Arabia Saudita vs Emirati Arabi Uniti: competizione geo-economica e ricerca di nuovi equilibri nel Golfo
Le Monarchie del Golfo sono da oltre vent’anni al centro di innumerevoli sfide geopolitiche, economiche e strategiche a livello regionale. In questo contesto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) sono risultati tra i protagonisti del clima di forti trasformazioni in corso nell’intera area MENA e nel Golfo Persico in particolar modo. Una tendenza che li ha portati molto spesso ad agire e muoversi in coordinamento, ma causando alcune volte anche rumorosi, se non impensabili, disallineamenti. Uno dei più fragorosi, almeno in tempi recenti, è avvenuto durante il mese di luglio in occasione del vertice dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) allargato anche agli attori internazionali non rientranti nel cartello dell’energia mondiale. Nello specifico, il motivo di tensione ha riguardato la proposta – soprattutto su pressioni di Arabia Saudita e Russia – di aumentare la produzione petrolifera a 400.000 barili al giorno a partire dal mese di agosto, unita all’idea di estendere l’accordo sui tagli alla produzione (siglato nell’aprile 2020) fino alla fine del 2022. Due soluzioni che permetterebbero di evitare fluttuazioni considerevoli dei prezzi del greggio e di mantenerli relativamente alti per il prossimo anno. Tali proposte, però, hanno incontrato la ferma opposizione degli EAU, meno dipendenti dalle rendite petrolifere della controparte saudita – il settore rappresenta il 42% del Prodotto Interno Lordo (PIL) di Riyadh, contro il 30% del PIL di Abu Dhabi – e intenzionati a sfruttare la discussione per ottenere condizioni migliori all’interno dell’OPEC+. Tali frizioni sono dunque risultate inedite all’interno del consesso energetico, facendo immediatamente schizzare il prezzo del petrolio a 81,13 dollari al barile (come non avveniva dal 2018) e spingendo i suoi membri a ricercare velocemente un compromesso. Soprattutto, la disputa ha messo in luce delle divergenze di visione tra le due principali Monarchie del Golfo. Contrariamente all’opinione comunemente assunta nel corso degli anni, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non hanno sempre perseguito obiettivi affini, tanto all’interno dell’OPEC+ quanto sul piano diplomatico locale e regionale. Al contrario, i due Paesi si sono spesso trovati in situazioni di dissonanza e competizione, che hanno causato difficoltà nel trovare soluzioni comuni a problemi condivisi. Se inizialmente tali distinzioni risaltavano soprattutto su un profilo storico-politico – con ripercussioni sulle strategie geopolitiche perseguite nello scacchiere regionale – l’impatto della pandemia da Covid-19 ha fortemente acuito i principali problemi dei due Paesi – primo fra tutti quello economico – dipanando la loro rivalità soprattutto su tale aspetto. Di conseguenza, è importante comprendere quali sono stati e continuano ad essere i maggiori elementi di discontinuità e tensione economico-energetica tra le due monarchie del Golfo, per analizzarne ripercussioni e risonanze anche sugli altri Paesi della regione e per inquadrare possibili prospettive geo-economiche future in epoca post-Covid. L’arrivo della pandemia Covid-19 ha lasciato solchi indelebili per l’assetto economico di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Ad oggi, il PIL saudita è sceso a 677 miliardi di dollari rispetto ai 708 miliardi del 2019, un aspetto che si riflette anche su una perdita di investimenti diretti esteri (IDE) in uscita di 7.722 milioni di dollari, nonché sul tasso di disoccupazione, ad oggi a quota 12,2% (per una popolazione di quasi 36 milioni di abitanti). Anche i dati economici attuali degli EAU sono poco confortanti, con una discesa del PIL a 354 miliardi di dollari (rispetto ai 373 miliardi del 2019), una perdita di IDE in entrata di 1.764 milioni di dollari e un tasso di disoccupazione fermo al 2,6% (dato comunque considerevole, se si considera l’esigua popolazione emiratina, di soli 10 milioni di abitanti). Oltre al generale impatto destabilizzante della pandemia sui sistemi economici dei due Paesi, la battuta d’arresto agli scambi commerciali internazionali e la ferrea imposizione di lockdown hanno lasciato emergere con maggiore incisività problemi economico-strutturali già in parte presenti nelle due Monarchie arabe, come la necessità di svincolarsi dalla dipendenza da petrolio. Il crollo dei prezzi del greggio, accompagnato dai cambiamenti che i due Paesi hanno dovuto intraprendere nei confronti del mercato del lavoro interno, hanno “costretto” Riyadh ed Abu Dhabi a dover potenziare gli ambiziosi programmi di riforme strutturali già avviati negli scorsi anni, così da diversificare le proprie economie nel minor tempo possibile per