare lo status quo e di riconoscere la creazione di due Stati sovrani, soluzione che permetterebbe ad Ankara di vedersi riconosciuta come legittima l’esplorazione nelle acque cipriote, fino ad ora ritenuta come una violazione del diritto internazionale.
In conclusione, i colloqui di Paphos mettono ben in evidenza come le parti vogliano trovare canali di cooperazione che vanno ben oltre il mero approvvigionamento energetico, spaziando dal settore della difesa a quello tecnologico o infrastrutturale. Tuttavia, i primi passi condotti finora dimostrano come i singoli Paesi stiano sfruttando strategicamente i nuovi fronti di collaborazione per raggiungere i propri obiettivi di politica estera, senza ancora delineare una comune visione perseguibile nelle dinamiche più strettamente legate al bacino mediterraneo. Sicuramente, il successo del primo meeting di aprile lascia ipotizzare una continuità nei dialoghi, che potrebbero portare alla concretizzazione di un piano energetico e securitario multilaterale capace di acuire l’isolamento turco e, potenzialmente, indebolirne l’influenza. Tuttavia, in una prospettiva di breve-medio periodo, le dinamiche regionali in corso ancora non permettono agli attori coinvolti a Cipro, nonché a tutti i membri dell’EMGF, di contenere la presenza turca dalle acque mediterranee. Di conseguenza, è possibile che non vi siano evoluzioni per quanto riguarda lo sfruttamento del gas e più in generale la questione dei bacini offshore nel Mediterraneo Orientale, a meno che la nuova convergenza in atto tra Turchia ed Egitto non spinga Ankara a rimodulare il proprio atteggiamento aggressivo e tentare la via del dialogo con le altre potenze regionali, nel clima di riposizionamenti che sembra emergere nelle dinamiche recenti del Mediterraneo.
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