ATLAS Afghanistan: rapito un contractor statunitense

ATLAS Afghanistan: rapito un contractor statunitense

Di Veronica Conti, Emanuele Oddi e Gianmarco Scortecci
13.02.2020

Afghanistan: rapito un contractor statunitense

Lo scorso 6 febbraio, un contractor americano è stato rapito nella provincia Afghana sudorientale di Khost dove lavorava su progetti logistici per il governo statunitense, tramite International Logistical Support. Non ci sono ancora certezze al riguardo e il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha escluso un coinvolgimento del gruppo, smentendo le prime dichiarazioni di rappresentanti politici afghani,  tra cui l’ex Ministro degli Interni afghano Amrullah Saleh, che imputavano al gruppo la responsabilità dell’accaduto.

La presa di distanze dal rapimento da parte talebana ha messo in luce la volontà dei tealebani di scongiurare  una ricaduta politica dell’incidente sui negoziati in corso con gli Stati Uniti, ripresi proprio nelle scorse settimane dopo lo stallo conosciuto a dicembre per l’attacco talebano alla base militare statunitense di Bagram.

I negoziati, guidati dall’inviato speciale Zalmay Khalilzad (per parte statunitense) e dal Mullah Abdul Ghani Baradar (per parte talebana) stanno tentando di porre termine al pluridecennale conflitto e di stabilire le condizioni per il graduale ritiro delle Forze statunitensi dal Paese, in cambio del termine delle attività di insorgenza, che facilitino il dialogo fra il gruppo e il governo di Kabul, e l’assicurazione da parte dei talebani di scongiurare ogni attacco terroristico condotto dal territorio afghano contro gli Stati Uniti.

Sebbene non sia possibile escludere che il rapimento del contractor possa essere stato dettato dalla volontà del gruppo di lanciare un segnale di forza alla controparte statunitense a fronte di un disengagement americano considerato troppo lento, l’accaduto sembra in realtà essere stata organizzata come iniziativa di alcune frange interne all’insorgenza, contrarie al processo di dialogo con Washington. In primis dal gruppo degli Haqqani, che ha sempre mantenuto una sostanziale autonomia dalla leadership centrale talebana, nonostante la forte convergenza conosciuta nel corso degli ultimi anni. La crisi rischia di paralizzare ulteriormente le delicate negoziazioni, rallentando ancora una volta non solo il graduale ritiro degli oltre 13000 militari statunitensi ancora presenti in Afghanistan, ma soprattutto la definizione delle condizioni per porre termini al conflitto.

Algeria: Daesh rivendica l’attentato a Bordj Badji Mokhtar

Domenica 9 febbraio, un attacco suicida ha colpito la base militare di Bordj Badji Mokhtar, regione sudoccidentale dell’Algeria che confina con il Mali. L’autobomba, guidata da un kamikaze, nel tentativo di entrare nella caserma del distretto ha provocato la morte di uno dei militari di guardia, senza causare, però, ulteriori danni. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico (IS o Daesh). Era dal 2013, con il sequestro degli ostaggi dell’impianto di estrazione di Tigantourine (nei pressi della città di In Amenas) da parte di un gruppo affiliato ad Al-Qaeda, che il sud del Paese non subiva aggressioni di tale rilievo.

Questo attacco assume un particolare significato perché lascia intravedere un’evoluzione del panorama jihadista nel Paese nordafricano. Infatti, fino ad ora l’unica cellula di Daesh presente era sì attiva dal 2014, ma solo nell’area costiera settentrionale. In più questa cellula ha sostanzialmente cessato ogni attività dal 2017.

Dunque, l’attentato di Bordj Badji Mokhtar potrebbe segnalare due possibili dinamiche alternative. Nel primo caso, il responsabile dell’attacco sarebbe una cellula di origine saheliana. L’IS è già radicato nel sud del Mali, nell’area nordorientale del Burkina Faso e sudoccidentale del Niger, ma non era mai arrivato così a nord del Sahel. Nelle stesse aree insistono gruppi affiliati ad al-Qaeda (il GSIM, Gruppo di Supporto all’Islam e ai Musulmani), in particolare nella parte settentrionale del Mali. Un’ipotesi è quindi che la nuova cellula rifletta una nuova configurazione della competizione territoriale tra al-Qaeda e Daesh nella regione, e che si sia formata anche grazie a miliziani fuoriusciti dal GSIM.

Esiste però anche una seconda possibilità che non può essere scartata, ovvero quella di una cellula algerina. In questo caso, dopo un periodo di latenza di quasi 3 anni, la branca locale di Daesh avrebbe trovato nuovi spazi di manovra nelle vaste aree desertiche meridionali del Paese, abbandonando le presidiatissime zone costiere. L’aumento capacitivo del gruppo potrebbe segnalare anche l’apporto di elementi provenienti da altre aree, come ad esempio il teatro libico dove l’IS dal 2016 ha intrapreso una ritirata strategica verso sud. Non si può poi escludere che la crescita della cellula sia dovuta anche a miliziani di origine africana di ritorno dai teatri mediorientali del jihad (Siria e Iraq).