prepararsi a far fronte a un possibile futuro meno dipendente dagli idrocarburi (il picco della domanda di petrolio si profila intorno al 2030). Un passaggio quasi obbligato, ma nel quale i due Paesi si ritroveranno sempre più in competizione, dovendo riconfigurare un intero mercato del lavoro contendendosi risorse scarse. Un primo segnale di questi cambiamenti è emerso lo scorso 16 febbraio, quando l’Arabia Saudita ha chiesto alle proprie aziende di trasferire le sedi regionali all’interno del territorio del Regno, in un tentativo di ridurre il dominio degli EAU come polo di riferimento commerciale e nel terziario all’interno dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). L’obiettivo saudita è di attirare fino a 500 multinazionali sul suo territorio entro un decennio, cercando così di rivaleggiare con gli EAU, che detengono il record su scala regionale ospitando circa 140 sedi. Una misura di cui si cominciano a vedere gli effetti – ad oggi già ventiquattro grandi compagnie internazionali hanno annunciato la loro intenzione di trasferire le loro sedi regionali a Riyadh – e alla quale si aggiunge l’annuncio delle autorità saudite dello scorso luglio di porre fine alle tariffe preferenziali per gli Stati del Golfo che comprano prodotti nelle zone franche della regione, affermando che tutte le merci fabbricate in tali aree non saranno più considerate come prodotte localmente. Offrendo notevoli vantaggi fiscali, le zone franche abbondano sul suono emiratino (ad oggi se ne contano una cinquantina, di cui le principali sono Ajman, Dubai, Ras al-Khaimah e Sharjah) e costituiscono uno dei motori dell’economia degli EAU, come testimonia il caso di Dubai, dove secondo il Dubai Free Zones Council tali aree hanno contribuito al 31,9% del PIL dell’emirato nel 2018. Inoltre, la loro presenza ha aiutato a far sì che gli Emirati divenissero il secondo partner commerciale dell’Arabia Saudita dopo la Cina in termini di importazioni, una posizione ad oggi, tuttavia, altamente compromessa dalla nuova politica commerciale di Riyadh. La vigorosità delle nuove misure saudite e i rischi concreti che queste potrebbero apportare alla superiorità economica degli EAU hanno portato questi ultimi a rispondere nell’immediato con diverse politiche a beneficio delle imprese straniere, proponendo addirittura una riduzione del 94% delle tasse per le aziende che intendono aprire una sede nella Federazione e investire in loco. Una mossa che dimostra come gli EAU vogliano puntare su agevolazioni nel settore degli investimenti per cercare di non perdere il vantaggio comparato detenuto fino ad ora rispetto alla controparte saudita. Una solida e coordinata fornitura di servizi essenziali per i grandi centri, eccellenti sistemi di comunicazione e un ben strutturato settore finanziario quasi privo di vincoli sui cambi valutari sono solo alcune delle caratteristiche che hanno già reso gli EAU un luogo attraente agli investimenti globali. Ad oggi, tuttavia, il governo di Abu Dhabi vuole spingersi oltre, puntando in particolar modo sul settore immobiliare e su quello infrastrutturale – soprattutto per quanto riguarda i trasporti – in nome della sostenibilità. Una volontà, inoltre, che emerge chiaramente con Expo 2020, attraverso cui Dubai mira a proiettare un’immagine tecnologica e sostenibile di sé. Al contempo, attirare una maggiore attenzione degli investitori internazionali costituisce una priorità anche per l’Arabia Saudita. Tuttavia, Riyadh è ancora molto indietro rispetto ad Abu Dhabi, che ha impostato la sua strategia di diversificazione economica ben prima del 2016 (anno in cui il Principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha annunciato una volontà di incentivare il mercato degli investimenti globali con l’ambiziosa Vision 2030). Un ritardo che le autorità saudite sperano tuttavia di ricucire puntando anche all’implementazione di nuove riforme legali, soprattutto basate sulle strutture di credito. Oltre a ciò, vi sono diversi altri settori destinati a vivere il clima di competizione economica tra sauditi ed emiratini. Primo fra tutti quello turistico, dove l’Arabia Saudita spera di inserirsi strategicamente. Con i suoi grattacieli e resort di lusso, Dubai detiene il primato regionale nell’industria turistica (specie nel luxury), ma molte delle principali attrazioni dell’Emirato cominciano ad essere datate, necessitando di ristrutturazioni onerose che richiederebbero anche capitali esteri. Di conseguenza, Riyadh vorrebbe approfittare di questo aspetto per “rubare” turisti agli EAU, puntando anche a forme di turismo non solo religioso. L’Hajj e l’Umrah, ossia i pellegrinaggi nelle città sante della Mecca e Medina, continuano a costituire un canale preferenziale (attirando nel periodo per-Covid fino a 19 milioni