Il Myanmar va al voto
Domenica 8 novembre in Myanmar si terranno le elezioni parlamentari generali, per la seconda volta (la prima fu nel 2015) dal 2010, dopo lo scioglimento della giunta militare che era stata al potere fino a quel momento. La National League for Democracy (NLD), guidata da Aung San Suu Kyi e attualmente al governo, è considerata il partito favorito, soprattutto per la mancanza di un fronte di opposizione compatto in grado di raccogliere consensi su larga scala. Infatti, l’Union Solidarity and Development Party (USDP), il partito con più seggi in Parlamento dopo l’NLD, è strettamente legato con l’Esercito (Tatmadaw), e fatica ancora a rinnovare la propria immagine per ottenere il consenso di una buona porzione della popolazione ancora memore dell’esperienza della dittatura militare. D’altro canto, sono presenti svariati partiti minori, con un’affiliazione su base perlopiù locale, che difficilmente riuscirebbero a coalizzarsi per elaborare una proposta politica strutturata che controbilanci quella della National League for Democracy.
Tuttavia, l’NLD e Aung San Suu Kyi potrebbero incontrare difficoltà nel replicare il grande successo riscosso nel 2015. Negli ultimi cinque anni, la leader birmana non è infatti riuscita a emendare la Costituzione in senso maggiormente democratico, soprattutto a causa degli ampi poteri che l’Esercito ancora detiene sulle questioni di politica interna – il 25% dei seggi spetta di diritto alle Forze armate, secondo l’attuale Carta costituzionale. Inoltre, l’avvento del coronavirus ha accresciuto il malcontento popolare, specialmente tra le minoranze. Molte di queste, che non hanno goduto dell’assistenza sanitaria statale durante la pandemia, si vedranno anche private della possibilità di votare. Il governo infatti, adducendo motivazioni legate al contenimento del virus, ha vietato manifestazioni e chiuso i collegi elettorali in alcune aree di Stati come Shan, Khachin, Rakhine, interessati dalle azioni dei gruppi di insorgenza su base etnica.
Rimangono dunque forti interrogativi sulla rappresentatività del voto e sulla trasparenza del processo, che potrebbero tradursi in nuove proteste contro il riconoscimento dell’esito elettorale. D’altro canto Aung San Suu Kyi, pur vincendo, potrebbe vedersi costretta a formare un governo di coalizione, alleandosi o con i vari partiti minoritari pro-democrazia, o con l’USDP. La formazione di un governo di coalizione potrebbe avere un impatto sulla gestione di alcuni dossier destinati ad essere presenti nell’agenda del prossimo governo, quali la continuazione del processo di pacificazione con i gruppi di insorgenza interni e la gestione dell’emergenza umanitaria legata alla minoranza Rohingya.