Terrorismo e riforme: l'emergenza sicurezza nel Maghreb
Middle East & North Africa

Terrorismo e riforme: l'emergenza sicurezza nel Maghreb

By Andrea Ranelletti
11.04.2013

Messi in difficoltà dal simultaneo deterioramento della stabilità regionale e della sicurezza nazionale, i governi di Tunisia, Libia e Algeria stanno cercando di stringere accordi di cooperazione per ottenere maggior controllo su quanto accade lungo i loro confini. Mentre Tunisia e Libia faticano nel portare a compimento la loro transizione verso la democrazia e l’Algeria si prepara ad affrontare un probabile cambio di presidenza, al confine tra Maghreb e Sahel continuano a proliferare movimenti criminali di varia natura, la cui crescita danneggia gravemente il controllo delle autorità statali. Combattenti jihadisti, organizzazioni attive nel traffico di merci di contrabbando e movimenti di ribellione contro le autorità nazionali stanno congiungendo le rispettive agende per aumentare l’efficacia delle proprie azioni. La natura ibrida di questo nemico accresce la difficoltà degli Stati della regione nel rispondere alle sue offensive.

Sono varie le ragioni alla base della progressiva destabilizzazione del Maghreb: la storica fragilità dei confini tra i vari Stati, il cui controllo si è dimostrato ancora più difficile a seguito delle rivoluzioni del 2011; l’enorme flusso di armi seguito alla guerra civile libica; l’indebolimento delle forze dell’ordine e dei sistemi di sicurezza dei Paesi coinvolti nelle rivoluzioni; la diffusione dell’ideologia jihadista nella regione. Se a tali concause si aggiunge la strutturale ingovernabilità della fascia del Sahel, la cui instabilità è stata spesso definita cronica, si comprende la complessità del quadro che si è venuto a tracciare nel corso degli ultimi anni.

Movimenti criminali con identità e scopi differenti stanno conducendo le proprie azioni in maniera più efficace, beneficiando del momento di crisi che i Paesi della regione stanno attraversando. Le reti del contrabbando transnazionale e le organizzazioni jihadiste stanno erigendo nuove roccaforti nelle aree più disagiate degli Stati del Maghreb, dove la disoccupazione è in crescita, la desertificazione industriale si sta aggravando e il malcontento verso le istituzioni nazionali affonda con più forza le proprie radici nel tessuto sociale.

Culla dei movimenti di protesta che hanno dato vita alle Primavere arabe, la Tunisia sta affrontando un momento di particolare difficoltà nel suo percorso verso la democratizzazione. Per un periodo, dopo la vittoria delle elezioni per la Costituente da parte del partito islamico moderato Ennahda nell’ottobre del 2011, il Paese è parso destinato a proporsi come modello per la difficile transizione dalla dittatura alla democrazia e per verificare le possibilità di compromesso tra Islam politico e partiti laici. A mettere a dura prova la tenuta di tali processi è stata però l’esplosione della violenza estremista nel Paese: militanti islamisti dell’organizzazione salafita Ansar al-Sharia – recentemente messa fuorilegge dal Governo Laarayedh - sono stati accusati di aver assassinato i due politici di sinistra Mohamed Brahmi e Chokri Belaid e di essere responsabili dell’agguato presso i monti Chaambi in cui a fine giugno scorso sono caduti otto soldati tunisini e dell’assalto del settembre 2012 all’Ambasciata statunitense a Tunisi. La recente uccisione di sette membri delle forze di polizia da parte di combattenti probabilmente legati all’ambiente salafita nel governatorato settentrionale di Beja indica il livello raggiunto dalla battaglia tra Stato e militanza jihadista.

