ATLAS Trump presenta il piano di pace per la questione israelo-palestinese

ATLAS Trump presenta il piano di pace per la questione israelo-palestinese

Di Veronica Conti e Emanuele Oddi
30.01.2020

Burkina Faso: almeno 39 i morti in un attacco armato nel nord

Sabato 25 gennaio, un commando armato ha attaccato il villaggio di Silgadji, nella provincia settentrionale di Soum, causando la morte di 40 persone.  Il governo burkinabè ha ipotizzato si trattasse di un’azione di matrice jihadista, anche se non c’è stata ancora alcuna rivendicazione. I sospetti delle autorità di Ouagadougou appaiono fondati, soprattutto in virtù dell’offensiva jihadista in corso dal 2015 nel Paese.

Dalle prime ricostruzioni emergono alcuni importanti particolari che, se confermati, delineerebbero un nuovo livello capacitivo dei gruppi armati nella provincia di Soum. Innanzitutto, non è stato un semplice raid, ma un’azione coordinata e con una precisa strategia. Prima di attaccare, i miliziani hanno isolato i sistemi di comunicazione telefonica del villaggio e hanno bloccato le vie di accesso verso Silgadji con delle mine, impedendo così l’arrivo delle Forze Armate. In seguito, la popolazione è stata riunita nel mercato e divisa fra uomini e donne. Dopo questa fase le donne sono state liberate, mentre gli uomini sono stati uccisi. Questa dinamica di azione ricorda molto le tecniche utilizzate da Boko Haram nel nord della Nigeria, a testimonianza di una preoccupante crescita capacitiva dei movimenti di insorgenza burkinabè e, probabilmente, di un contributo addestrativo proveniente dall’estero.

Il Burkina Faso combatte da anni contro i gruppi armati di matrice jihadista diffusi nelle provincie settentrionali, sfruttando i porosi confini dei Paesi saheliani. La maggior parte delle azioni portano la firma del gruppo qaedista Ansarul Islam, ma non mancano crescenti incursioni dello Stato Islamico del Grande Sahara. Entrambi i gruppi sono sempre più attivi, come dimostra la crescita del numero delle vittime, passato da 80, nel 2016, a 1800 nel 2019.

Israele – Autorità nazionale Palestinese: Trump presenta il piano di pace per la questione israelo-palestinese

Il 28 gennaio, il Presidente statunitense Trump ha presentato il piano di pace per il Medio Oriente, con cui Washington propone una soluzione per la questione israelo-palestinese. Atteso da oltre 3 anni, il documento è stato elaborato principalmente dal genero di Trump, Jared Kushner, ed è stato presentato alla Casa Bianca alla presenza del Premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein. Assenti, invece, i rappresentanti palestinesi, da tempo contrari all’impostazione stessa del piano di Kushner.

D’altronde, nei suoi tratti fondamentali, il piano appare evidentemente sbilanciato in favore degli interessi e delle richieste israeliane, mentre quelle della controparte palestinese vengono sostanzialmente ignorate. Gerusalemme diventerebbe capitale di Israele, mentre il futuro Stato di Palestina avrebbe come capitale solo Abu Dis, un sobborgo ai margini della periferia orientale della città santa, e non l’intera Gerusalemme est. Inoltre, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania passerebbero sotto sovranità dello Stato ebraico, che avrebbe anche il pieno controllo della valle del Giordano e quindi del confine con la Giordania. La Palestina sarebbe dunque sostanzialmente un insieme di enclaves dentro Israele, connesse tra loro da tunnel e ponti. Altro elemento che frustra una delle richieste storiche palestinesi è il mancato riconoscimento di qualsiasi forma di diritto al ritorno.

Di fatto, il piano legittima appieno lo status quo che si è venuto a creare nella regione dopo la guerra dei Sei Giorni e dopo decenni di politica israeliana del fatto compiuto. In più, il piano demolisce il diritto internazionale acquisito, dal momento che ignora la risoluzione ONU 242 del ’67 (la quale indica le conquiste territoriali di Israele come “territori occupati”) come punto di partenza imprescindibile per qualsiasi negoziato. Per tali ragioni, il piano rende impossibile per Washington continuare a rivestire quel ruolo super partes di mediatore che ha svolto per decenni, lasciando un vuoto che nessun altro Paese è attualmente in grado di colmare.

Repubblica Centrafricana: 40 morti negli scontri di Bria

Tra il 25 e il 26 gennaio, la città di Bria, importante sito per l’estrazione di diamanti nell’est del Paese è stata teatro di violenti scontri tra due milizie, con un bilancio di oltre 40 morti. Secondo quanto riportato dal prefetto regionale, le violenze hanno avuto inizio sabato, cessando nel pomeriggio di domenica, poco prima dell’arrivo dei caschi blu dell’ONU, presenti nel Paese dal 2014 con la missione di peacekeeping MINUSCA (Mission multidimensionnelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation en Centrafrique).

Stando alle prime ricostruzioni, gli scontri di Bria sono avvenuti tra le milizie del Fronte per la Rinascita della Repubblica Centrafricana, formazione prevalentemente di etnia Runga, e quelle del Movimento di Liberazione dell’Africa Centrale per la Giustizia, referenti dell’etnia Kara, entrambe di religione islamica nonché parte di Seleka. Quest’ultima coalizione di gruppi armati ribelli aveva guidato l’insurrezione contro il Presidente Francois Bozizè nel 2014, provocandone le dimissioni e causando lo scoppio della guerra civile. All’origine delle violenze tra Kara e Runga si pone probabilmente la competizione per il controllo del mercato legale ed illegale dei diamanti, una delle risorse più preziose del Paese.

Gli scontri di Bria sono dunque interni al variegato fronte Seleka e mostrano quanto questa coalizione sia eterogenea e poco coesa. Parallelamente, il Paese continua a vivere lo scontro tra Seleka, espressione delle etnie di religione islamica del nord, e le milizie cristiane meridionali Anti-balaka.  Il timore è che le ostilità possano acuirsi in vista delle elezioni, previste per dicembre 2020. Nel frattempo, l’ex Presidente Bozize è tornato nel Paese e potrebbe scegliere di ricandidarsi al vertice dello Stato, facendo leva sulle milizie che tutt’oggi gli sono fedeli e sulle etnie a lui favorevoli.

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