Benin: assalto ad una stazione di polizia a Mekrou – Djimdjim

Nella notte del 9 febbraio, una stazione di polizia di un villaggio nel dipartimento di Alibori nel nord del Paese, è stata attaccata da un commando di una dozzina di uomini, provocando la morte di un poliziotto. Secondo le prime ricostruzioni, gli uomini sono giunti a bordo di motociclette, con machete e fucili. Quest’ultimo elemento, unito alla vicinanza del villaggio al confine burkinabè, lascia supporre  si tratti di un attacco di matrice jihadista.

Fin dal 2015, l’offensiva jihadista nel Sahel ha destato particolare timore di contagio in Benin, sfruttando la porosità dei confini settentrionali. Quest’area di frontiera è interamente abbracciata dal Parco Nazionale W, che da un lato è un terreno difficilmente controllabile per le Forze di sicurezza, dall’altro potrebbe costituire il rifugio ideale per i miliziani che vogliano operare proprio a cavallo fra i due Paesi.

Le condizioni geografiche sono del tutto simili a quelle che sussistono nei confini saheliani e del bacino del Lago Chad e che hanno permesso alle milizie jihadiste di incrementare il loro livello capacitivo, arrivando a strutturare vere e proprie entità parastatali in grado di sopperire alle lacune delle politiche e delle istituzioni governative. Inoltre, in Benin come nel Sahel, le milizie jihadiste capitalizzano le tensioni inter-etniche, trasformando lotte per l’autodeterminazione in rivolte eversive. Nello specifico, nel Paese vige il regime autoritario del Presidente Patrice Talon e un alto tasso di disoccupazione, oggi al 67.2%.

Inoltre, la regione di Albori, vanta la maggiore concentrazione di fedeli musulmani (un quinto del totale della popolazione nazionale ma ben l’81% della popolazione locale) nonché una nutrita presenza di Fulani, pastori semi-nomadi oggi particolarmente esposti ai processi di radicalizzazione a causa delle inascoltate rivendicazioni economiche e politiche.

Myanmar: manifestanti nazionalisti condannano il tentativo di riforma costituzionale

Il 9 febbraio, circa 1000 nazionalisti birmani sono scesi in piazza nelle vicinanze della grande pagoda di Shwedagon di Yangon, per contestare il governo della National League for Democracy (NLD) e le proposte di emendamento della Costituzione del 2008 che, di fatto, garantisce il potere delle Forze Armate nel Paese. Lo scorso gennaio il governo aveva nominato un Comitato per l’Emendamento della Costituzione, formato da 14 partiti politici e una rappresentanza di parlamentari di nomina militare, incaricato di revisionare la Carta ed approvare una lista di emendamenti da proporre poi al Parlamento. Tra le proposte di modifica, il processo di riforma mira a ridimensionare (se non eliminare) la percentuale di parlamentari non eletti presenti in Parlamento e ad abbassare la soglia richiesta per li cambiamenti della Costituzione.  Secondo l’attuale Carta Costituzionale, infatti, il 25% dei seggi in parlamento dev’essere riservata a rappresentanti politici nominati dall’establishment militare ed ogni cambiamento della Costituzione richiede il 75% dei voti espressi dall’Assemblea. I manifestanti hanno espresso il proprio sostegno alle frange militari  e hanno accusato la NLD (partito della leader de facto Aung San Suu Kyi) di non tutelare a sufficienza la maggioranza buddista e la sovranità nazionale del Myanmar.

Oltre alle rivendicazioni politiche, è emerso un forte lato religioso della protesta, in quanto i manifestanti avrebbero anche esposto striscioni contro la minoranza Rohingya – protagonista di una tragedia umanitaria che ha superato i 700000 profughi. L’iniziativa, infatti, era vicina ad esponenti del buddismo intransigente come il monaco Ashin Wirathu, da anni riferimento del Movimento 969 e più volte accusato di organizzare boicottaggi e altri atti persecutori ai danni della minoranza islamica dello stato di Rakhine.

Le proteste hanno riportato in evidenza le molteplici faglie politiche e religiose che segnano il Paese asiatico e che potrebbero aggravarsi in un momento di delicato passaggio politico in vista delle elezioni che dovrebbero tenersi il prossimo novembre. Benchè non appare affatto scontato che il processo di riforma possa andare a buon fine dato che i legislatori selezionati tra le fila delle forze armate godono di potere di veto sugli emendamenti, le manifestazioni hanno contribuito a lanciare un segnale di sostegno e di forza della componente militare dalla piazza, che potrebbe mettere in difficoltà il governo civile in vista dell’appuntamento elettorale di fine anno.

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