Dopo il voto, la Tunisia e Saied sono al bivio
Middle East & North Africa

Dopo il voto, la Tunisia e Saied sono al bivio

By Andrea Fusco
10.16.2024

L’esito delle elezioni presidenziali di domenica 6 ottobre in Tunisia non ha offerto sorprese in merito alle previsioni dei giorni e mesi precedenti: Kais Saied è stato riconfermato alle urne raccogliendo poco più del 90% di voti rispetto a un’affluenza pari al 28,8%. Nella terza tornata elettorale dell’esperienza politica tunisina post-2011, i dati riportati difficilmente possono essere valutati come indici di un sistema in salute. Dall’insediamento a Palazzo Cartagine nel 2019, Saied ha progressivamente esteso le prerogative presidenziali fino ad arrivare a luglio 2021, data in cui attraverso la connivenza dell’esercito e il supporto dell’apparato poliziesco e mediatico ha sospeso la Costituzione, sciolto il Parlamento e assunto materialmente il controllo effettivo del Paese. Precisamente un anno dopo, questo processo è stato formalizzato dall’adozione di una nuova Costituzione che ha sostituito il precedente sistema semi-presidenziale con un iper-presidenzialismo, privo dei classici elementi di check and balances per garantire l’equilibrio tra legislativo, esecutivo e giudiziario.

Da quel momento in poi, il livello di repressione del dissenso nel Paese si è significativamente innalzato, portando a una campagna di arresti e rimozioni d’incarichi tanto nel ramo governativo quanto in quello della giustizia. L’ultima vicenda in ordine cronologico si è presentata a ridosso delle stesse elezioni, dopo che un contenzioso tra il tribunale amministrativo di Tunisi e l’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni (ISIE), si è risolto con l’approvazione di un disegno di legge che estrometteva qualsiasi altro organo differente dall’ISIE (vicino a Saied) dal sindacare sulla legittimità delle candidature nella corsa elettorale. Sfidando due candidati rispetto ai diciassette che ad agosto si erano presentati per concorrere alle urne, Saied ha salutato lo schiacciante risultato del 6 ottobre appellandosi alla popolazione tunisina per “portare a compimento i valori rivoluzionari” contro detrattori e cospiratori che intendono sabotare il processo innescato dalla Primavera Araba nel Paese. La retorica conflittuale adottata dal 2021 è diventata un tratto distintivo della strategia politico-narrativa di Saied, che negli anni ha cercato di rivangare agli occhi della popolazione un’immagine di se stesso come ultimo protettore/salvatore di uno Stato in balia da minacce interne (migranti sub-sahariani e imprenditori corrotti) ed esterne (pressioni di organizzazioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale). Al di là delle derive autoritarie verso le quali sembra procedere il Paese, quel che maggiormente desta preoccupazione è, in particolare, la condizione socio-economica in cui versa la Tunisia, tanto da non escludere che dinanzi ad un aggravamento profondo e incontrollato della situazione nazionale possa essere in bilico, nel medio/lungo termine, l’apparente solidità del sistema modellato da Saied. La stagione pandemica (2020-2021) e il conflitto russo-ucraino (2022)hanno colpito in modo rilevante l’economia tunisina: l’importante settore del turismo, che rappresenta almeno il 7% del PIL, ha vissuto una sostanziale perdita che lentamente sta recuperando (durante il 2020 il crollo è stato del 70%) seguito dalle difficoltà logistiche ed economiche nell’approvvigionamento di grano (circa il 40% delle importazioni arriva da Kiev e il 7% da Mosca, dove i costi sono aumentati in media tra il 40% e il 50%) causato da un periodo di grave siccità e l’aumento vertiginoso dei costi d’importazione dell’energia(+370%), che hanno contribuito a generare la spirale economica negativa nella quale si trova oggi il Paese. Tuttavia, i risultati del 2023, tra cui un tasso di crescita economica quasi nullo (0,4%), l’inflazione al 9,3%, un debito pubblico rapportato al PIL che si attesta intorno al 100%, sembrano legati più a una gestione interna inefficiente anziché a fattori esogeni sfavorevoli. Dopo un declassamento delle agenzie di rating, la ricerca di fondi per ripagare gli obblighi esteri e sostenere i costi interni è stata orientata verso due misure che a lungo termine hanno danneggiato l’erario del Paese: l’utilizzo di riserve di valuta estera e l’indebitamento nei confronti di banche e privati. Concretamente, l’aver attinto a sostanziali quote di riserve in valuta estera per ripagare i debiti contratti, ha esercitato una forte pressione sul dinar tunisino, aumentando il costo delle importazioni e di conseguenza l’inflazione, che allo stato attuale sembra si sia stabilizzata intorno al 7,5%. Mentre gran parte della popolazione risente dell’innalzamento dei prezzi e della progressiva carenza di beni essenziali sul mercato (tra cui medicine, farina, carburante), il settore privato si trova in una posizione di stasi dovuta al dirottamento delle spese destinate agli investimenti o l’erogazione di prestiti per coprire i debiti contratti dal Paese.