di pellegrini ogni anno per un valore di 12 miliardi di dollari, il 7% del PIL del Regno) ma il Paese possiede molti siti naturali di grande splendore, sui quali potenzialmente investire per adattarli al turismo di massa. Alcuni di questi sono localizzati nella regione dell’Aseer lungo la costa saudita del Mar Rosso, già investita da piani infrastrutturali di alto profilo finanziario da diverso tempo. Lo scorso febbraio il Fondo d’Investimento Pubblico (PIF) dell’Arabia Saudita ha infatti lanciato un progetto di investimenti da 3 miliardi di dollari per costruire 2.700 camere d’albergo, 1.300 unità residenziali e 30 attrazioni commerciali e di intrattenimento nella regione entro il 2030, ma la recente dichiarazione del 28 settembre di Mohammed bin Salman di voler ampliare tale strategia immettendo liquidità nel mercato locale fino a 12 trilioni di riyal (circa 3.000 miliardi di dollari) dimostra un avanzamento in tal senso. Senza dimenticare che, se la costruzione della Jeddah Tower verrà ultimata nel breve periodo, l’Arabia Saudita possiederà la torre più alta del mondo, lanciando un chiaro segnale delle sue ambizioni di divenire competitiva anche nell’industria turistica di lusso. A tal proposito, un esempio emblematico è riscontrabile guardando a quanto sta avvenendo ad al-Ula, città nel nord-ovest del Regno e sede lo scorso gennaio di un significativo quanto politicamente evento legato al GCC. Grazie agli oltre 27.000 siti archeologici risalenti all’epoca dei Nabatei, tale città scolpita nella pietra è stata dichiarata patrimonio UNESCO nel 2008. Riyadh intende accrescerne la notorietà progettando un resort turistico di lusso all’interno del sito stesso entro il 2024, con all’interno quaranta suite, tre ville, un centro conferenze e quattordici padiglioni privati. In aggiunta, l’Arabia Saudita sembra voler competere anche nel settore della Difesa, modernizzando la Saudi Arabian Military Industries (SAMI) per far fronte all’Emirates Defense Industries Company (EDIC). Un settore dall’enorme potenziale, ma dove gli EAU potranno ancora detenere un vantaggio comparato per effetto degli Accordi di Abramo grazie anche al possibile utilizzo di tecnologie militari israeliane, alle quali l’Arabia Saudita potrebbe non avere un accesso diretto. Infine, non si può omettere la rivalità in ascesa nell’attirare manodopera straniera altamente qualificata, necessaria ad entrambi per colmare le lacune domestiche in termini di manodopera e competenze. I Paesi del Golfo si sono sempre largamente serviti di forza lavoro migrante per portare avanti i propri sistemi economici – proveniente soprattutto dalla regione mediorientale (Egitto e Giordania per lo più) o dalle realtà dell’Asia Meridionale (Pakistan, Bangladesh, India e Sri Lanka) e del Sud Est asiatico (Indonesia e Filippine su tutti) – ma tale nucleo costituisce essenzialmente manodopera a basso costo e poco qualificata. Al contrario, gli ambiziosi programmi di diversificazione economica a cui le petro-monarchie ambiscono adesso richiedono competenze all’avanguardia, un aspetto che obbliga entrambi i Paesi a cercare strategie per attrarre figure professionali qualificate con grandi competenze. Ad oggi, sia EAU sia Arabia Saudita hanno già provveduto ad emettere dei visti speciali destinati a questa specifica categoria di lavoratori, e gli Emirati hanno addirittura considerato la possibilità di offrire loro la cittadinanza, una concessione molto rara in tutti i Paesi GCC. È dunque altamente probabile che entrambe le Monarchie del Golfo continuino a introdurre misure di questo tipo, così da facilitare l’ingresso di lavoratori stranieri e portare avanti i propri modelli di sviluppo. In conclusione, il clima di forte evoluzione vissuto nell’area del Golfo sembra spronare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ad intraprendere percorsi sempre più autonomi a livello economico. Tali discontinuità sono state ulteriormente accelerate dalla pandemia da Covid-19, che ha inaugurato un inedito clima di rivalità economica tra i due principali membri arabi dell’OPEC+. Una nuova competizione commerciale che tocca plurimi settori (sistema di tassazione, localizzazione delle imprese, investimenti, turismo, difesa, manodopera) e che sembra destinata a durare, vista la necessità delle due monarchie di riadattare le proprie economie ad un futuro post-idrocarburi. In questo scenario, c’è dunque da aspettarsi che i due Paesi continuino ad intraprendere strategie economiche sempre più assertive, che interessino inoltre un sempre maggior numero di settori lavorativi e produttivi. Tutti elementi che potrebbero apportare cambiamenti significativi all’equilibrio commerciale e finanziario finora tenuto in piedi dalle due Monarchie arabe, nonché nell’intera area del Golfo.