A due anni dalla morte dell’ex dittatore Gheddafi, la Libia non riesce a uscire dal vortice dell’instabilità. Conclusa la sanguinosa guerra civile che ha causato la morte di circa 50mila civili, le istituzioni della nuova Libia non sono riuscite a disarmare le milizie armate che hanno combattuto contro le forze del vecchio regime. Il risultato attuale è la trasformazione delle suddette brigate in nuclei armati di potere, attive nel portare avanti le loro battaglie in aperto contrasto con il governo guidato dal premier Ali Zeidan. La debolezza delle forze dell’ordine e dell’esercito nazionale consentono a una commistione di milizie, clan locali e bande islamiste di mantenere il controllo su ampie porzioni del territorio nazionale, fornendo occasionalmente copertura alle organizzazioni criminali attive nella regione.

Passata attraverso l’ondata rivoluzionaria del 2011 senza subire le trasformazioni di Tunisia, Libia ed Egitto, l’Algeria ha rivelato un maggior grado di stabilità rispetto ai suoi vicini. Nonostante ciò, rimangono numerose le ragioni di preoccupazione per il governo algerino. L’assalto terroristico del gennaio 2013 condotto da un gruppo di jihadisti coordinati da Mokhtar Belmokhtar contro il sito estrattivo di In Amenas, nell’Est del Paese, ha rivelato come, a oltre dieci anni dalla fine della guerra civile, il problema della guerriglia estremista continui a interessare il Paese. Qui, infatti, restano attivi i numerosi nuclei di combattenti che compongono al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI): si ritiene che l’emiro dell’organizzazione, Abdelmalek Droukdel, trovi ancora riparo nella regione della Cabilia, un centinaio di chilometri ad est di Algeri.

Ad accomunare i tre Paesi vi è inoltre la profonda sperequazione tra le principali aree urbane, che beneficiano in maggior misura degli investimenti statali e dove il livello di occupazione è più alto, e le regioni arretrate, dove si annida una povertà di lunga data e la presenza delle istituzioni statali è storicamente debole. È in questi luoghi in cui regnano il malcontento e la criminalità comune che le organizzazioni criminali trovano riparo ed effettuano la loro opera di proselitismo.

Nonostante il traffico di uomini, droghe, armi e merci di contrabbando sia antecedente ai giorni del cosiddetto “risveglio arabo”, l’indebolimento delle istituzioni nazionali e dei sistemi di controllo seguito alle Primavere ha comportato un aggravamento della situazione. La Tunisia e la Libia sono diventati i principali crocevia di questi traffici: le rotte del contrabbando “buono” che nell’estate del 2011 rifornivano i cittadini libici dei beni di prima necessità non più presenti sul loro mercato sono oggi percorse dai mercanti d’armi, droghe, automobili, carburanti e di altri beni, che continuano ad arricchirsi facendo affari con le milizie irregolari. Carichi di armi hanno lasciato la Libia nel corso dell’ultimo biennio, diretti verso il Mali, la Siria e altre zone di conflitto.

I principali movimenti jihadisti attivi nella regione stanno beneficiando dei legami stretti con le organizzazioni che si occupano del traffico di armi e di altre merci, utili al finanziamento della battaglia per l’instaurazione di stati islamici nella regione. Uno dei più famigerati jihadisti del Nord Africa, quel Mokhtar Belmokhtar che dopo aver lasciato le fila di AQMI ha fondato una propria milizia attiva a cavallo tra Maghreb e Sahel, è soprannominato il “narco-jihadista” per via del suo coinvolgimento nel contrabbando di droghe e sigarette.

La consapevolezza dell’impatto che la fragilità dei confini nazionali ha sulla sicurezza dell’intera regione maghrebina ha spinto i principali Paesi dell’area ad adottare misure atte a garantire una migliore collaborazione transfrontaliera. Una lunga serie di incontri e un accordo firmato tra i rappresentanti di Libia, Algeria e Tunisia a inizio del 2013 hanno avuto come obiettivo l’aumento della cooperazione tra i governi alla ricerca di una soluzione agli effetti provocati dalla porosità dei confini. La Tunisia ha reso noto di avere in programma la realizzazione di una buffer zone in varie aree (non meglio specificate) lungo i confini con Algeria e Libia. A inizio settembre, l’Algeria ha fatto sapere che decine di migliaia di uomini delle sue Forze speciali sono stati mobilitati nelle aree al confine con la Libia e la Tunisia per pattugliare alcune delle rotte più battute dalle organizzazioni criminali. I soldati si aggiungono ai 12mila uomini inviati precedentemente dal governo algerino a controllare le province di confine di Tebessa e Souk Ahras, lungo la frontiera con la Tunisia.