Anziché promuovere politiche per sostenere le realtà economiche (piccole e medie imprese) più colpite da queste misure, il Presidente Saied ha continuato a favorire una ristretta cerchia oligarchica che domina il settore dell’industria e dei servizi, attraverso canali privilegiati d’accesso al credito e una regolamentazione che rende molto difficile l’immissione di nuovi soggetti competitivi nei mercati. Allo stesso modo, anche le imprese statali (SOE) hanno beneficiato di un impianto normativo che ha assicurato loro ricavi attraverso la vendita dei prodotti a prezzi protetti, generando un sistema ipertrofico dal punto di vista burocratico che, assicurato dal sostegno statale, non ha stimolato incentivi rivolti all’efficienza e alla produttività. Il percorso intrapreso partendo da questi principali punti chiave ha portato al circolo vizioso vigente, in cui le banche creditrici rischiano periodicamente il default per sostenere le imprese pubbliche e i debiti contratti dallo Stato, che distribuendo in modo inefficiente sovvenzioni e sussidi continua a portare avanti spese che superano la disponibilità finanziaria del Paese: il risultato è il già citato innalzamento dei prezzi di generi alimentari standard (+9,2% in un anno), dei servizi principali (8,8% in un anno), un tasso di disoccupazione giovanile che si attesta al 39% (tra il 15 e il 20% della popolazione totale) e una grave crisi del settore agricolo colpito da stagioni prolungate di siccità e carenza di investimenti per manutenzione e infrastrutture.

Un ultimo elemento di valutazione, parimenti rilevante per provare a comprendere le prospettive che si aprono in Tunisia dopo la riconferma di Saied, riguarda il rapporto con gli attori esterni, nazionali e sovranazionali. Come già anticipato, il Presidente ha permeato i suoi discorsi pubblici utilizzando una retorica contro la presenza di attori esterni interessati alla destabilizzazione del Paese, che vorrebbero imporre le proprie prerogative per spezzare il processo rivoluzionario: lo scontro con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) lo scorso anno, accusato di imporre dei “diktat” per l’erogazione di un prestito da 1,9 miliardi, è un esempio calzante rispetto a questo discorso. Bloccando le trattative che si poggiavano su alcune riforme strutturali richieste dal FMI, come la privatizzazione di alcune SOE o la riduzione di sovvenzioni statali per controllare i prezzi, Saied ha cercato una dimostrazione di forza, in ragione del fatto che la stabilità della Tunisia per il quadrante mediterraneo è nota a molti attori, specialmente per quanto riguarda il discorso migratorio. Negli ultimi anni il Paese nordafricano ha raggiunto il primato per quanto riguarda le partenze verso il Continente europeo, superando la Libia con più di 97.000 persone disposte a tentare la rotta marittima in cerca di nuove prospettive. Questi dati hanno chiarito in primo luogo ai Paesi dell’Unione Europea quanto sia importante evitare l’implosione socio-economica dello stato tunisino, ma il passo indietro compiuto da Saied nei confronti del FMI ha condizionato lo stesso memorandum d’intesa con Bruxelles (luglio 2023) per l’iniezione di un pacchetto d’aiuti intorno ai 900 milioni di euro finalizzato a risanare il debito e promuovere la pace sociale interna al Paese. Tuttavia, il legame tra tutela dei diritti umani e riforme economiche strutturali ha aumentato il sospetto del presidente tunisino nei confronti dei partner europei presi congiuntamente, spingendoli a preferire la firma di accordi bilaterali con il Paese scavalcando Bruxelles. Tra questi, l’Italia è stato probabilmente l’attore che si è speso maggiormente per mediare un accordo di riconciliazione tra le parti, in ragione dell’apprensione dovuta al dossier migratorio (le coste italiane rappresentano spesso l’opzione principale e meno pericolosa per chi prende la via marittima) ed energetico: il gas proveniente dall’Algeria deve percorrere infatti poco più di 350 chilometri in territorio tunisino per arrivare a Roma attraverso il gasdotto Transmed. Per queste ragioni il governo Meloni ha tentato più volte di richiamare al pragmatismo le condizioni suggerite da Bruxelles, arrivando a un accordo per una prima tranche di finanziamenti immediati (pari da 150 milioni), oltre ad aver approfondito la collaborazione bilaterale. I nuovi investimenti sul territorio tunisino, dalle infrastrutture energetiche con Eni ed Enel fino al protocollo d’intesa su digitalizzazione e connettività promosso dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, si aggiungono al flusso che pone l’Italia al primo posto tra i partner commerciali tunisini, con un volume di scambi che si attesta intorno ai 3,43 miliardi di euro. Nonostante questo, altri attori hanno dimostrato interesse nel preservare la stabilità di Tunisi e valutarne al contempo le opportunità economiche a livello d’investimenti nel territorio. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti si sono inseriti nel triangolo Tunisi-FMI-UE in un primo momento, specie da parte saudita, per mediare nella controversia con il Fondo Monetario Internazionale e convincere Saied ad accettarne le condizioni. Le intenzioni dei Paesi del Golfo hanno seguito parallelamente una traiettoria orientata agli stretti interessi politici interni, valutando le opportunità in termini economici di investire in Tunisia come parte dell’esteso programma di diversificazione nelle entrate, per sganciarsi dalla storica dipendenza dai ricavi nel commercio degli idrocarburi. Elemento rilevante in questa valutazione, da parte di Saied quanto per chi osserva l’evoluzione dei rapporti che si stanno delineando, è la differenza richiesta da questi soggetti in termini di contropartita per un sostegno economico. Se FMI e Unione Europea legano il proprio supporto a condizionalità che riguardano riforme strutturali di liberalizzazione e (in misura minore) la tutela dei diritti umani, attori come i sauditi o gli emiratini assolvono da queste responsabilità il governo tunisino, puntando a inserirsi in modo più deciso all’interno di aziende e infrastrutture critiche del Paese.

Il mosaico d’interessi e attori che guardano con preoccupazione verso Tunisi per impedire una crisi migratoria e una destabilizzazione che dal centro del Mediterraneo può estendersi tanto verso il “Vecchio Continente”, quanto nella fascia nordafricana e mediorientale, si scontra con la personalità e la narrazione portata avanti da Saied. Unendo i punti finora evidenziati si ha l’impressione che, senza un urgente e sostanziale intervento in campo economico, l’ordine costituito possa essere minato da una forte rottura della pace sociale costruita su basi fragili. In breve, la progressiva pauperizzazione di un’ampia fascia di popolazione (esacerbata dalle diseguaglianze tra centro e periferia), la mancanza o l’aumento eccessivo nei prezzi di beni di prima necessità e la ricerca di un capro espiatorio (interno ed esterno) sono tra i principali elementi da tenere in considerazione, anche per quanto concerne le modalità attraverso le quali Saied intenderà agire. Molti indicatori economici suggeriscono che un intervento esterno per supportare le gravi condizioni dei bilanci statali (e delle banche che li sostengono) sia necessario per la sopravvivenza del sistema, pertanto il nuovo mandato del presidente sarà verosimilmente orientato verso un approccio più accondiscendente verso gli attori esteri e le richieste avanzate. L’incognita riguarda i soggetti coinvolti maggiormente e le misure intraprese, giacché per procedere verso questa direzione, sarà necessario smuovere alcuni capisaldi del potere per com’è stato organizzato fino ad ora da Saied: che si tratti di privatizzazioni, inserimento di operatori stranieri sul territorio senza l’intermediazione statale o riforme di austerità eliminando sussidi inefficienti, il presidente tunisino dovrà mascherare il passo indietro pur di non rimanere vittima di se stesso. La posta in gioco è alta, poiché nel Paese che aprì la stagione delle Primavere Arabe, una popolazione relativamente giovane si trova ad affrontare da anni una diffusa crisi economica, idrica e politica scandita da livelli repressivi crescenti. Se si aggiunge, come ultimo punto, che la scelta di migrare in cerca di migliori condizioni è esclusa per la fermezza con cui lo stesso Saied ha chiuso i confini, la possibilità di una nuova e violenta crisi sistemica non è più così remota all’orizzonte.

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