Lo scorso agosto, l’Algeria ha inoltre aumentato il numero di controlli atti a diminuire il fenomeno del contrabbando di carburanti e altri beni di consumo lungo il suo confine con il Marocco. L’azione, finalizzata a ridurre l’impatto economico del traffico di carburanti verso il Marocco orientale, è probabilmente dettata dall’intenzione di soffocare la rodata economia clandestina cui anche le organizzazioni jihadiste attive nell’area attingono.

L’assenza di cooperazione nella lotta al terrorismo e al contrabbando tra Marocco e Algeria, Paesi contrapposti da annose dispute territoriali e da un’ostilità che risale ai giorni della decolonizzazione, è uno dei principali ostacoli alla stabilizzazione del Maghreb. In Marocco ancora oggi le organizzazioni jihadiste portano avanti la loro opera di proselitismo efficacemente: un valido esempio è quello di Sham al-Islam, movimento ribelle attivo in Siria, guidato dal militante marocchino Brahim Benchekroun e composto in larga parte da suoi connazionali. Al-Qaeda nel Maghreb Islamico fa inoltre ampio affidamento sul reclutamento di giovani combattenti dal Marocco per portare avanti la propria battaglia nel Nord del Mali e per destabilizzare il Sud dell’Algeria.

Rimane inoltre aperta l’annosa questione legata alle comunità tuareg presenti nel Sahel. Originari della fascia desertica che tocca Libia, Algeria, Mali, Niger e Burkina Faso, i tuareg sono stati spesso indicati dagli osservatori internazionali come i soli possibili alleati dei vari Stati nella messa in sicurezza dell’area. Nonostante ciò, una lunga storia fatta di diritti negati e istanze autonomiste frustrate pone le varie confederazioni tuareg in conflitto con le autorità statali della regione sin dalla fase post-coloniale. L’alleanza stretta in Mali nel 2012 tra i separatisti tuareg del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad) e l’organizzazione jihadista Ansar Eddine per combattere l’esercito nazionale maliano segnala come dall’incapacità dei vari Stati di dar vita a politiche inclusive nei confronti della comunità possa derivare un grave elemento di destabilizzazione.

Una combinazione tra l’instabilità interna ai vari Paesi e un rafforzamento dei legami che uniscono le varie organizzazioni criminali attive nel Maghreb e nel Sahel portano oggi una seria minaccia agli equilibri dell’intera regione. Se l’intervento militare franco-africano in Mali del gennaio scorso ha permesso di indebolire la minaccia qaedista, non è però stato sufficiente a eliminare gli snodi nevralgici di una struttura criminale che trae la propria forza dalla sua eccezionale capillarità. Per risolvere il problema alla base sarà in primo luogo indispensabile porre rimedio agli squilibri istituzionali che caratterizzano i vari Paesi, in maniera tale da garantire una nuova efficacia alla lotta regionale contro il terrorismo e il contrabbando.

Sarà infine impossibile portare un duro colpo all’attività di proselitismo effettuata da organizzazioni criminali e jihadiste nelle aree più povere senza identificare nuove strategie per ridurre il sottosviluppo e la povertà nelle aree più depresse: qualora non si riesca a costruire un sistema di sostegno statale in grado di rilanciare l’investimento nelle aree più arretrate dei vari Paesi diminuire l’attrattiva dell’alternativa criminale, non sarà semplice ridurre la presa delle organizzazioni attive nella regione.

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